Quel Lazio in mezzo al mare che resta campano

Angelo Forgione Il 2 gennaio 1927, con un decreto firmato da Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, veniva sancita la soppressione dei una delle province più vaste e storiche d’Italia, quella casertana di Terra di Lavoro, erede dell’omonima provincia del Regno delle Due Sicilie. Con l’operazione, veniva fatto arretrare il confine settentrionale della Campania sulla linea del Garigliano. 102 comuni a sud del fiume venivano assegnati a Napoli; 15 comuni a nord, quelli dell’hinterland di Gaeta e dei comuni costieri fino a Minturno accorpati a Roma. Veniva creato così, a tavolino, il nuovo Lazio, sottraendo d’imperio territori alla Campania, all’Abruzzo e all’Umbria. Con 51 comuni attorno Sora nacque anche la nuova provincia di Frosinone, insieme ad altre 16 (Aosta, Bolzano, Brindisi, Castrogiovanni ovvero l’odierna Enna, Frosinone, Gorizia, Matera, Nuoro, Pescara, Pistoia, Ragusa, Rieti, Savona, Terni, Varese, Vercelli e Viterbo).

Il 26 maggio 1927 Benito Mussolini pronunciò alla Camera dei Deputati uno tra discorsi più significativi per l’affermazione del regime fascista, passato alla storia come il “discorso dell’Ascensione”. In quell’occasione fornì una giustificazione di ordine pubblico:

“I mazzoni sono una plaga che sta fra la provincia di Roma e quella di Napoli, ex Caserta: terreno paludoso, stepposo, malarico, abitato da una popolazione che fin dai tempi dei Romani aveva una pessima reputazione ed era chiamata popolazione di latrones”.

Dunque, la presenza dei malavitosi e l’incapacità dei poco fascisti amministratori locali di avversarli giustificavano la cancellazione di un’intera provincia. In realtà il vero intento fu chiarito dallo stesso Mussolini nello medesimo discorso:

“C’è stata una provincia soppressa che ha dato spettacolo superbo di composta disciplina, Caserta, che ha compreso che bisogna rassegnare ad essere un quartiere di Napoli”.

Frase chiarissima che sottintendeva alle forte volontà di espandere Roma, la capitale, e Napoli, la città più popolosa d’Italia da secoli ma ormai tendente allo spopolamento, piegata dalle politiche filosettentrionali del Regno d’Italia e schiacciata geograficamente tra le altre quattro province regionali e il mare. E infatti, al censimento del 1931, nonostante l’ingrandimento forzato, la provincia napoletana fece registrare solo un +3,8% di incremento demografico, mentre la sola città si vide storicamente superata da Milano in termini di popolazione residente, nonostante una più alta natalità. L’epocale sorpasso disse 831.781 napoletani e 960.682 milanesi. Da città più popolosa d’Italia a terza in un sol colpo, sopravanzata anche da Roma, a quota 916.858. La perdita del primato demografico, detenuto per secoli, significò per Napoli il tramonto dell’ultima eredità dell’antica capitale e l’insorgere della nostalgia per il ruolo di città più rappresentativa del Paese sottratto nell’immediato periodo post-unitario.

Nel 1934 fu istituita ancora una nuova provincia laziale, quella di Littoria, l’odierna Latina, nata dalle bonifiche delle famigerate paludi pontine, poi divenute agro pontino.

Nel frattempo, i dati evidenziavano il fallimento della propagandistica operazione fascista di ripescaggio dell’antico mito ottocentesco della “Grande Napoli”, poiché quella napoletana non era più un’aerea che attraeva e accoglieva come nel secolo precedente, e l’ingrandimento della sua provincia non era servito affatto ad arginare lo spopolamento nell’area cittadina. E così, a guerra finita, nel 1945, fu costituita la provincia di Caserta, una sorta di ricostituita Terra di Lavoro in versione ridotta, visto che ne restò fuori quello che le era stato tolto per ingrandire il Lazio.

Gaeta, Formia e Minturno, per esempio. E poi le isole di Ponza e Ventotene, facenti parte della provincia di Terra di Lavoro nel 1927 e poi assagnate opportunamente alla provincia di Napoli per ragioni territoriali e antropologiche, prima di essere assegnate nel 1937, tra le proteste, alla provincia di Littoria.

Gli abitanti delle due isole continuavano a sentirsi campani. Ischitani, per la precisione, visti gli usi, i costumi, le tradizioni e il dialetto derivanti dai tanti coloni ischitani tra i campani che nel Settecento erano andati a popolare quelle terre disabitate.
I ponzesi restarono amministrativamente laziali nel 1945, anche se continuavano a svolgere la maggior parte dei loro traffici commerciali con il porto di Napoli e non certo con Latina. Dal 1954 fu stabilito che i collegamenti con il porto partenopeo passassero da due settimanali a uno solo. L’unica corsa settimanale per Napoli fu tenuta fino al 1974, per essere poi definitivamente soppressa, completando l’opera di de-napoletanizzazione amministrativa.

Ponza, come Ventotene, ancora oggi continua ad appartenere culturalmente all’arcipelago delle isole partenopee, nonostante l’alta presenza di turisti romani e laziali in genere. Tutto ciò che Ponza detiene per tradizione è di cultura campana, dialetto compreso, un napoletano certamente un po’ variato nel tempo per effetto dell’isolamento dalla “casa madre”. Lo dimostra Giuseppe Mazzella, figlio di genitori ponzesi emigrati come tanti a New York. Lui, con quel nome e cognome che la dicono lunga, è vissuto negli States fino al 1981, quando si è trasferito a Ponza e ha iniziato a fare l’autista di personaggi famosi. Joe Taxi, questo il suo nome d’arte, produce per sé dell’ottimo vino Biancolella, tipico vitigno ischitano esportato a Ponza, e conosce due lingue: quella statunitense e quella dell’isola delle sue origini. Per il romanissimo Claudio Amendola si tratta di ponzese. Napoletano, appunto.

Agnelli e De Laurentiis, esempi opposti di approccio al tifo deviato

Angelo Forgione Giunge la sentenza del Tribunale nazionale della Federcalcio nel processo ad Andrea Agnelli per i rapporti non consentiti con gli ultrà: un anno di inibizione per il presidente della Juventus e ammenda di 300 mila euro per il club bianconero. Solo parzialmente accolte le richieste del procuratore della FIGC Pecoraro, in quanto il Tribunale ha ritenuto che il patron bianconero era inconsapevole del presunto ruolo malavitoso dei soggetti incontrati. Strano, però, visto che in un’intercettazione telefonica del marzo 2014 qualcuno disse ad Alessandro D’Angelo, addetto alla sicurezza allo Juventus Stadium, «Il problema è che questo ha ucciso gente», riferendosi al milanese Loris Grancini, capo dei Viking, personaggio vicino ai clan siciliani e calabresi. Gli inquirenti informarono che quel qualcuno era Andrea Agnelli, ma poi si è fatto complicato capire se si trattasse del presidente o di Francesco Calvo, ex responsabile del marketing bianconero. In ogni caso, di dirigenti della Juventus si trattava.
Intanto sappiamo che le risorse derivanti dal bagarinaggio favorito da Agnelli e Calvo sono andate alla criminalità organizzata. Chissà se un giorno riusciremo a sapere anche perché Raffaello Bucci, capo del gruppo ultras bianconero dei Drughi, assunto dalla Juventus come consulente esterno ufficiale di collegamento tra la tifoseria e il club, in contatto con la Digos e servizi segreti, si suicidò dopo l’interrogatorio dei piemme che indagavano sulla ‘ndrangheta allo Stadium.
Atteniamoci però alla sentenza del Tribunale federale. Agnelli sapeva che erano ultras ma non sapeva che erano mafiosi. Ma la Juventus, in ogni caso, si segnala ancora una volta per violazione delle norme federali, stavolta quelle che vietano ai dirigenti delle società sportive di intrattenere rapporti con gli ultrà. E prosegue la non edificante tradizione della famiglia Agnelli, soprattutto quella del ramo di Umberto, il padre di Andrea, che avviò nel 1994, non appena conquistata la presidenza del club e dopo 8 anni di digiuno del club, l’era più macchiata della storia juventina, tra scandalo doping (prescrizione) e calciopoli.
Alla luce delle certezze fornite dalla sentenza, vale la pena ricordare quel che accadde più a sud nel 2004, quando Aurelio De Laurentiis si mise alla guida della SSC Napoli e tagliò ogni laccio con i rappresentanti degli ultrà delle curve dello stadio San Paolo. Dopo poco più di due anni, nel dicembre 2006, la prima ritorsione eclatante. Campionato di serie B: nel bel mezzo di Napoli-Frosinone improvvisa pioggia in campo di potentissimi petardi “cobra”, lanciati dal settore Distinti. Le intemperanze durarono diversi minuti e costrinsero l’arbitro Orsato a sospendere più volte la gara. La giustizia sportiva inflisse poi una giornata di squalifica al San Paolo. Le indagini scoperchiarono un fenomeno estorsivo ai danni del Napoli e appurarono che il club di De Laurentiis aveva tagliato la fornitura di biglietti alle sigle ultras capeggiate da pregiudicati. Per tutta risposta, gli “esagitati” avevano deciso di intervenire in maniera coatta, prima dando fuoco al “dirigibile” dello stadio destinato alla stampa e poi “manifestando” nella gara contro i ciociari. Uno dei responsabili così aveva minacciato un dirigente partenopeo: «Ho campato con il Napoli [di Ferlaino] per 50 anni, anche tu e Pierpaolo Marino (ex Dg) tenete i figli. Mi sono fatto quattro anni di galera, se ne faccio altri quattro non succede niente». Gli arrestati finirono a processo e condannati per associazione a delinquere, incendio doloso, lancio di esplosivi, minacce e tentata estorsione. E pagarono anche i danni al Napoli, che li chiese costituendosi parte civile. Tutto finito? Neanche per idea. Col Napoli in crescita, iniziarono a verificarsi strane rapine ai suoi calciatori e alle loro compagne. Un collaboratore di giustizia rivelò che le incursioni avevano un’unica matrice: gruppi di ultrà intenzionati a punire i giocatori che non partecipavano alle manifestazioni organizzate dai tifosi.
L’Antimafia, chiaramente, ha interrogato anche De Laurentiis nel corso delle indagini a tappeto sull’intero movimento calcistico italiano, contestandogli la presenza a bordo campo del rampollo del boss della camorra Lo Russo, ma esponendosi a una figuraccia con l’interrogato, che gli ha puntualmente ricordato che il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli aveva già chiarito illo tempore che quell’uomo non era un latitante al momento dei fatti, che accedeva regolarmente sul rettangolo di gioco con pass da giardiniere procuratogli dalla ditta che curava il prato, e che la SSC Napoli aveva offerto la massima collaborazione alla Direzione Investigativa Antimafia, dimostrando la sua totale estraneità.
E poi la querelle tra De Laurentiis e Reina, col presidente che, alla cena sociale dello scorso maggio, invitò pubblicamente la moglie del portiere a controllarne “le distrazioni”, e pochi giorni dopo furono arrestati tre fratelli imprenditori in odor di camorra, amichevolmente disponibili nei confronti di Pepe.
Racconto tutto questo perché i buontemponi del tifo cieco continuano ancora oggi a citare a sproposito fatti di cui il Napoli è stato esempio e di cui Napoli è stata vittima in ambito mediatico.

Loris Grancini parla ai microfoni di Fanpage nel marzo 2017

Il Napoli come Napoli, regine d’inverno

Angelo Forgione Giro di boa della Serie A 2015/16, e il Napoli è davanti a tutte. Due vittorie convincenti alla ripresa, la tanto temuta ripresa dopo la pausa natalizia, e la squadra azzurra si è presa la testa, nuovamente. Incalza la Juventus, appaiata all’Inter, ma con un’inerzia decisamente diversa da quella dei nerazzurri, partiti di slancio e poi ripresi dalle due squadre più lente nell’uscire dai blocchi di partenza. Sì, perché Napoli e Juventus, alla quinta giornata, erano ai posti 12 e 13, lontane 9 e 10 punti dall’Inter. La sensazione netta è che il nome della squadra campione d’Italia verrà fuori da questo terzetto, precluso alla Fiorentina degli inciampi e all’arenata Roma.
Ma se la posizione della Juventus non desta sensazione, stupisce quella del Napoli, più per il gioco espresso che non per la classifica. Il fatto è che la squadra si diverte agli allenamenti, scende in campo per vincere ma senza la pressione di chi deve farlo per missione. Poi vince, stravince e fa divertire, e va pure a festeggiare coi propri tifosi. L’idillio è palese, l’afflato pure. Il fatto è che l’amore che i calciatori fanno coi propri tifosi si consuma ad ogni vittoria, non solo contro le più blasonate rivali storiche. Con il Frosinone come contro la Juventus. Non c’è in ballo la vittoria che vale una stagione ma la stagione che vale una vittoria. Si guarda a Maggio, flirtando con lo scudetto. Ma intanto si amoreggia in casa. È un’energia sessuale che fluisce ininterrottamente, che risplende in quella danza di fine partita, coi calciatori e i tifosi che si guardano occhi negli occhi, saltellando e battendo le mani. È una tarantella del pallone, una danza erotica dopo l’orgia del campo che propizia quella del trionfo finale. Qualcuno ammonisce sulla perniciosità del rito orgiastico, non conoscendo la natura dell’energia partenopea, che non conosce polarità. Tutti danno, tutti ricevono. Solo chi si immerge in questa vitalità può capirla. Un certo Ibrahimovic Zlatan, giramondo del pallone, Re senza regno, c’è riuscito per caso, catapultato sul prato del ‘San Paolo’ per accompagnare Ciro Ferrara ai chiodi per le scarpette in un lontano giorno di giugno del 2005. Si ritrovò nel cratere di un vulcano in eruzione, e fu marchiato a fuoco. I suoi occhi videro Maradona, Re dei re, in maniche di camicia, anche se tondo e pieno come il San Paolo, riabbracciato e asfissiato dai napoletani. Una bolgia infernale. E un pensiero nato quella sera nel fuoriclasse svedese, nomade del pallone: far impazzire il ‘San Paolo’ e prendersi, un giorno, quell’energia. Lo confidò ai suoi compagni della Juventus che dominava prima di finire in polvere e vergogne, mentre il Napoli annaspava in Serie C, destinato ad essere frenato dall’Avellino. Lo svedesone lo disse anche al suo manager, Mino Raiola: «Un giorno piacerebbe pure a me essere accolto come Maradona. Non posso concludere la mia carriera senza aver giocato con la maglia del Napoli». Avrebbe giocato nell’Inter, nel Milan, nel Barcellona, nel Paris SG. Desiderio azzurro mai realizzato, perché sogni e soldi, nel Calcio moderno, difficilmente si sposano. Zlatan è a Parigi, nel nuovo El Dorado del pallone, dove ingrossa il suo conto in banca, come Edinson Cavani, che il trono di Maradona lo ereditò e poi lasciò il regno dell’amore per quello del danaro. E dalla fredda Parigi, recentemente, ha chiarito: «La realtà è che oggi devo rendere al massimo per il PSG, ma Napoli rimane nel mio cuore». Come dire: “i soldi mi hanno portato qui, lontano da dove ho lasciato il cuore”. Percorso inverso per Pepe Reina, che pure ha conosciuto il calore di Barcellona e Liverpool, ma il suo cuore si è fermato a Napoli. Dodici mesi in prestito per rimpiangerla da Monaco di Baviera, e poi il ritorno tanto voluto, dopo tante fughe di piacere e continui tweet in napoletano. Stipendio ridotto da 4,2 milioni all’anno a 2,8 pur di riabbracciare Partenope: “Napoli è felicità, sono tornato per questo, è il posto giusto per me e la mia famiglia, dopo un anno non abbiamo resistito”.
Napoli che vince e festeggia le vittorie si prende la copertina di metà percorso, effimera ma benaugurale. Squadra che cerca di sovvertire il pronostico, le statistiche, la storia e l’ordine precostituito, che cerca di piegare il Nord del Calcio, che lavora al colpo di Stato. E già si alza da lontano lo stantio refrain del riscatto cittadino, come se il Calcio avesse il potere di risolvere i problemi sociali. Il fatto è che Napoli, nonostante tutto, vince non solo nel Calcio. È la città che, silenziosamente e senza doping governativo, ha fatto registrare il maggior incremento turistico d’Italia nell’ultimo anno, con gran picco nel recente mese di Dicembre, ricomponendo il quadrilatero storico (con Roma, Firenze e Venezia) amputato dal colera del 1973. Non dovrebbe essere una sorpresa, ma è l’ingiusta propaganda che si continua a proporre della città vesuviana a far gioire e sperare per il futuro. Napoli che conquista le vittorie con le sue forze, tra le difficoltà. Napoli che se la vivi ti innamori, proprio come la sua squadra. Napoli che può vincere.

Tutta l’ignoranza d’Italia nella domenica del pallone

bandiera_francia_veronaAngelo Forgione Verona-Napoli la portano a casa gli azzurri. Una partita in cui si è specchiato un Paese che nel proprio campionato impone la bandiera francese in bella mostra e l’ascolto de “la Marsigliese”, in segno di solidarietà per le morti di Parigi. Giusto e sacrosanto commemorare delle vittime innocenti, ma quando ciò avviene solo in ricordo di un popolo e non di tutti quelli coinvolti in luttuosi eventi si finisce per esprimere un messaggio politico. Avremmo preferito la bandiera multicolore della pace e l’esecuzione di Imagine di John Lennon, ma evidentemente il cocchiere guida il carrozzone in una strada a senso unico. A Verona, poi, non per colpa degli innocenti ragazzini deputati a mostrarla, è venuto fuori persino un tricolore francese ribaltato (che nei paesi del Commonwealth significa arrendevolezza) e nessuno dei commissari di Lega ha pensato di far rettificare il senso. Sugli spalti, appena terminata l’ultima nota dell’inno di Francia sono ripresi i cori razzisti contro Napoli, e tutti a sdegnarsi, a partire da Paolo Condò su Sky, la cui denuncia veniva condivisa da Ilaria D’Amico. Ma ci vogliamo forse stupire per l’ipocrisia nazionale e per l’incoerenza dei tifosi del Verona, da sempre eccessivamente animosi nei confronti dei napoletani? Non un comportamento diverso dal solito, e certamente non peggiore di quello avuto dai bolognesi il 31 maggio 2013, durante Italia – San Marino, partita dedicata alla lotta al razzismo, quando intonarono a sproposito “stonati” cori contro il popolo partenopeo.
insigne_veronaSul campo del ‘Bentegodi’, il più bersagliato è stato, neanche a dirlo, il napoletanissimo Lorenzo Insigne. E proprio lui ha infilato il primo pertugio aperto nella difesa gialloblu, ha baciato più volte la maglia azzurra all’altezza dello stemma, è corso ad abbracciare il napoletano-toscano Sarri ed è stato travolto dai napoletani dello staff, a partire dal medico sociale De Nicola, passando per il massaggiatore Di Lullo, per finire con il magazziniere Tommaso Starace, lo stesso di trent’anni fa, quando fu Maradona a fargli giustizia sullo stesso campo. Lorenzo ha dedicato il goal alla sua città e la sua rivalsa da scudetto è finita in copertina, con più risalto di quanto non ne ebbe lui stesso due stagioni fa e, in Serie B, l’ex compagno di squadra a Pescara Ciro Immobile, che le offese dei veronesi se la legò al dito, così come l’altro conterraneo Aniello Cutolo, che restituì i ceffoni al ‘Bentegodi’ con tutto Mandorlini.
La domenica calcistica è finita come era iniziata. Nello stesso stadio in cui, nel 2007, fu sonoramente fischiato l’inno di Francia, a dieci minuti dal termine di Inter-Frosinone, con i padroni di casa in gloria, i tifosi nerazzurri si sono proiettati allo scontro al vertice di lunedì 30 al ‘San Paolo’ e hanno pensato bene di vomitare il loro repertorio razzista all’indirizzo dei napoletani. Tanto per non farsi mancare nulla.
Bandiere rovesciate, ipocrisie e scontri territoriali; questo è lo spettacolo che va in scena sui palcoscenici della Serie A. Non c’è affatto da meravigliarsi. Lo faccia chi non sa che l’Italia è un paese profondamente ignorante – tra i primi al mondo per odio razziale – che ignora la reale connotazione dei fenomeni immigratori e li rende negativi anche quando non lo sono. Insomma, Italia regno dei pregiudizi. C’è qualcuno – la Ipsos Mori in Gran Bretagna – che qualche tempo fa si è preoccupato di certificare il dato con una ricerca in 14 paesi del mondo con cui si evince che gli italiani hanno la più scarsa conoscenza di temi di pubblico interesse ed esprimono giudizi e sentimenti dalle deboli fondamenta. Insomma, italiani tutt’altro che brava gente. E allora non stupiamoci del razzismo negli stadi e nemmeno degli inciampi del presidente della FIGC Carlo Tavecchio. Ce lo meritiamo.

Napoli colera nei fumetti del fenomeno Sio

Angelo ForgioneIl veronese Simone Albrigi, in arte Sio, è un nome che gli appassionati di fumetti hanno conosciuto in rete. Scottecs, il suo canale YouTube, conta oltre 750mila iscritti e i suoi video arrivano ad avere oltre 1 milione di visualizzazioni. La pagina Facebook di Scottecs, con i suoi 414mila fan e le sue vignette virali, lo rende il fumettista italiano più seguito sui social. Dopo questo successo in rete, Sio ha conquistato anche le edicole con la rivista trimestrale Scottecs Megazine, uscita con il primo numero a febbraio. Il secondo numero, in edicola in questi giorni, ha riservato un’amara sorpresa a un ragazzino napoletano di 11 anni, trovatosi di fronte a una vignetta che l’ha fatto davvero arrabbiare: un vecchio muore a Frosinone pronunciando il detto “vedi Napoli e poi muori”, ricordando al suo giovane interlocutore che è stato a Napoli nel settembre 1973. Che è poi il tempo del colera, ma non viene specificato… il che rende il tutto ancor più pericoloso, poiché molti lettori neanche si chiederanno il perché dell’associazione tra la morte differita per causa napoletana e la data indicata.
Certo, l’ironia, il “black humor” di una vignetta realizzata da un fumettista, ma cosa deve pensare un ragazzino che ama la sua città, e che già percepisce il peso degli stereotipi? E cosa devono pensare tutti i ragazzi non napoletani, che a Napoli non ci sono mai stati, e che certamente non sanno che quell’epidemia di colera non colpì solo Napoli, e che Napoli fu la prima a debellarla? Forse è proprio così, anche per incauta ironia, che si alimentano i luoghi comuni e le intolleranze, colpendo le fasce più deboli, destinate a portarsi dietro un’associazione infondata tra Napoli e la morte, tra Napoli e il colera.
Il padre del lettore mi ha scritto indignato e disturbato dalla reazione del figliolo, il quale, dopo aver letto e guardato la striscia, ha avuto voglia di stracciare la rivista. E così ha protestato con un post sulla fanpage di Sio, il quale si è giustificato così: Porca vacca che megasfortuna, ho scelto un mese e anno a caso ed è proprio così. Ti chiedo scusa e farò del mio meglio per farlo anche sul Magazine“. Un mese e un anno a caso, certo… evidentemente Sio crede di potersi prendere gioco dell’undicenne napoletano, suo lettore.
Il numero 2 di Scottecs, per la cronaca, è stato presentato in anteprima proprio al Napoli Comicon.

vignetta

La fine di un vero eroe sconosciuto

manciniAngelo Forgione – Addio a Roberto Mancini, il poliziotto 53enne che si ammalò per combattere i veleni nella “Terra dei fuochi”. Per anni in trincea contro inquinatori e trafficanti dei rifiuti, ha svolto per la Commissione di inchiesta della Camera diversi sopralluoghi in discariche piene di veleni e in siti radioattivi, scoprendo tutta la verità su un torbido intreccio. Come raccontò a SkyTG24 e a Le Iene, la sua informativa, consegnata nel 1996 alla DDA di Napoli, è rimasta ignorata per anni, chiusa in un cassetto e occultata. Nel 2002 scoprì di avere un cancro al sangue, riconosciuto come malattia per causa di servizio, ma risarcito con soli 5mila euro da parte del Viminale. È morto lottando anche contro lo Stato «che non mi ha messo – disse a Repubblica TV – in condizioni di tutelare la mia salute».
“Spero che le sofferenze che Roberto ha dovuto sopportare per aver servito lo Stato contro le ecomafie in Campania non cadano nell’indifferenza delle istituzioni e dell’opinione pubblica – ha dichiarato la moglie a Mediterraneo News – e mi auguro che il suo ricordo possa servire da esempio per tutti coloro che non vogliono arrendersi a chi vuole avvelenare le nostre terre, le nostre vite […]”.