Angelo Forgione – Tra chi confonde le idee e chi si ammanta di una moralità che proprio non ha, Ancelotti è tornato nel calcio italiano come una mosca bianca nella battaglia culturale contro razzismo e discriminazione territoriale. Ha squarciato i silenzi, e anche le parole degli impostori… come quelle di Andrea Agnelli e della sua Juventus, che presenta ricorso contro la chiusura di un settore del suo stadio, a differenza della ben più dignitosa Inter, cui va un plauso per non essersi ribellata al giudice sportivo. E ancora complimenti all’Unesco per la scelta del partner nella difficile lotta culturale del Football.
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Vicino a Ruffo nella follia del pallone
Angelo Forgione – Le parole pronunciate ad Agorà da Federico Ruffo, il reporter che ha condotto l’inchiesta di Report sui rapporti tra il mondo Juventus e quello della ‘ndrangheta, sono davvero chiarificatrici di un clima di follia che vive il nostro paese fondato sul pallone, sgonfio peraltro.
Ruffo è un giornalista di inchiesta al servizio di un programma attendibile, serio, prima ancora che tifoso della Juve. Un giornalista che per amore del suo lavoro e della verità non ha esitato a fare informazione e approfondimento su un lato oscuro della sua squadra del cuore. La conseguenza calcolata era che non avrebbe potuto più andare allo stadio, non avrebbe potuto più godersi una partita della sua squadra al bar o in un club. Rovinarsi la ricreazione non era un rinuncia impossibile per chi voleva fare il proprio lavoro, e bene, ed era niente in confronto all’ignominia delle intimidazioni che avrebbero preso piede. Ruffo le sta subendo. Dalle minacce e dagli insulti sul web, montati alle prime anticipazioni dell’inchiesta, si è passati alle vie di fatto. Benzina versata sulle scale della sua abitazione romana, non oltre la porta di casa solo perché il suo cane ha allontanato gli ignoti intrusi, non prima di aver verniciato una croce rossa sulla parete del ballatoio. Qualche esaltato che voleva “solo” spaventare Federico o qualcosa che avrebbe dovuto concludersi più drammaticamente?

foto: Il Mattino
A Ruffo esprimo la mia più completa vicinanza, e non è frase di circostanza, perché posso immaginare cosa stia patendo da un mese a questa parte. Da anni, e cioè da quando mi spendo nella mia attività in cui spesso analizzo fatti di calcio sotto il profilo sociologico, ricevo messaggi di insulti e minacce sul web, pubblici e privati, da parte di tifosi juventini. Almeno dal 2012, quando portai alla ribalta nazionale l’indegno servizio del TgR Piemonte in cui il giornalista Giampiero Amandola, all’esterno dello Juventus Stadium, invitava due supporters bianconeri a riconoscere dalla puzza i tifosi napoletani.
Offese scritte che non sono nulla rispetto all’odore di benzina che si è insinuato nella testa di Ruffo. Solidarietà da chi interpreta l’informazione come una questione seria e delicata, e poi c’è chi invece continua a puntare il dito su tutta la redazione di Report, in queste ore accusata dai tifosi juventini di aver architettato un complotto con la stampa napoletana perché si creasse un clima di odio nei confronti dell’ambiente bianconero.
Intimidazioni, minacce e violenze verbali hanno minato la serenità di un professionista che non campa di antijuventinismo ma di giornalismo, di quello serio e utile, non certo come quello di certi “pennaruli”, ai quali non dovrei dare neanche asilo in questo pezzo se non finissero per farsi opportunamente querelare dalla vittima e se non servisse a far intendere che per fede calcistica si può arrivare alla completa cecità, ma di quelle bieche e pericolose.
Sergio Vessicchio, per esempio, campano di Agropoli, direttore della testata online Tuttojuve.net, autore di un cervellotico editoriale con il quale ha messo in dubbio la sincerità di Ruffo, la veridicità delle sue denunce, l’autenticità delle sue sofferenze. Vessicchio non crede a una sola parola di Ruffo, e lo definisce “un giornalista comunista che fa la vittima per ottenere visibilità e consenso”, e magari qualche voto in una futura tornata elettorale. Lo scritto di Vessicchio, che se la prende anche con Maurizio Pistocchi, è chiaro frutto di una difesa ideologica di fede juventina, la stessa di Ruffo, ma declinata in modo disonorevole, privo di professionalità, di rispetto e di sensibilità nei confronti di un uomo provato da un momento difficile. Indegno modo di difendere non la categoria dei giornalisti ma la Juventus e la sua sfera, azionando la macchina del fango già alla vigilia, a inchiesta solo annunciata: “si sta creando un’attesa fuori da ogni aspettativa per questa Report solitamente tv fangaiola ispirata da merdaioli comunisti che hanno nel dna l’odio sociale. Falliti. (…) Pur di di veder distrutta la cosa più bella che questa ex nazione vanta fanno di tutto”.
Per un tifoso non c’è niente di peggio che condividere la fede sportiva con un personaggio noto e credibile che denuncia chi rappresenta quella stessa fede. E infatti il tifoso giornalista Vessicchio non è nuovo ad attacchi a giornalisti veri, quelli seri prima che juventini. Qualche tempo fa si scagliò anche contro Marco Travaglio, reo di aver dichiarato pubblicamente che la Juve non lo avrebbe interessato più finché avrebbe vinto con l’inganno e per aver accusato Andrea Agnelli di non riconoscere le sentenze, poi di frequentare ancora il radiato Luciano Moggi e dopo anche i mafiosi. Non poteva tollerare, Vessicchio, che la credibilità di Travaglio minasse l’immagine di una “società modello nel mondo”.
Ma il tifoso giornalista è “famoso” anche per altre avventate uscite di diverso genere di cui ne porta traccia il web. E però questa contro Ruffo è certamente la peggiore, quella più inopportuna, e bene ha fatto il reporter della Rai ad annunciare querela.
Il clima di odio attorno ai giornalisti che raccontano la realtà del calcio, e non solo, non ci piace. Vessicchio è la dimostrazione che questo bruttissimo clima lo creano i tanti tifosi giornalisti e non i giornalisti tifosi, che forse sono pochi, ma abbastanza per non far sentire solo Ruffo. No che non lo è, e anche io sono con lui.
Padovan: «a Napoli stupidi pagliacci». Ma la città ancora lo attende in pellegrinaggio.
Angelo Forgione – Duro attacco di Giancarlo Padovan al Napoli per il tweet del club di De Laurentiis dopo la sconfitta della Juventus contro il Manchester: “Siamo l’unica squadra italiana imbattuta in Champions League”.
Tweet che lascia il tempo che trova, anche discutibile per tempismo, ma che non mente, non racconta bugie, ed esprime un dato di fatto quantunque effimero. Ma il giornalista veneto, ex direttore di Tuttosport, lo giudica come espressione di una società ridicola, “intellettualmente stupida”, composta da “nesci”, cioè ignoranti, mentre in Italia un club davvero si auto-attribuisce traguardi illegittimi e li mostra nel suo “salotto” in barba alle sentenze di revoca dei tribunali sportivi.
A proposito di serietà, stiamo ancora attendendo il pellegrinaggio a piedi di Padovan da Milano a Napoli, promesso lo scorso maggio per pagare il pegno della incredulità circa l’approdo di Ancelotti all’ombra del Vesuvio. Carlo c’è arrivato mentre Giancarlo, dopo quasi sei mesi, nei dintorni della meta pagana del San Paolo pare proprio di no, e nessuno l’ha visto. Anzi, non si è proprio avviato. È ancora a Milano, sempre lì, a deridere il Napoli. Eppure aveva avvisato in pompa magna di mantenere la promessa, ammonendo che lui era persona seria.
La stoltezza è inesauribile, la serietà no.
“Alto Piemonte”, un capitolo da aggiungere a ‘Dov’è la Vittoria’
Angelo Forgione – Attenzione a non sminuire l’inchiesta della trasmissione Report (Rai), trasmessa nella sua prima parte il 22/10/18 e incentrata sull’inchiesta “Alto Piemonte” e connessioni tra i dirigenti della Juventus e alcuni ultrà legati alla ‘ndrangheta. Sarebbe operazione per chi voleva vederla con l’ottica del tifoso anti-juventino e sperava fortemente in un nuovo scandalo da processare, non sapendo che lo scandalo, invece, è già stato processato in due sedi di giudizio su tre. Piuttosto, è stata utilissima per divulgare ciò che non poteva conoscere chi non aveva letto le carte. E a me, interessato al reale racconto di un calcio italiano sempre marcio dal 1898, non pare poco.
I giornalisti e gli scrittori hanno il dovere di raccontare il vero mondo del calcio, non quello finto che tanto piace a coloro che sguazzano in interessi di ogni tipo e lucrano sulla passione della gente, ben sapendo che gran parte della massa non è critica, non vuole che gli si rovini la ricreazione e perciò non vuole rendersi conto di ciò che accade al di fuori del rettangolo di gioco, senza indignarsi e negando persino l’evidenza. Ecco perché l’inchiesta di Report mi tornerà necessaria per integrare prossimamente il mio Dov’è la Vittoria.
“È così ovunque”. Questo è quello che dice, per generalizzazione, chi ha visto l’inchiesta televisiva. È vero che la Commissione Parlamentare Antimafia ha indagato sulle curve della Juventus, del Genoa, della Lazio, del Catania e del Napoli e ne è venuto fuori una differenza di atteggiamento da parte dei dirigenti della Juve e di quelli del Napoli. I bianconeri hanno favorito una vera e propria invasione della malavita nella gradinata Sud dello Stadium per il controllo del bagarinaggio, mentre gli azzurri hanno chiuso le porte della società a certi fenomeni, mostrandosi quale esempio assoluto. I più oltranzisti tifosi bianconeri, ma non solo loro, invece di pretendere un comportamento corretto dai dirigenti della loro squadra del cuore, e di sentirsi danneggiati da certe pratiche illecite, preferiscono insinuare connivenze del club di De Laurentiis con certi personaggi, riproponendo ostinatamente la figura di Antonio Lo Russo, figlio del boss Salvatore, a bordo campo durante il match Napoli-Parma del 10 aprile 2010, dimenticando che la DDA di Napoli, ascoltata dall’Antimafia, ha più volte precisato che il rampollo Lo Russo ebbe accesso a bordo campo con un pass fornito dalla ditta esterna che curava il manto erboso, non dalla SSC Napoli, che invece fornì anche in quell’occasione la massima collaborazione mettendo a disposizione tutta la documentazione sulle persone che avevano accesso a bordo campo.
L’inchiesta della Commissione Parlamentare Antimafia non è quella dei magistrati antimafia di Torino che hanno condotto il processo “Alto Piemonte”, indagando su una cricca di criminali romeni per poi scoprire che la Gradinata Sud della Juventus era stata infiltrata dalla ‘ndrangheta. Rocco e Saverio Dominello, boss della cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, si erano accordati con gli altri gruppi della curva per entrare nel business del bagarinaggio.
La sentenza di secondo grado della giustizia penale ha accertato che la Juventus “era ben disposta, come emerso da testimonianze e intercettazioni, a fornire agli ultrà cospicue quote di biglietti e abbonamenti perché li rivendessero e ne traessero benefici e utili, ottenendo come contropartita l’impegno a non commettere azioni violente”. Dunque, la Juve, secondo i magistrati, non è parte lesa e non si è neanche costituita parte civile.
Lasciamo stare l’ex tifoso Fabio Germani, presidente della fondazione “Italia Bianconera”, condannato in appello per concorso esterno in associazione mafiosa, conosciuto nel mondo della ‘ndrangheta piemontese come frequentatore della famiglia Agnelli e colui al quale Lapo Elkann si rivolse nella primavera del 2009 per ottenere l’esposizione degli striscioni in curva con su scritto “Lapo Presidente” in modo da scalzare il procugino Andrea nella corsa alla presidenza dell’allora disastrosa Juventus di Cobolli Gigli e Jean-Claud Blanc. Lasciamo stare anche la figura di Bryan Herdocia, un criminale daspato che continua ancora oggi a gestire il bagarinaggio direttamente da casa sua per conto dei Drughi; così come il leader degli Ultras dei “Bravi Ragazzi”, Andrea Puntorno, vicino al clan mafioso Li Vecchi e alla ndrina dei Macrì di Siderno, attualmente detenuto per traffico di droga, che grazie ai proventi dalla rivendita dei biglietti ottenuti dalla Juventus ha acquistato due case e un panificio.
Quel che deve interessare di più è l’operato di un tabaccaio di Cuneo che ha fornito all’ex capo ultrà Raffaello Bucci, Vice Supporter Liaison Office della Juventus FC, decine di ricevute di giocate al Lotto, tutte con lo stesso numero vincente, e poi centinaia di Gratta&Vinci, di SuperEnalotto. Un metodo della ‘ndrangheta per riciclare denaro sporco, grazie a ricevitorie compiacenti che non pagano direttamente il vero vincitore ma lo liquidano in contanti che fornisce chi deve riciclare i soldi, il quale entra così in possesso della scheda vincente e la incassa a proprio nome senza pericolo di contestazione.
Quel che deve interessare è che la Juventus non ha solo lasciato campo aperto a certi soggetti ma se ne è proprio avvalsa per mantenere un certo “ordine” allo stadio, e ha venduto migliaia di biglietti agli ultrà nella consapevolezza che li avrebbero rivenduti a prezzi maggiorati.
L’uomo chiave non è certamente l’unico che ha scontato per intero l’inibizione comminata dal Tribunale Sportivo, ovvero Francesco Calvo, ex direttore marketing del club e oggi alla Roma. Un tempo era il migliore amico di Andrea Agnelli, ma lasciò il club nell’autunno del 2015, quando il presidente della Juventus, alla faccia dell’amicizia, rubò il cuore di sua moglie, la modella turca Deniz Akalin.
L’uomo chiave, piuttosto, è Alessandro D’Angelo, il capo della Securety della Juventus FC, figlio dell’autista di Umberto Agnelli e perciò amico d’infanzia di Andrea Agnelli, che lo ha assunto nel 2011 in bianconero per curare un ruolo delicato, e non l’ha certo licenziato per il suo operato concordato. È ancora in carica D’Angelo, inizialmente inibito dalla giustizia sportiva e poi riabilitato per “difetto di giurisdizione sportivo-disciplinare”. Stesso destino per Stefano Merulla, responsabile della biglietteria.
Altro uomo chiave è Raffaello Bucci, poi suicidatosi all’indomani delle deposizioni rese ai magistrati che indagavano sui rapporti tra Juve, ultrà e ‘ndrangheta. Era una sorta di ministro delle finanze del più importante gruppo ultras, i Drughi del temutissimo pregiudicato Dino Mocciola; aveva gestito per anni il bagarinaggio favorito dalla Juventus stessa all’esterno dello Stadium, e aveva pure concordato con D’Angelo l’introduzione nell’impianto di striscioni vietati, con frasi ingiuriose riferite alla tragedia di Superga, esponendo la Juventus al pagamento di una multa salatissima. Ricatti ai quali il club sottostava pianificando l’elusione dei controlli invece di serrarli, avvalendosi delle attività ristoranti dell’impianto sportivo, ma finendo nella rete della videosorveglianza. Dalle intercettazioni telefoniche tra i due pare addirittura che non precisati alti dirigenti del club avessero detto a D’Angelo di non fare più da solo in certi casi ma di avvertirli in modo da ricevere aiuto e di evitare figuracce. Ad ogni modo, nonostante il pericolosissimo profilo del Bucci, pure informatore dei servizi segreti, dopo qualche tempo, la Juventus FC, invece di denunciarlo, lo ingaggiò come Vice Supporter Liaison Office, la figura che cura i rapporti tra ultrà, dirigenza e forze dell’ordine. Vice-SLO, insomma, collaboratore sul campo dello SLO, rispondente al nome di Alberto Pairetto, fratello di Luca, arbitro di Serie A e figlio di Pierluigi, ex arbitro e poi designatore arbitrale, fino a quando non fu travolto da Calciopoli, condannato in appello a due anni salvo poi finire in prescrizione. Secondo l’accusa, uno di quelli a cui Luciano Moggi telefonava su schede svizzere per scegliersi gli arbitri amici. Ancora oggi la FIGC percepisce proventi di sponsorizzazione dalla Fiat Chrysler Automobilies N.V., un’azienda che, come la Juventus FC SpA, è partecipata in maggioranza dal gruppo Exor N.V., controllato dalle famiglie Elkann/Agnelli.
L’inchiesta “Alto Piemonte” non ha colpito la Juventus FC ma ha parzialmente scoperchiato le responsabilità non penali di una società che ha aperto le porte ai soggetti peggiori, magari non sapendo che fossero mafiosi, ma certamente conoscendo i loro metodi e le loro intenzioni; una società che ha favorito l’introduzione di striscioni ignominiosi nel suo stadio, conoscendone il contenuto; una società che ha presentato un ricorso contro la squalifica della curva dei suoi ultrà più radicati per discriminazione territoriale; una società che, già macchiata dai passati processi (culminati nelle prescrizioni) per le alterazioni delle potenzialità della squadra sul campo, è di fatto corresponsabile della degenerazione etica e ambientale dell’impianto sportivo di sua proprietà. Questa società, che evidentemente non può insegnare etica a nessuno, è partner dell’UNESCO, capofila al fianco dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura nella lotta alle discriminazioni nel calcio. Inaccettabile. Ecco perché, dopo aver scritto a quelli di Parigi, ho aperto una petizione on line contro una simile partnership per sollecitare una risposta.
Per firmare la petizione on line clicca qui
Lettera all’UNESCO: “la Juventus non può affiancarvi nella lotta al razzismo”
Se non si intende arrestare i cori contro Napoli, che almeno non si faccia paladino della battaglia contro i razzismi chi non lo è.
Lettera inviata all’UNESCO (italiano e inglese)
Gentile Comitato UNESCO,
Gentile Direttrice Generale Audrey Azoulay,
Vi scrivo in merito alla Vostra partnership con lo Juventus Football Club in tema di lotta al razzismo negli stadi.
Recentemente, lo Juventus FC ha subito un turno di squalifica del settore dello stadio occupato dai gruppi di tifosi organizzati per cori di discriminazione territoriale nei confronti di Napoli durante la partita Juventus-Napoli del 29/09/18. Si tratta di cori che si ripetono continuamente un po’ in tutta l’Italia ma più ampiamente nell’impianto sportivo del club torinese, durante ogni partita, non solo quando è in campo il Napoli. I cori invocano tragiche eruzioni del Vesuvio e l’uso del sapone da parte del popolo napoletano, definito “coleroso”, mentre invece ha insegnato l’igiene personale all’Italia e anche oltre, come ci testimonia Miguel de Cervantes con la citazione del “pregiato sapone di Napoli” nel suo Don Chisciotte.
Al termine della partita Juventus-Napoli, l’allenatore bianconero, Massimiliano Allegri, ha risposto ai giornalisti di non aver sentito certi cori, invece ascoltati in modo nitido da tutti i telespettatori a casa. La dirigenza del club ha poi incaricato il suo avvocato, Luigi Chiappero, di presentare ricorso presso la corte sportiva nazionale. Il legale ha definito il comportamento dei tifosi bianconeri “indifendibile”, ma ha contestato la sentenza perché certi cori sono tipici di tante tifoserie e non solo dei tifosi juventini, e infatti altre squalifiche sono state inflitte a diversi club in passato.
La Corte Sportiva Nazionale ha respinto il ricorso della Juventus e ha anche aggravato la sanzione: le gare da disputare con il settore interdetto sono passate a due.
Questo è il club che l’UNESCO ha abbracciato come partner nella lotta al razzismo nei stadi qualche anno fa, e che proprio ieri, sempre in tandem, ha lanciato il video “Football’s power to overcome discrimination” in occasione della campagna promossa da Fare (“Football Against Racism in Europe”), partner UEFA.
Dal sito della Juve, beffa delle beffe nella giornata della figuraccia, si legge che “la Juventus crede nel potere del calcio come strumento di lotta a ogni tipo di discriminazione, legata a sesso, razza, religione, disabilità, età, etnia, origine o status economico (…)”.
È questo lo stesso club che nell’autunno 2012 non ha preso le distanze dai alcuni sui tifosi e da un giornalista della Rai che, all’esterno dello stadio torinese, prima di Juventus-Napoli, registravano un servizio televisivo in cui si diceva che i napoletani si riconoscono dalla puzza, come i cinesi (La Rai chiese scusa a tutti gli italiani per questo).
www.youtube.com/watch?v=eagfgenZhtc
È lo stesso club che nell’autunno del 2015 ha presentato presso la Vostra sede di Parigi la ricerca Colour? What Colour? (https://www.youtube.com/watch?v=ZbR_4r7A2NY) in cui si legge che “la decisione più saggia sulla discriminazione territoriale consiste forse nel tollerare, temporaneamente, queste forme tradizionali di insulto catartico”.
Definire “catartico” un coro discriminatorio verso altri italiani è vergognoso, così come è vergognoso invitare a tollerarlo perché “tradizionale”.
pag. 73: http://www.juventus.com/media/native/csr/Report%20UNESCO_ita.pdf
Concludendo, Vi chiedo se l’UNESCO si sia reso conto che un club che è suo partner nella lotta al razzismo non contrasta il razzismo dei suoi tifosi verso altri italiani e piuttosto prova a nasconderlo. Questo club, Vostro partner nella lotta al razzismo, ha presentato ricorso contro una sanzione per razzismo e l’ha perso malamente. Questo club è ipocrita e non può essere esempio in tema di discriminazione, soprattutto perché in Italia i cori negli stadi contro i napoletani si ascoltano più di quelli contro i neri.
Vi chiedo infine se vi siete resi conto che una partnership con lo Juventus Football Club è imbarazzante per un’organizzazione mondiale che tutela l’educazione e la cultura.
Un club che finge di lottare contro il razzismo, che non ne prende le distanze, che finge di non sentire i cori contro Napoli, che ricorre contro le punizioni per discriminazione territoriale, che si nasconde dietro a una indegna abitudine diffusa, che è presieduto da un manager squalificato dalla giustizia sportiva per connessioni con tifosi legati alla ‘ndrangheta, come si evince dell’inchiesta “Alto Piemonte”, non può essere partner dell’UNESCO.
Indignato, attendo una Vostra risposta quanto prima.
Cordiali saluti,
Angelo Forgione
Napoli
Dear UNESCO Committee,
Dear Director-General Audrey Azoulay,
I am a journalist and historical writer and researcher, with a special interest in promoting Naples and its culture.
I am writing to you with regard to your partnership with Juventus Football Club concerning the fight against racism in stadiums.
Recently Juventus FC was hit with a one-match closure of the “ultrà” fans’ stand because of territorial discrimination chants against the city of Naples during the Juventus-Napoli game (29/09/18). These chants are continuously repeated all over Italy and to an even greater degree by Juventus fans during every game, not just when SSC Napoli is playing at the Juventus Stadium. The chants refer to tragic eruptions of Vesuvius and call for the use of soap by Neapolitans, defined as “cholera people”, who instead taught personal hygiene to others in Italy and beyond, as Miguel de Cervantes teaches us with the quotation about the “prized soap of Naples” in his Don Quixote.
At the end of the Juventus-Napoli match, Juventus coach Massimiliano Allegri told journalists that he had not heard the chants, which had, however, been clearly heard by all the viewers who had been watching at home. The club’s management then instructed their lawyer, Luigi Chiappero, to appeal to the National Sports Court. The lawyer called the behaviour of the Juventus fans “indefensible”, but he argued against the sentence because certain chants are typical of many clubs’ fans and not just Juventus fans, and in fact other Italian clubs have had stand closures in the past.
The National Sports Court rejected the appeal by Juventus FC and also made the penalty more severe: the number of matches to be played with the stand closed has increased to two.
This is the club that UNESCO embraced as its partner in the fight against racism in stadiums a few years ago. Just yesterday, again jointly, it launched the video “Football’s power to overcome discrimination” as part of the campaign promoted by Fare (“Football Against Racism in Europe”), a partner of UEFA.
On the Juventus site, really taking the biscuit on the day they made fools of themselves, we read that “Juventus believes in the power of football as a tool to fight against any form of discrimination linked to sex, race, religion, disability, age, ethnicity, origin or economic status (…)”.
It is the same club that in autumn 2012 did not distance itself from some of its fans and a RAI journalist who, outside the Juventus Stadium, before a Juventus-Napoli game, recorded a TV report stating that you can recognise Neapolitan fans from their smell, like the Chinese (Rai apologised to all Italians for this; Juventus did not).
www.youtube.com/watch?v=eagfgenZhtc
It is the same club which in the autumn of 2015 presented the Colour? What Colour? research at your Paris office (https://www.youtube.com/watch?v=ZbR_4r7A2NY), which states that “the wisest decision concerning territorial discrimination would probably be to tolerate for the time being these traditional forms of cathartic insult“.
pag. 73: http://www.juventus.com/media/native/csr/Report%20UNESCO_ita.pdf
To define as “cathartic” a racist chant directed towards other Italians is shameful, just as it is shameful to invite people to tolerate it because it is “traditional”.
In conclusion, I would ask you whether you have noticed that a club that is your partner in the fight against racism is not combatting the racism of its own fans towards other Italians and is instead hiding it. This club, your partner in the fight against racism, appealed against a racism penalty and it went very badly. This club is hypocritical and cannot serve as an example when it comes to discrimination, especially because in Italian stadiums chants against Neapolitans are now heard as often as those against black people.
Lastly, I would ask you whether you have realised that your partnership with Juventus is an embarrassment for a global organisation that safeguards education and culture.
A club which pretends to fight racism, which says nothing to distance itself from it, which pretends not to hear chants against Naples and which appeals against punishments for territorial discrimination, hiding behind a shameful widespread habit, which is chaired by a manager disqualified by the sporting court about link with supporters belonging to the mafia “ndrangheta” in the “High Piemonte” investigation, cannot be a UNESCO partner.
Indignant, I await your prompt reply.
Yours sincerely,
Angelo Forgione
Naples – IT
Agnelli e De Laurentiis, esempi opposti di approccio al tifo deviato
Angelo Forgione – Giunge la sentenza del Tribunale nazionale della Federcalcio nel processo ad Andrea Agnelli per i rapporti non consentiti con gli ultrà: un anno di inibizione per il presidente della Juventus e ammenda di 300 mila euro per il club bianconero. Solo parzialmente accolte le richieste del procuratore della FIGC Pecoraro, in quanto il Tribunale ha ritenuto che il patron bianconero era inconsapevole del presunto ruolo malavitoso dei soggetti incontrati. Strano, però, visto che in un’intercettazione telefonica del marzo 2014 qualcuno disse ad Alessandro D’Angelo, addetto alla sicurezza allo Juventus Stadium, «Il problema è che questo ha ucciso gente», riferendosi al milanese Loris Grancini, capo dei Viking, personaggio vicino ai clan siciliani e calabresi. Gli inquirenti informarono che quel qualcuno era Andrea Agnelli, ma poi si è fatto complicato capire se si trattasse del presidente o di Francesco Calvo, ex responsabile del marketing bianconero. In ogni caso, di dirigenti della Juventus si trattava.
Intanto sappiamo che le risorse derivanti dal bagarinaggio favorito da Agnelli e Calvo sono andate alla criminalità organizzata. Chissà se un giorno riusciremo a sapere anche perché Raffaello Bucci, capo del gruppo ultras bianconero dei Drughi, assunto dalla Juventus come consulente esterno ufficiale di collegamento tra la tifoseria e il club, in contatto con la Digos e servizi segreti, si suicidò dopo l’interrogatorio dei piemme che indagavano sulla ‘ndrangheta allo Stadium.
Atteniamoci però alla sentenza del Tribunale federale. Agnelli sapeva che erano ultras ma non sapeva che erano mafiosi. Ma la Juventus, in ogni caso, si segnala ancora una volta per violazione delle norme federali, stavolta quelle che vietano ai dirigenti delle società sportive di intrattenere rapporti con gli ultrà. E prosegue la non edificante tradizione della famiglia Agnelli, soprattutto quella del ramo di Umberto, il padre di Andrea, che avviò nel 1994, non appena conquistata la presidenza del club e dopo 8 anni di digiuno del club, l’era più macchiata della storia juventina, tra scandalo doping (prescrizione) e calciopoli.
Alla luce delle certezze fornite dalla sentenza, vale la pena ricordare quel che accadde più a sud nel 2004, quando Aurelio De Laurentiis si mise alla guida della SSC Napoli e tagliò ogni laccio con i rappresentanti degli ultrà delle curve dello stadio San Paolo. Dopo poco più di due anni, nel dicembre 2006, la prima ritorsione eclatante. Campionato di serie B: nel bel mezzo di Napoli-Frosinone improvvisa pioggia in campo di potentissimi petardi “cobra”, lanciati dal settore Distinti. Le intemperanze durarono diversi minuti e costrinsero l’arbitro Orsato a sospendere più volte la gara. La giustizia sportiva inflisse poi una giornata di squalifica al San Paolo. Le indagini scoperchiarono un fenomeno estorsivo ai danni del Napoli e appurarono che il club di De Laurentiis aveva tagliato la fornitura di biglietti alle sigle ultras capeggiate da pregiudicati. Per tutta risposta, gli “esagitati” avevano deciso di intervenire in maniera coatta, prima dando fuoco al “dirigibile” dello stadio destinato alla stampa e poi “manifestando” nella gara contro i ciociari. Uno dei responsabili così aveva minacciato un dirigente partenopeo: «Ho campato con il Napoli [di Ferlaino] per 50 anni, anche tu e Pierpaolo Marino (ex Dg) tenete i figli. Mi sono fatto quattro anni di galera, se ne faccio altri quattro non succede niente». Gli arrestati finirono a processo e condannati per associazione a delinquere, incendio doloso, lancio di esplosivi, minacce e tentata estorsione. E pagarono anche i danni al Napoli, che li chiese costituendosi parte civile. Tutto finito? Neanche per idea. Col Napoli in crescita, iniziarono a verificarsi strane rapine ai suoi calciatori e alle loro compagne. Un collaboratore di giustizia rivelò che le incursioni avevano un’unica matrice: gruppi di ultrà intenzionati a punire i giocatori che non partecipavano alle manifestazioni organizzate dai tifosi.
L’Antimafia, chiaramente, ha interrogato anche De Laurentiis nel corso delle indagini a tappeto sull’intero movimento calcistico italiano, contestandogli la presenza a bordo campo del rampollo del boss della camorra Lo Russo, ma esponendosi a una figuraccia con l’interrogato, che gli ha puntualmente ricordato che il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli aveva già chiarito illo tempore che quell’uomo non era un latitante al momento dei fatti, che accedeva regolarmente sul rettangolo di gioco con pass da giardiniere procuratogli dalla ditta che curava il prato, e che la SSC Napoli aveva offerto la massima collaborazione alla Direzione Investigativa Antimafia, dimostrando la sua totale estraneità.
E poi la querelle tra De Laurentiis e Reina, col presidente che, alla cena sociale dello scorso maggio, invitò pubblicamente la moglie del portiere a controllarne “le distrazioni”, e pochi giorni dopo furono arrestati tre fratelli imprenditori in odor di camorra, amichevolmente disponibili nei confronti di Pepe.
Racconto tutto questo perché i buontemponi del tifo cieco continuano ancora oggi a citare a sproposito fatti di cui il Napoli è stato esempio e di cui Napoli è stata vittima in ambito mediatico.
Loris Grancini parla ai microfoni di Fanpage nel marzo 2017
Discriminazione territoriale: cronistoria della resa del calcio italiano
Angelo Forgione – Ancora a parlar di cori di discrimazione territoriale negli stadi, e il disco andrà avanti per molto altro tempo ancora, tra chi si indigna, chi sorvola serenamente e chi promette impegno per risolvere il problema. La verità è che nessuno vuole più provarci peché il problema è culturale, ha radici storiche, fa parte della “cultura” italiana e non è risolvibile senza un’educazione al rispetto. Chi è nelle stanze dei bottoni lo sa benissimo e preferisce non mettervi mano. L’unico tentativo compiuto è misaremente fallito, e si è rivelato un boomerang per l’immagine del calcio italiano, che ha quindi preferito sotterrare tutto e silenziare il problema.
Fu l’UEFA a chiedere provvedimenti a tutte le 53 federazioni europee, dopo aver approvata la risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo durante il 37° Congresso Ordinario di Londra del maggio 2013, in cui il Parlamento del Calcio europeo decise di inasprire le pene per i casi di razzismo. Partirono gli ormai famosi spot coi volti dei calciatori a pronunciare «No to racism», e la FIGC recepì le nuove direttive, modificando il proprio codice di giustizia sportiva e stabilendo la chiusura dei settori degli stadi in caso di manifestazioni discriminatorie. L’effetto finì col peggiorare il problema e squalificare l’Italia agli occhi del mondo, col susseguirsi di chiusure di porzioni di impianti a Milano, Torino, Roma e non solo, dove i tifosi dimostrarono alle società di infischiarsene e di reggere serenamente un braccio di ferro da vincere ad ogni costo contro la Giustizia Sportiva. Toccò a Carlo Tavecchio, appena eletto, dar sfogo alle pressioni dei dirigenti dei grand club e a riconvertire le sanzioni in semplici multe a danno delle società sportive, ben disposte a darsi il piccolo pizzicotto sulla pancia pur di spegnere le polemiche. Solo che Tavecchio esordì malissimo e il fantomatico Opti Poba lo fece squalificare in ogni sede internazionale, prima dall’UEFA e poi dalla FIFA. Per salvare la faccia al calcio italiano si immolò Andrea Agnelli, con uno studio presentato all’UNESCO nel novembre 2015 in cui l’insulto discriminatorio veniva ritenuto innocuo e definito “catartico”.
È in questi passaggi che è racchiusa la cronistoria della resa del calcio italiano alla storia d’Italia. Pagano i napoletani, non tutti i meridionali, e continueranno a incassare perché la storia ha voluto così.
È il Napoli “più” di sempre la grande bellezza del calcio italiano
Angelo Forgione – Napoli ai preliminari di Champions League. Così impone la classifica a una squadra che ha sgretolato tutti i suoi record, e non solo i suoi. Inutile snocciolarli, valga per tutti il punteggio in classifica: 86 punti. È stato il Napoli più produttivo della storia, con una media punti di 2.26 a partita, la più alta di sempre, superiore anche a quella del Napoli scudettato 1989/90, a quota 2.11 nella conversione dei tre punti per vittoria, e a quello del 1986/87 (1.90), ma anche al primissimo Napoli di Sarri (2.15).
Al traguardo, il Napoli degli 86 punti e della grande bellezza non ha vinto il tricolore, non la Coppa Italia, e neanche ha centrato la qualificazione diretta in Champions. Ma non si può non evidenziare che la prima Juventus di Conte, nel 2012, ha fatto bingo con 84 punti, il Milan di Allegri, l’anno prima, con 82, come l’Inter del triplete di Mourinho. Ad alzare la quota scudetto, evidentemente, è stata la fame dell’ambiziosissimo Andrea Agnelli, voglioso di dimostrare ai cugini Elkann di essere manager all’altezza (e loro replicano ora con la Ferrari) e assatanato nel voler cancellare ogni concorrenza, nel voler battere il record di tricolori consecutivi, compreso quello conseguito dal nonno Edoardo. Sì, la Juventus ha messo in bacheca l’ennesimo tricolore e la Roma ha tamponato, di riffa o di raffa, la rincorsa azzurra. E tutti a chiedere a Sarri e ai suoi cosa sia mancato al Napoli. È mancato in autunno l’assetto trovato in inverno. È mancato qualche punto delittuosamente perso per strada. È mancata la forza economica della Exor e forse anche il debito che la Roma, assai spinta dagli arbitri lungo tutta la stagione, ha con Goldman Sachs. Ma il gruppo napoletano sente di non essere inferiore a nessuno, e vuole riprovarci dall’inizio, ripartendo da dove è rimasto, con gli equilibri trovati, per giocarsi lo scudetto davvero.
L’Olanda di Crujiff insegna che non è necessario essere vincenti per lasciare il segno nel football. Questo Napoli, la grande bellezza del calcio italiano, un segno lo sta lasciando. «È la squadra che gioca il miglior calcio d’Italia, tra le più spettacolari d’Europa», dicono i più titolati, da Guardiola a Capello. Ma alla banda-Sarri il bollino HQ non basta più.
Intanto cala il sipario su una stagione iniziata col grande tradimento, mitigato dall’immediato impatto di Milik. Una quadratura subito trovata e presto persa, con la necessita di trovare rimedio al traumatico infortunio del polacco in nazionale. Gabbiadini dentro, a Crotone, ma immediatamente espulso per una follia a centrocampo. Opportunità fallita, e Sarri convinto che la soluzione non poteva essere il poco sereno attaccante in cui non credeva. C’era Mertens a scalpitare, che già dalla primissima doppietta di Pescara aveva lanciato sguardi fulminanti al mister. Un po’ di rodaggio, con la squadra ad applicarsi attorno al suo tecnico, e poi il sangue si è sciolto: da Gennaio in poi, il Napoli ha iniziato a crescere, fino a diventare una vera e propria macchina da guerra. Milik, uscito da indispensabile a ottobre, è rientrato da comparsa a febbraio.
Gioco spumeggiante e meccanismi perfetti, palla nascosta a occhi chiusi, goal a raffica a rendere meno gravi quelli subiti di troppo, e Mertens, il rimedio, più goleador di Higuain in bianconero. Quasi tutti gli avversari asfaltati e Napoli campione di primavera, cioè primissimo nel girone di ritorno, coperto di complimenti e consensi. Ma non può finire qui.
Per il sodalizio azzurro si tratta pur sempre del diciassettesimo podio della sua vita sportiva, il quinto nelle ultime sette stagioni, che vale l’ottava partecipazione consecutiva alle competizioni europee, record nazionale in fieri. Si tratta di un club ben assestato nell’élite del calcio italiano ma anche in quello europeo, molto più saldamente del Napoli di Ferlaino sotto il profilo finanziario. Eppure la piazza è divisa, in una sterile diatriba oppositiva nei confronti di uno scorbutico presidente che opera in un territorio in cui è improbo fare impresa ad alti livelli, un imprenditore tronfio proprio perché consapevole di cosa voglia dire fare Calcio d’alto livello al Sud. Una parte della tifoseria pretende di più, nella convinzione che siano solo la passione e l’ampiezza di seguito a determinare le opportunità di un club e non le condizioni territoriali, che invece generano i più importanti vantaggi e limiti, a seconda di dove si operi. Un altro presidente, quello degli scudetti nati da sacrifici insostenibili, sollecita il rischio d’impresa, quello stesso rischio che egli prese non sulla sua pelle ma su quella di un club e di una tifoseria che avrebbero poi pagato i trionfi con tre lustri di anonimato e un doloroso fallimento. Provare a vincere è intento nobile per un club del Sud, ma è giusto provarci con la certezza di non uscire mai dal Calcio che conta. Il Napoli di De Laurentiis vi è entrato di prepotenza, vi resterà senza rischi, e ora si è messo pure in testa di trionfare.
Se dipendesse dalla banda-Sarri, il campionato potrebbe cominciare domenica prossima. Bisognerà invece attendere agosto per dare il via alla nuova stagione, difficile e stimolante. Altro giro, altra corsa. Ci sarà da sabotare il potere, da inceppare il meccanismo sportivo-finanziario che regola la Serie A. La torta è davvero dolcissima. Manca la ciliegina. Il meglio deve ancora venire.
Il ritorno di Higuain: fischi, pernacchie o indifferenza?
Tratto dalla trasmissione Club Napoli All News (Tele Club Italia), due chiacchiere sulla questione ‘ndrangheta allo Juventus Stadium, sul ritorno di Higuain al San Paolo e sui rapporti sempre tesi tra napoletani e romanisti.
De Laurentiis ha smesso di ridere di “discriminazione territoriale” nel paese degli struzzi
Angelo Forgione – Furia De Laurentiis ai microfoni di Mediaset Premium nel post Napoli-Real. Gli basta una scintilla per accendere un fuoco e alimentarlo a benzina, una domanda di Francesca Benvenuti sul rapporto con Sarri, dopo i travagli dell’andata madrilena: «È tutto a posto col suo allenatore?». E da lì parte la discriminazione territoriale della stampa, l’assoluzione del Corriere dello Sport e la dura reprimenda per la Gazzetta dello Sport, senza neanche citare Tuttosport e tutto il fronte più estremo dell’informazione settentrionale. «Poiché i giornalisti del Nord mi odiano, e odiano il Napoli, tutti al servizio del Nord. È da Camillo Benso di Cavour che il Nord odia il Sud, anche se poi la Juventus è una squadra molto sudista. Sono venuti a scasinare i nostri rapporti e abbiamo perso con l’Atalanta, ma poi ci siamo ripresi con la Roma». Sandro Sabatini, dagli studi di Milano, cerca di riparare all’uso della parola “odio”, all’indomani del vile danneggiamento dell’automobile di Mimmo Malfitano, penna della rosea. Ma non c’è verso di placare il patron azzurro, e va allora in scena la contrapposizione tra l’uomo vulcanico che tira fuori il suo pensiero, senza girarci intorno, e il bravo giornalista che parla alla Nazione ed è quindi costretto a calarsi nella retorica ecumenica. E allora Aurelio alza i toni e sbatte in faccia al suo interlocutore, ma in realtà all’Italia del pallone intera, tutta la verità di una divisione imperante. «E mi dispiace che lei che è un giornalista non se ne renda conto, ma siccome siamo in regime silente in cui dobbiamo dire quello che non pensiamo, voi volete che io non dica quel che penso e mi tappi la bocca». Il conduttore prende ad aggrapparsi allo specchio, un bel po’ deformato, di un Napoli amato da Bolzano a Pantelleria. «Dopo dodici anni di calcio – incalza il presidente – mi sono anche stancato, perché andare nei vari stadi e sentire “lavali col fuoco” è molto antipatico, e vedere che gli italiani non si ribellano a questo è molto volgare e cafone. Le prime volte che lo sentivo mi veniva da sorridere, ma ora vorrei che il pubblico che va allo stadio crescesse culturalmente, come stanno dimostrando i napoletani». Sabatini va trincerandosi sulla necessità di non dar risalto e pubblicità ai cori razzisti, e proprio qui inciampa, mostrando tutte le pecche del sistema giornalistico italiano, che invece avrebbe l’obbligo di sollecitare soluzioni efficaci tanto alla Federazione quanto al Governo. Non è che tutto il Nord odi Napoli e il Napoli, chiaro che vi sia molta gente sana e con intelletto intaccato, ma manca proprio l’analisi del vuoto culturale e legislativo che non consente di cancellare, a partire dalle scuole, quel Settentrione alimentato e avvelenato da pregiudizi e sentimenti razzisti, che esiste in diversi ambiti della cancrena sociale d’Italia, e chi lo nega è complice. De Laurentiis non sbaglia affatto a sottolinearlo, come ha fatto anche Maurizio De Giovanni ventiquattr’ore prima a Tiki Taka. Dopo certi titoli di giornale, al di là delle polemiche sportive, la misura è colma ed è evidentemente esplosa la voglia di dirla tutta.
Che il patron azzurro si sia stufato di una certa stasi non pare falso sentimento. È infatti vero che per anni abbia sorvolato, ridendoci su. Nell’autunno del 2013, al convegno “Cittadinanza sportiva” presso il Maschio Angioino, disse proprio di divertirsene: «Quando vedo migliaia di persone negli stadi che insultano un popolo con frasi che non voglio ripetere non lo trovo disgustoso, lo vedo come uno sfottò, ci rido sopra e mi diverto. Li prendo come un incitamento alla città per risvegliarsi». Nel frattempo cosa è accaduto? È accaduto che la FIGC ha fatto marcia indietro nella lotta al razzismo contro Napoli negli stadi, ha tirato il freno a mano e ha parcheggiato. Riavvolgiamo il nastro e capiremo perché.
Il 22 ottobre 2012 scoppia il caso TGR Piemonte, la grande vergogna del cronista Giampiero Amandola, cinquantottenne di Nizza Monferrato, recatosi ai cancelli dello Juventus Stadium prima del match Juventus-Napoli per ascoltare le due tifoserie in affluenza. Un servizio condito da cori «o Vesuvio lavali tu» intonati da due giovani al microfono e dallo scivolone dello stesso giornalista Rai, cui uno juventino spiega che i napoletani sono inestinguibili perché «ovunque, a Nord e a Sud, un po’ come i cinesi»; risatine sarcastiche a denigrare i napoletani e pure i cinesi, e poi la geniale imbeccata di Amandola: «I napoletani li distinguete dalla puzza, con grande signorilità». Compiaciuto dell’insperato assist, il tifoso raccoglie e rilancia: «Molto elegantemente, certo!»… e ancora risate. Giornalismo spazzatura figlio della sottocultura italiana applicata al calcio. Amandola paga col licenziamento lo scandalo che ne segue, e la redazione torinese, in diretta regionale, deve chiedere scusa a tutti gli italiani. Mai accaduto prima!
Anche per tutto questo, nella primavera del 2013 la FIGC, allertata dall’UEFA per la degenerazione degli eventi italiani, deve recepirne le nuove direttive, diramate il 23 maggio nel XXXVII Congresso Ordinario di Londra in cui il parlamento del calcio europeo ha adottato la risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo con cui sono state inasprite le pene per i casi associati agli eventi internazionali. La UEFA e le 53 Federazioni affiliate si sono impegnate a uno sforzo maggiore per debellare il fenomeno dal mondo del pallone. La tolleranza zero ispira il nuovo Regolamento disciplinare UEFA. Vietate le forme di propaganda ideologica; punizioni per i tifosi che insulteranno la dignità umana per ragioni di razza e origine etnica, dalla chiusura di un settore a quella dell’intero stadio, fino alla sconfitta a tavolino, alla detrazione di punti e, in estrema conseguenza, alla squalifica dal campionato. Da Londra, l’organo europeo pretende altrettanta severità da ogni Federazione affiliata, chiedendo di impegnarsi per favorire l’adozione di identiche politiche sanzionatorie “in relazione alle manifestazioni nazionali”, lasciando cioè a ognuna la libertà di allargare le tipologie di discriminazione in base alle diverse problematiche presenti nei vari paesi. Si adegua la FIGC, modificando il Codice di Giustizia Sportiva e tarandolo alla nuova normativa UEFA, con un inasprimento delle sanzioni in materia di razzismo. Gli ispettori federali sono chiamati a non tapparsi più le orecchie. La prima società a farne le spese è il Milan, ma è solo l’apertura di una pagina molto triste per il Calcio italiano, smascherato e inchiodato al suo razzismo interno contro Napoli. Chiudono settori a Milano, Torino, Roma, e scoppia il caos. La soluzione, rendendo tutti i tifosi ostaggi di quelli razzisti, non è quella giusta. E allora, inizia la retromarcia, prima con la “sospensione condizionale”, una sorta di ammonizione per le società, le cui pene saranno congelate per un anno solare e applicate in modo cumulativo solo nel caso di una seconda violazione da parte di medesimi supporters nel periodo interessato, e infine con la cancellazione delle chiusure dei settori degli stadi per responsabilità oggettiva, cotta e mangiata all’elezione alla FIGC di Carlo Tavecchio, l’uomo della buccia di banana del fantomatico Optì Pobà, subito interdetto dalle attività internazionali dell’UEFA e della FIFA. Con questa reputazione, quale credibilità avrà il nuovo presidente federale nell’accodarsi alla campagna contro il razzismo? Con quale faccia potrà prendere le distanze da cori e striscioni razzisti e di “discriminazione territoriale” ascoltati e visti negli stadi di mezza Italia? Che idea ci si farà all’estero dell’Italia alla vista delle curve della Serie A sbarrate e vuote per razzismo? E allora via alla modifica del Codice di Giustizia Sportiva, stabilendo l’applicazione di ammende invece delle tanto contestate chiusure parziali degli stadi. Solletico per le società sportive, un dazio tollerato per cancellare la vergogna dei cori contro i napoletani.
Insomma, un doppio passo indietro invece che uno nella giusta direzione, verso una soluzione davvero efficace. L’incapacità di trovarla produce la tolleranza più vergognosa e l’autorizzazione sostanziale per tutti gli ultras a cantare vittoria nel braccio di ferro con le istituzioni e a urlare contro i napoletani a pagamento delle società, a loro volta in silenzio e senza rivalersi sui colpevoli. Ciro Esposito, a Roma, ci rimette la vita, per quell’odio territoriale indegno oggi denunciato da De Laurentiis. Andrea Agnelli, padrone di casa allo Juventus Stadium, definisce tutto questo «campanilismo, che fa parte della nostra cultura e non è razzismo ma una peculiarità italiana», e per somma beffa, nel dicembre 2015, prende l’iniziativa catartica e se ne va all’Unesco a farsi paladino della lotta al razzismo nel calcio, rispondendo in conferenza, a chi gli chiede cosa accada in Italia, che la situazione è in miglioramento. In realtà è solo silenziata, insabbiata, con la complicità dei media.
Tavecchio, l’uomo del “rinnovamento” che non c’è, l’ha votato anche De Laurentiis nell’estate del 2014, per accontentare una pressione del laziale Lotito. Nel corso degli anni, il napoletano se n’è pentito, per diversi motivi, e qualche giorno fa, alla rielezione dell’uomo che vuole proseguire lo svecchiamento neanche partito, è stato l’unico presidente di club astenutosi dal voto. Forse l’altro candidato, Abodi, neanche lo aveva convinto, e però dalla tivù ha poi dimostrato di essersi sganciato dall’attuale sistema. Dai media del Nord già lo era da tempo. Il futuro parlerà.