Il Napoli, la storia di un club che rispecchia una città

(l’articolo riprende alcuni passi del libro Dov’è la Vittoria, Magenes, 2015)

Angelo Forgione – 1 Agosto 1926, 1 Agosto 2015: 89 anni di storia azzurra ufficialmente contati all’anagrafe. La Società Sportiva Calcio Napoli entra nel suo novantesimo anno di vita e lo fa alla vigilia del sua partecipazione numero 73 alla massima divisione nazionale, che dal 1929 si disputa con la formula del girone unico (la Serie A). 2 Scudetti, 5 secondi posti e 9 terzi posti, questi i migliori risultati, al netto delle 5 Coppe nazionali vinte, delle 2 Supercoppe italiane e della

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Coppa Uefa. È tra i 15 club almeno una volta Campioni d’Italia, il quarto della Penisola per bacino d’utenza. È il primo per passione, molto più di una squadra di calcio per il suo innamorato popolo, interpretato come unico vessillo sotto il quale cercare una dignità cancellata; è un’entità ingombrante che condiziona anche troppo gli umori cittadini; è il simbolo dell’auto-riconoscimento in una precisa identità culturale, in una squadra che porta il nome della propria città, della propria provincia, del territorio di appartenenza. La squadra azzurra è spesso indicata come veicolo di riscatto della Città, ruolo cui non può assolvere il Calcio, le cui emozioni non hanno alcun potere di risolvere seri problemi sociali. Il Napoli è invece a pieno titolo un simbolo di appartenenza e legame territoriale, il riferimento principe di una vasta provincia che, coi suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione; e non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a Roma, Milano, Torino e in tutti i maggiori centri del Vecchio Continente. Quella di Napoli è infatti una delle due grandi aree metropolitane europee che esprimono una sola squadra (l’altra è quella di Parigi). Nessuna delle 8 squadre di Londra rappresenta la grande metropoli britannica, ma è ognuna espressione delle differenze dei suoi quartieri. Roma è certamente un feudo giallorosso e i romanisti vivono con l’Urbe un legame solidissimo, ma il discorso si riequilibra allargando i confini, dove la coinquilina Lazio, che porta il nome della regione, raccoglie buon seguito. Gli juventini sono in ogni dove d’Italia, ma non più numerosi dei granata nell’area urbana di Torino, dove si è bianconeri soprattutto se figli o nipoti di immigrati del Sud. Spaccata in due è anche Milano, così come la più piccola Genova. A Napoli, invece, quella azzurra è religione identitaria monoteista, attorno alla quale gravitano culti esotici minori. In realtà il Napoli di anni ne ha quattro in più, quindi 93, perché il conteggio convenzionale parte dal cambio di denominazione da inglese ad italiano, dettato dall’applicazione della Carta di Viareggio, uno statuto ufficializzato proprio nell’agosto 1926 dal commissario straordinario della FIGC e presidente del CONI Lando Ferretti per mettere letteralmente il movimento calcistico italiano nelle mani del Fascismo. La storia del Napoli è dunque legata anche alla storia del Calcio tricolore e dello stesso Stivale. Ripercorriamola, partendo proprio dall’estate del ’26. Per ben 25 stagioni, il Nord-Italia ha monopolizzato il campionato italiano, rendendolo espressione del “triangolo industriale” appena nato e relegando le squadre centro-meridionali al ruolo di comprimarie, prima negandogli la possibilità di partecipare ai tornei che dal 1898 assegnavano il titolo di campione d’Italia e poi fingendo di ascoltarne le proteste nel 1912 con la concessione di una finalissima tra le squadre vincitrici di un Girone Nord (con Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto) e di un Girone Sud (con Toscana, Lazio e Campania). In realtà la FIGC di allora è ben conscia del divario esistente tra i due movimenti calcistici – uno in cui i soldi delle zone industrializzate hanno condotto al semiprofessionismo e l’altro ancora fermo al totale dilettantismo – e sa che le finalissime possono solo avere un valore pro forma senza alcun significato tecnico-agonistico. Il regime fascista, impegnato nel processo di “nazionalizzazione”, non può consentire che il Calcio italiano resti spaccato e mostri disgregazione sociale. Così, a prescindere dal divario tecnico esistente, sancisce l’unificazione delle leghe Nord e Sud in un’unica ‘Divisione Nazionale’. In modo coatto, le diverse squadre di Roma e Napoli vengono azzerate da varie fusioni imposte dall’alto, finalizzate alla creazione di sodalizi più solidi e più forti tecnicamente. Sotto al Vesuvio sgambettano i calciatori di squadre minori e quelli del più importante Internaples (nato dalla fusione sancita nell’ottobre del 1922 tra il Naples Football Club e l’U.S. Internazionale Napoli), che a luglio ha perso la finale Sud contro l’Alba Roma, a sua volta massacrata dalla Juventus nella doppia finalissima nazionale dell’8 e 22 agosto.

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articoli digitalizzati de Il Mezzogiorno (12-13 e 25-26 agosto 1926)

Proprio in quel caldo mese, il giorno 2, la Commissione di Riforma dell’ordinamento della Federazione emana ufficialmente la ‘Carta di Viareggio’, e il 3 agosto l’Internaples ottiene l’affiliazione alla Lega Nazionale. L’assemblea dei soci, il giorno 25, scrive e formalizza il cambio di nome: da Foot Ball Club Internaples ad Associazione Calcio Napoli. Il regime fascista non gradisce gli inglesismi e il termine “Internazionale” ricorda l’Internazionale comunista, avversaria politica. Il presidente Giorgio Ascarelli, ricco commerciante napoletano di origine ebraica, suggerisce la più opportuna adozione del nome italiano della città.


I sodalizi del Nord protestano per le decisioni superiori, riunendosi più volte a Genova, Torino e Milano, ritenendo le 3 squadre di Napoli e Roma (a fronte di 17 settentrionali) inadeguate alla competizione e usurpatrici di posti spettanti al Calcio settentrionale. L’ostracismo, però, deve arrendersi alla volontà politica. Alle squadre meridionali tocca la resa sul campo, disastrose nell’impatto col “Calcio industriale”. Il Napoli conta sul veloce attaccante
Attila Sallustro, un idolo, il primo idolo… e si identifica in uno stemma con il Corsiero del Sole,

un cavallo rampante e sfrenato, emblema della città capitale durante il Regno delle Due Sicilie, ma retrocede insieme all’Alba Roma e alla Fortitudo Roma, rimediando un solo punto in graduatoria. In un bar di ritrovo di via Santa Brigida, Raffaele Riano, uno sconfortato sostenitore azzurro, urla: «Ma quale cavallo! Sta squadra nostra me pare ‘o ciuccio ‘e Fichella: 33 piaghe e ‘a coda fracida». È quella l’immagine del Napoli, ma anche dell’intero Calcio meridionale. A quel pittoresco sfogo tipicamente partenopeo fanno seguito le fragorose risate dei presenti, che lo suggeriscono alla redazione di un giornale umoristico. Nei giorni seguenti, le edicole di Napoli diffondono l’illustrazione di un asinello incerottato e con una miserabile coda. Per espressione di popolo, il nobilissimo cavallo napoletano si trasforma in “ciucciariello”. Il Regime non si arrende e ripesca più volte le retrocesse pur di supportare il processo di unificazione tra Nord e Sud del Calcio italiano. Ascarelli garantisce investimenti e nel 1929 decide di abbandonare lo stadio militare dell’Arenaccia, prima casa azzurra, commissionando a proprie spese la costruzione di un nuovo impianto sportivo al Rione Luzzatti, in zona Gianturco, con tribune in legno per oltre 15mila spettatori. Viene inaugurato col nome di

Vesuvio il 23 febbraio 1930, diciassette giorni prima della prematura scomparsa del presidente (a 34 anni), cui, a furor di popolo, viene poi intitolato il nuovo stadio. La stagione si chiude con gli azzurri al 5° posto, finalmente competitivi. Scomparso Ascarelli, lo stadio viene requisito dal Regime, che, in vista dei Mondiali del 1934 in Italia, lo ristruttura in cemento armato, ne muta l’aspetto con una facciata imponente e maestosa in stile fascista e ne aumenta la capienza portandola a circa 40mila spettatori. È ribattezzato Stadio Partenopeo poiché il nome di un ebreo non è gradito per un simbolo fascista della modernità, nonché uno dei più fulgidi esempi di propaganda del regime al Sud. L’arena ospiterà la finale per il 3° e 4° posto del torneo iridato. Ma gran parte del movimento meridionale è ancora finanziariamente impreparato a sostenere le spese di gestione dei campionati, con gli incassi che al Sud sono di cinque volte inferiori di quelli del Nord. Il Napoli si ritrova ben presto ricoperto di debiti e l’ancora di salvezza giunge nuovamente dall’alto, per mano del Governo fascista: il segretario federale

di Napoli Nicola Sansanelli incarica del salvataggio il ‘Comandante’ Achille Lauro, noto armatore sorrentino, uno dei più importanti imprenditori italiani, che ha potuto ingrandire la propria flotta grazie agli agganci politici e pertanto non può di certo disobbedire alle volontà superiori. È il 1936 quando deve acquistare il club partenopeo per risanarlo e condurlo per circa 30 anni. Lo sfrutterà per ottenere gran popolarità e raggiungere importanti obiettivi politici e imprenditoriali. La prima retrocessione de facto in Serie B avviene nella stagione 1941-42, conclusa con un 17° posto, proprio mentre la Roma vince il primo tricolore, interrompendo il monopolio settentrionale. Se i capitolini si avvantaggiano della Guerra, i napoletani ne risultano fortemente penalizzati. I tanti calciatori italiani chiamati alle armi sono obbligati a pesanti trasferimenti nella Capitale, così abbandonando gli allenamenti, mentre quelli della Roma possono beneficiare del vantaggio di non doversi impegnare in faticosi viaggi e di potersi allenare col resto della squadra in una città immune dai bombardamenti fino al luglio del 1943. Le strategie belliche anglo-americane, particolarmente intense nei territori meridionali, colpiscono pesantemente l’apparato industriale e infrastrutturale di Napoli, la città più bersagliata, rasa al suolo da un centinaio di bombardamenti degli Alleati, che

designano la città quale principale obiettivo strategico nel Mediterraneo. È raso al suolo anche lo stadio Partenopeo, andando incontro ad un triste saccheggio prima di essere abbattuto definitivamente. Contrariamente alla Roma campione, il Napoli, impossibilitato ad allenarsi a dovere (i calciatori neanche dormivano la notte) e destinato alla retrocessione dal travaglio di una stagione tormentata, è costretto a trasferirsi al Campo sportivo del Littorio al Vomero (del 1929), poco dopo requisito dalle forze armate tedesche e utilizzato come campo di concentramento per i napoletani da deportare in Germania, uno dei luoghi simbolici delle Quattro giornate di Napoli.

Finita la guerra, i partenopei tornano a giocare in quell’impianto, ormai al limite dell’agibilità, e durante l’incontro Napoli-Bari del ‘46 (Serie A) una tribuna cede per l’esultanza accesa da un gol della squadra di casa: 114 feriti finiscono all’ospedale. Ci vogliono ben 13 anni per abbandonare una simile precarietà e inadeguatezza. Il 22 dicembre 1949, nonostante le invidie e le proteste di una casta milanese che governa la Lega Calcio, è deliberata dal Comune di Napoli, col supporto del CONI e del Governo (un miliardo di lire assegnato), la costruzione di un colossale stadio, ormai necessario. Achille Lauro si presenta alle elezioni comunali del 1952 e per attrarre consensi e voti si mette in testa di accendere la fantasia e i sogni dei tifosi napoletani. Con la cifra record di 105 milioni di lire brucia la concorrenza dell’Inter e mette a segno il colpo a sensazione all’hotel Gallia di Milano, acquistando dall’Atalanta Hasse Jeppson, centravanti della Nazionale svedese (terza ai

mondiali del ‘50). Un ulteriore rinforzo è l’argentino Bruno Pesaola, prelevato dal Novara. Lauro riesce a vincere alle urne, prendendosi la fascia di sindaco, ma la sua squadra non riesce a vincere il campionato. Nel 1955, a far coppia con Jeppson, arriva in azzurro il brasiliano Luis Vinicio, battezzato dai tifosi ‘o Lione. Ma neanche l’ingaggio del grintoso e possente centravanti serve affinché il Napoli lotti per lo Scudetto. La partita Napoli-Fiorentina (2-4) del 31 dicembre sul neutro dello stadi

o Olimpico di Roma (stadio del Vomero di Napoli squalificato) è la prima trasmessa in diretta televisiva al Sud. 7 giorni prima, esattamente alla vigilia di Natale, le trasmissioni televisive sono state estese fino a Napoli, immettendo un’importantissima superficie di 3 milioni di abitanti nella rete dei programmi Rai. Per vedere l’inaugurazione del nuovo stadio si deve attendere il 6 dicembre 1959, giorno in cui il Napoli prende possesso della sua nuova comoda casa, l’imponente stadio del Sole di Fuorigrotta, nuovo tempio del Calcio per circa 90.000 spettatori, poi ribattezzato San Paolo in ricordo dello sbarco dell’apostolo sulle coste flegree nel febbraio dell’anno 61, durante il suo viaggio dalla Giudea a Roma.

Miglior battesimo non può celebrarsi: sconfitta la Juventus di Omar Sivori (2-1), in una “assolata” giornata di fine autunno. Il primo trofeo nazionale giunge nel 1962, al culmine di una stagione in Serie B che regala la promozione e la Coppa Italia. Guidato in panchina da Bruno Pesaola, il club azzurro eguaglia il Vado vincendo la Coppa pur militando in cadetteria. Per


affrontare la Serie A Lauro ingaggia per sua decisione Faustinho Jarbas Cané, brasiliano d’ebano di Rio de Janeiro. È tra i primi atleti di pelle nera a calcare i campi italiani e ad ascoltare le offese da parte dei tifosi del Nord. Dalle giovanili viene promosso in prima squadra un promettentissimo Antonio Juliano. Tra sali e scendi dalla A alla B, Il 25 giugno del 1964 l’ A.C. Napoli soffocata dai debiti si trasforma in Società Sportiva Calcio Napoli. Primo

presidente della SSC è nominato Roberto Fiore, mentre Achille Lauro, ancora “coinvolto”, non versa una lira nel nuovo capitale sociale ma ottiene comunque il 40% delle azioni per i crediti vantati e il titolo di presidente onorario. La nuova denominazione porta decisamente bene, perché finalmente il Napoli si fa davvero competitivo con gli acquisti di Josè Altafini dal Milan e di Omar Sivori dalla Juventus. Arrivano un terzo posto e la vittoria della Coppa delle Alpi, un trofeo internazionale di livello minore (abolito nel 1987), ma anche le invidie di Lauro per Fiore, che non intende fermarsi: porta in dote pure 69mila abbonati e sfiora l’acquisto dal Cagliari del capocannoniere Gigi Riva. Finisce che al suo posto viene nominato Giacchino Lauro, rampollo del ‘Comandante’. Il secondo posto del campionato 1967-68, con in porta l’angelo azzurro Dino Zoff, alle spalle dell’irraggiungibile Milan, significa il miglior risultato mai raggiunto, mentre tra i dirigenti spunta lontano dai riflettori la figura di un giovane ingegnere, borbonico convinto, di padre calabrese e madre milanese, che ama le auto da corsa e i motoscafi veloci, spinto dall’ormai defilato Achille Lauro all’acquisto della maggioranza del club per beffare i soci nemici. Il 18 gennaio del 1969, a soli 37 anni, Corrado Ferlaino è eletto presidente. È un uomo scaltro, capace di tessere rapporti con le teste più importanti dell’ambiente calcistico e politico. Il club è sull’orlo del fallimento e nell’estate del 1972 cede alla Juventus Altafini e Zoff, quest’ultimo ormai elemento fisso della Nazionale, strappando al manager juventino Italo Allodi una promessa: un giorno dovrà lavorare per lui al Napoli. La squadra si piazza sul podio nel ’71 e nel ’74, e sfiora lo

Scudetto nel ’75, con l’ex calciatore Vinicio in panchina. ‘O Lione, nel solco del Calcio totale all’olandese, per primo attua il pressing, il fuorigioco e 4 difensori a zona nella patria del “catenaccio”, e sfiora il colpaccio, perdendo lo scontro decisivo a Torino contro la Juventus per un goal siglato a 2 minuti dal termine dall’ex Altafini, perciò soprannominato dai napoletani Core ‘ngrato. Fallito il tentativo, Ferlaino acquista dal Bologna il bomber Beppe Savoldi, sollevando scalpore per l’esborso della cifra record di 2 miliardi. Mister 2 miliardi da il suo contributo per la vittoria della Coppa Italia (’76), la seconda della storia azzurra (insieme alla Coppa di Lega Italo-Inglese). I tifosi inaugurano il canto di ‘O surdato ‘nnammurato, ma lo Scudetto resta una chimera. L’ingegnere va alla caccia del calciatore che possa fare la

differenza per sovvertire le gerarchie tra Nord e Sud. Nell’estate del 1978, in pieni Mondiali argentini, il tecnico del Napoli Gianni Di Marzio gli segnala un giovane campioncino dell’Argentinos Juniors di nome Diego Armando Maradona, ma le frontiere in Italia sono chiuse e Ferlaino non accetta di “parcheggiarlo” in Svizzera per un paio d’anni. Vuole calciatori affermati, e tenta l’acquisto del bomber Paolo Rossi dal Perugia. «A Napoli non andrò mai», dichiara in segreto l’attaccante italiano ad alcuni amici, facendosi intercettare dal giornalista Mimmo Porpiglia, pronto a pubblicare la notizia. L’affronto finisce in contestazione: il 20 ottobre ‘79, 89.992 spettatori paganti (record nella storia della Serie A) con fischietti alla bocca riempiono il San Paolo per lo sfizio di contestare l’autore del gran rifiuto sceso a Napoli con la maglia del Perugia. La caccia al fuoriclasse decisivo non si arresta e nell’estate del 1980, in pieno scandalo Totonero, alla riapertura delle frontiere, Corrado Ferlaino e il D.G. Antonio Juliano ingaggiano dai canadesi del

Vancouver Whitecaps Ruud Krol, faro difensivo dell’Olanda dal gioco totale con licenza di offendere. È a fine carriera ma ha ancora classe da vendere. Si innamora delle donne napoletane e delle mozzarelle di bufala, a tal punto da non poter disputare un’amichevole durante il ritiro in Toscana per un’indigestione. Con lui il Napoli sfiora nuovamente lo Scudetto, ma il sogno si incrina in primavera contro il Perugia già retrocesso, che espugna il San Paolo grazie ad uno sciagurato autogol iniziale di Moreno Ferrario, e si spezza con un’altra autorete di Mario Guidetti nello scontro diretto in casa alla penultima giornata contro la Juventus che getta nello sconforto una città intera pronta ad esplodere. Niente da fare, sembra proprio che per qualche maledizione lo Scudetto non debba mai scendere a Napoli. Krol, provato dagli infortuni, lascia Napoli nell’estate del 1984 proprio mentre il dirigente dell’Avellino Pierpaolo Marino viene a sapere tramite un mediatore argentino che quel campione argentino, finito al Barcellona due anni prima, è in rotta con il club catalano. Informa prima la Juventus, che rifiuta di trattarlo, e poi il Napoli. Maradona, già considerato il più talentuoso degli astri nascenti, vuole lasciare la Catalogna e si fionda senza esitazioni sulla prima squadra italiana che gli fornisce l’occasione di evadere dalla ricca prigione spagnola e volare nel campionato più importante del Globo (in quel momento). Il Barça pure vuole disfarsene, ma a caro prezzo. La trattativa è estenuante e si conclude in extremis, anzi oltre i termini consentiti. Il prezzo è oltre i 13 miliardi di lire, e il Napoli quei soldi non ce li ha. Ma nell’estate del 1984, in piene ruberie post-sisma nella Campania dei terremotati, dei disoccupati e dei cassintegrati, la politica democristiana decide di dare ai napoletani il calciatore dei sogni e il benefico divertimento. Nel Consiglio di Amministrazione del club figurarono i democristiani Clemente Mastella, Alfredo Vito e Guido

D’Angelo, rispettivamente in quota De Mita, Gava e Cirino Pomicino; uno per ogni corrente della Democrazia Cristiana. Il sindaco DC Enzo Scotti attiva un pool di banche per fornire la copertura finanziaria dell’operazione; il D.G. Juliano tratta a Barcellona e Ferlaino, con astuto blitz all’ultimo giorno utile, consegna una busta vuota negli uffici della Lega per poi volare in Spagna per le firme. Torna a Milano a notte fonda e, con l’aiuto di una compiacente guardia giurata, riesce a sostituire la busta vuota con una contenente il contratto firmato da Maradona. La città esplode in una festa improvvisa, e non ha vinto ancora nulla. Il 5 luglio il San Paolo è pieno come un uovo per vedere Maradona palleggiare e calciare lontano un pallone. Si inaugura così l’era d’oro del Napoli, ma nessuno sa ancora a che prezzo. Tutti intuiscono che ora, con el pibe de oro, il Napoli può vincere. Tutti comprendono che il più forte calciatore del mondo, se ben assecondato, può far saltare gli equilibri precostituiti e può condurre la collassata metropoli partenopea nella competizione


con i potentati economici del Nord Italia. Anche Italo Allodi capisce nel giugno del 1985 che è il momento giusto per onorare la promessa fatta a Ferlaino tredici anni prima. Lo affianca Pier Paolo Marino, proprio il dirigente dell’Avellino che ha dato la grande soffiata. Allodi, però, è improvvisamente coinvolto in uno scandalo bis del Totonero. Si parla di “sistema Allodi”, di partite sistemate, e il manager scoppia in lacrime per le accuse. Ne esce assolto “con qualche motivo di perplessità”, ma anche sconvolto: nel gennaio del 1987 viene colto da ictus ed è costretto ad uscire lentamente dal mondo del Calcio. Dopo quattro mesi tutto sembra dimenticato quando gli azzurri riescono a mettere finalmente le mani sullo Scudetto, sul primo storico tricolore. Maradona esulta


con Bruno Giordano, Salvatore Bagni, Andrea Carnevale, Fernando De Napoli, Alessandro Renica, Claudio Garella e l’esordiente Ciro Ferrara. È l’apoteosi per il popolo partenopeo che prepara la festa come una Piedigrotta d’altri tempi e si riversa nelle strade al fischio finale di Napoli-Fiorentina del 10 maggio ’87. È un evento anche per la RAI, che manda in prima serata e sulla rete ammiraglia uno show celebrativo condotto da Gianni Minà. Qualche giorno dopo si compie l’accoppiatta Scudetto-Coppa Italia, riuscita prima di allora solo a Juventus e Torino.

Il Napoli sostituisce Allodi con il suo allievo Luciano Moggi, scafato manager in grande ascesa che aveva mosso i primi passi alla Juventus proprio all’ombra dell’ormai “pensionato” e malato Italo. Il bis Scudetto sembra cosa fatta con la MA.GI.CA. Maradona-Giordano-Careca, un tridente formidabile completato dal funambolico e imprendibile fuoriclasse brasiliano, che sceglie Napoli e si libera dal suo San Paolo perché vuole a tutti i costi giocare con il fenomeno argentino. Il Napoli vola e sembra non avere rivali a tre quarti del campionato, ma ecco spuntare il Milan di Berlusconi e Sacchi, bravo a spingere sul finale e ad approfittare della brusca e improvvisa frenata degli azzurri. Il giocattolo sembra essersi rotto sotto le accuse di aver perso lo Scudetto di proposito. Si parla di un accordo politico occulto per far vincere il Milan ma anche di scommesse al mercato nero, di forti puntate sul bis tricolore degli azzurri che avrebbe fatto perdere agli allibratori della malavita qualcosa come 260 miliardi di lire. Alla fine pagano alcuni giocatori, cacciati dal club al contrario di Maradona, che inizia a mostrare insofferenza e fastidio nei confronti di Ferlaino, il quale continua a non mantenere la promessa fatta nel 1984 di accasarlo in una villa con piscina e a lasciarlo “recluso” in un appartamento di via Scipione Capece a Posillipo. Ma il ciclo del Napoli è ancora incompleto e così giungono la Coppa Uefa nel 1989 e il secondo Scudetto nel 1990, tra una richiesta e l’altra di Maradona di lasciare il club per campionati meno stressanti. Ma lui stesso sa che è prigioniero di Ferlaino e della venerazione che i napoletani gli riservano. Un fanatismo al confine col feticismo. Egli stesso si è fatto capopopolo, accostando i napoletani agli argentini e denunciando il razzismo italiano verso i “terroni”, lo stesso che ha provato in Spagna sentendosi additato come “sudaca”. Anche per questo ha odiato Barcellona e ora detesta Verona e tutti i campi del Nord dove legge striscioni su cui è scritto “lavatevi” e sente volgarità indegne. E detesta le tre “big” del Nord, polo di un potere che si diverte a sabotare sul campo. Arriva anche la prima Supercoppa, con un sonoro 5-1 alla Juventus dopo i Mondiali italiani, quelli che segnano la definitiva rottura tra l’Italia e il campione argentino, ormai troppo inviso ai vertici federali cui ha sottratto la finalissima e offeso durante l’inno argentino a Milano, Torino e Roma. È l’ultimo bagliore di una squadra che crolla sotto la tossicodipendenza del suo leader. Una tossicodipendenza nata a Barcellona e degenerata a tal punto da bloccare troppo spesso Maradona in casa, anche quando c’è da volare a Mosca per la Coppa dei Campioni. Le maglie dei controlli antidoping sono larghissime da anni ma stranamente si fanno strette e il campione argentino ci casca solo nell’aprile 1991, proprio nel giorno in cui Moggi annuncia alla stampa che il ciclo del Napoli è finito e lui

andrà via a fine stagione. Tenere in squadra un Maradona allo sbando che non incide più non conviene alle casse del club, che, per accontentare il suo fuoriclasse e mettergli attorno altri campioni negli anni, ha speso in ingaggi il 30% in più di quanto incassato. Ma neanche si può vendere l’idolo assoluto dei napoletani, l’orgoglio massimo della storia azzurra, più prezioso dei trofei portati alla bacheca azzurra, pena la sommossa popolare. La storia napoletana di Diego si conclude nel modo meno “catastrofico”. Il suo erede l’ha portato in casa proprio Moggi, e si chiama Gianfranco Zola. Gli sforzi economici, senza una grande holding alle spalle ma architettati da uno smaliziato costruttore edile, stanno per presentare il conto. Inizia una crisi che dura oltre un decennio, con continui passaggi della maggioranza a imprenditori incapaci di risollevare il club, uscite e rientri di Ferlaino, cessioni dolorose (Ciro Ferrara prima e Fabio Cannavaro poi), qualche soddisfazione targata Claudio Ranieri e Marcello Lippi, e tanta Serie B, dopo 33 anni consecutivi di permanenza nella massima serie. Il televenditore riminese Giorgio Corbelli e l’imprenditore alberghiero napoletano Salvatore Naldi liquidano l’ingegnere ma a tentare il disperato salvataggio resta solo il secondo, che cede nell’estate 2004 e porta i libri contabili in tribunale. Il 2 agosto 2004 la Società Sportiva Calcio Napoli viene decretata fallita. È questo il prezzo differito che il club paga per aver portato a Napoli il miglior calciatore del mondo, gli scudetti e le coppe. L’iscrizione al campionato di B è impossibile. Resta percorribile la strada dell’iscrizione alla Serie C1, ma bisogna assicurare una nuova proprietà e grandi investimenti. 6 possibili acquirenti si fanno avanti. La curatela fallimentare snobba la proposta d’acquisto del plateale presidente del Perugia Luciano Gaucci e si orienta verso quella più seria del proprietario dell’Udinese Giampaolo Pozzo, il quale ha tutto l’interesse a portare la regina del Sud in

orbita friulana. Ma ecco che all’improvviso compare sulla scena il cineasta romano di famiglia napoletana Aurelio De Laurentiis, che con un blitz convincente fa suo il club. Il nuovo proprietario riporta subito a Napoli Pierpaolo Marino e, in tre stagioni, la Serie A. Il 10 giugno 2007, col pareggio in trasferta contro il Genoa, esplode una nuova festa in Città. Stavolta sono i più giovani ad animarla, quelli che negli anni Ottanta non erano nati, e che sono cresciuti vedendo la squadra del cuore arrancare nelle serie minori. Il Napoli di De Laurentiis cresce e raggiunge anche l’Europa, prima quella minore e

poi quella dei Grandi. Torna pure il profumo di Scudetto con il trio Cavani-Lavezzi-Hamsik diretto da Walter Mazzarri, ma il primo trofeo della nuova Era è la Coppa Italia, la quarta della storia, nell’indimenticabile finale del 20 maggio 2012 a Roma contro la Juventus. Due anni dopo, il 3 maggio 2014, sempre a Roma, anche la quinta coppa nazionale contro la Fiorentina, macchiata dall’aggressione a mano armata che causa la morte del

tifoso Ciro Esposito. Stavolta in panchina c’è il vincente tecnico spagnolo Rafa Benitez, tra i più quotati del mondo, che ha il compito di accompagnare il Napoli in una crescita di respiro internazionale. Ma le sue aspettative e quelle dei tifosi non vengono appagate fino in fondo, nonostante la vittoria della seconda Supercoppa in un’interminabile finale a Doha conclusa ai rigori contro la rivale di sempre: la Juventus. Il monte ingaggi è cresciuto con 70 milioni di investimento e 135 milioni per i cartellini di calciatori importanti, su tutti l’argentino Gonzalo Higuain, uno dei più completi attaccanti al mondo, chiamato a sostituire il partente Cavani. Due mancate

partecipazioni alla Champions League creano un danno alle floride casse sociali e fanno rinunciare al progetto, anche se la squadra accede all’Europa per il sesto anno consecutivo (record corrente della Serie A) e prosegue in un ciclo che, in quanto a risultati e vittorie, è secondo solo a quello oneroso dell’Era Maradona. L’abiura si chiama Maurizio Sarri, una scommessa che segna un nuovo corso tutto da scoprire, mentre il club targato De Laurentiis divide i tifosi per l’impostazione aziendale a carattere familiare e per la parsimonia che tiene lontano lo spettro del dissesto; uno spauracchio ora esorcizzato ma che ha accompagnato l’azzurro per ottant’anni, compresi quelli d’oro degli Scudetti in cui la bigliettazione allo stadio rappresentava il 90% del fatturato (altri tempi). È la prima volta che accade nella storia di un club che è massima espressione calcistica di un territorio, quello meridionale, che non supera il 20% di presenza delle proprie squadre al Massimo Campionato, capace di vincere solo 8 scudetti contro i 103 del calcio settentrionale. La storia insegna che non si impara nulla da essa, ma quella azzurra deve invece inorgoglire i suoi tifosi a prescindere dai traguardi raggiunti, dai grandi campioni che l’hanno scritta e dai tanti travagli vissuti. Essere tifosi del Napoli, in ogni parte del mondo, vuol dire sostenitore un club unico come la Città che rappresenta, e dei cui affanni è specchio fedele, così come della sua ineguagliabile volontà di non chinare la testa, nonostante tutto. Auguri, Napoli. Auguri, passione azzurra.

C’è dell’azzurro nei cattivi pensieri bianconeri

Angelo Forgione – Sul profilo Facebook di Marco Storari, secondo portiere della Juventus, è spuntato un video dei festeggiamenti della Juventus nello spogliatoio dopo la partita contro il Real Madrid. All’improvviso (a 11 secondi) qualcuno pare gridare: “Napoli m…!”. Il video sta facendo discutere a tal punto che è stato cancellato dal profilo originale e ricaricato in formato ridotto, col taglio dell’urlo della discordia. La traccia audio è veramente poco chiara, ed è difficile commentare qualcosa di incerto, nonché inutile. Del resto, il video era privato, anche se Storari l’ha reso pubblico, probabilmente senza rendersi conto di ciò che aveva catturato. Il vero problema è semmai ciò che si sente ogni domenica in pubblico, e anche durante la settimana. Perché stupirsi se nello spogliatoio chiuso di una squadra italiana qualcuno esprime odio per Napoli o semplicemente il Napoli? È “normale” in un paese in cui la cultura sportiva è all’età della pietra. In un clima del genere, di cui è colpevole la Federazione (che sa punire Benitez per ciò che nessuno ha ascoltato e non sa punire i tifosi per ciò che tutti ascoltano), i napoletani si sentano fieri di essere nei pensieri della squadra più forte e vincente d’Italia, che le uniche finali perse in questi anni di rinascita post-Calciopoli le ha dovute cedere al Napoli. Solo due volte i bianconeri hanno dovuto guardare gli avversari alzare la coppa. Non c’è dubbio che la Coppa Italia 2012 e la Supercoppa 2014 brucino ancora nello spogliatotoi juventino, a prescindere dal presunto urlo nel ventre del Santiago Bernabeu. Ora, per i bianconeri, la finale di Coppa Italia contro la Lazio e quella ben più ardua di Champions, contro il Barcellona, l’altra squadra-nazione sullo scenario europeo… oltre al Napoli, ovviamente.

Il Napoli con gli attributi

Angelo Forgione L’ha vinta il Napoli la Supercoppa, al culmine di una partita non brillante ma avvincente, sempre in equilibrio e all’ultimo respiro. È l’ha meritata, perché è raro vedere nei confini tricolori una squadra mettere sotto, seppur a tratti, la regina Juventus. I bianconeri, come da tradizione, non volevano lasciare il trofeo agli avversari. La voglia era tutta nell’esultanza di gruppo quando Tevez l’aveva indirizzata a Torino, e nella tensione sui volti juventini – in campo, in panchina e in tribuna – durante i calci di rigori. Al contrario, i calciatori azzurri, determinati come gli avversari, hanno affrontato la lotteria finale con maggiore allegria e sorrisi, e pure con gesti virili decisamente plateali, che sono diventati il marchio di fabbrica del trionfo finale. Solo con gli attributi la coppa, quasi persa, poteva prendere la via di Napoli. L’ultima l’aveva alzata Maradona, troppi anni fa.
E per una volta niente polemiche sugli arbitri (stavolta adeguati), sugli sparuti cori razzisti evidenziati solo dal silenzio del teatro… pardon… stadio, sulla Rai che propone il commento inappropriato dell’ex-juventino Marco Tardelli, su Luciano Moggi che, nel post-partita del Processo del Lunedì, mostra freudianamente di essere ancora acquattato nella sede della Juventus (in attesa della Cassazione) e su Evelina Christallin che, nella stessa trasmissione, chiosa altrettanto freudamente «il Napoli non ha demeritato». Scusate, ma chi ha vinto? Alla fine ho fatto polemica.

Il Napoli allo sceicco? Molti “rumors” e poco realismo.

Angelo ForgioneRispetto il lavoro della redazione di Cronache di Napoli ma non riesco a trovare ragionevolezza nella notizia della cessione del Calcio Napoli allo sceicco Hamad bin Kamad bin Khalifa bin Ahmad Al Thani, presidente della Federcalcio del Qatar, per la sola visibilità in vista dei Mondiali in casa del 2022. Che dei contatti ci siano stati è verosimile, e del resto lo yacht dell’ex primo ministro qatariota Hamad bin Jassim bin Jaber Al-Thani ha fatto bella mostra di sé al porto di Napoli lo scorso luglio. Ma credo che in quell’occasione sia potuta nascere al massimo l’idea di portare la finale di Supercoppa a Doha.
I qatarioti vogliono diventare i padroni del Calcio europeo, certo, ma non per il gusto di alzare coppe e trofei. Attraverso il loro fondo sovrano Qatar Holding, stanno divorando l’economia continentale e il Football gli serve per quel che rappresenta nei tempi moderni, ovvero come strumento per ottenere consensi e accesso ad affari ben più remunerativi. Il Qatar, grande, anzi piccolo come l’Abruzzo, é la terza riserva al mondo di gas naturale liquefatto (LNG), risorsa che frutta miliardi di euro. La larghissima famiglia Al Thani va dove si moltiplicano i suoi soldi. A Parigi, ad esempio, dove il tifoso del PSG Nicolas Sarkozy, da presidente della Repubblica, gli aprì le porte firmando un trattato fiscale molto vantaggioso per i residenti e gli investitori qatariori sul territorio francese, esentandoli dalle imposte sulle plusvalenze immobiliari. Insomma, la Francia è divenuto un paradiso fiscale ad hoc per gli sceicchi e Tamim bin Hamad Al Thani si è preso il PSG.  Con Hollande al posto di Sakozy all’Eliseo le cose non sono cambiate. Tra i due paesi intercorrono interessi in tema di turismo, aviazione, gas, petrolio, elettricità, infrastrutture, sicurezza del territorio, politiche sociali e cooperazione scientifica.
Un altro pezzo della famiglia, Abdullah Bin Nassar Al Thani, altro uomo d’affari e cugino di quello del PSG, sempre nel 2010, comprò il Malaga in Spagna. Iniziò a metterci bei soldi, perché le sue prospettive erano su un nuovo stadio in periferia e sul porto della città. Gli accordi coi politici spagnoli sono venuti meno e i rubinetti si sono praticamente chiusi. “Non ho trovato il rispetto e la stima: mi dispiace, ma adesso me ne vado“; così ha annunciato il proprietario qualche mese fa, e ora cerca acquirenti per levare le tende.
I qatarioti in Italia ci sono venuti, come in ogni parte d’Europa, ma non per il Calcio. Approfittando della crisi, hanno acquistato la maison Valentino e la Costa Smeralda, e continuano ad investire nel settore immobiliare. Ma il nostro pallone non gli interessa, perché è sgonfio, fallimentare, e non apre ad affari veramente appetitosi. Loro sanno bene in che condizioni versa il nostro Paese, perché stanno contribuendo all’alienazione di pezzi della nostra economia, e sanno che l’Italia è un inferno fiscale; e sanno pure che neanche gli stadi nuovi con le strutture ricettive attorno riusciamo a fare. Sicuramente sono a conoscenza del fatto che il Sud-Italia è la macroarea arretrata più estesa e popolosa dell’Eurozona, cioè una colonia interna. Loro che investono in Gran Bretagna, Francia e Germania, quale vantaggio reale potrebbero ottenere immettendo danari nel Napoli? Farebbero più presto a comprarsi quello che gli serve, visto che è in (s)vendita; e infatti già lo fanno, senza girarci troppo attorno.

video / Parole Marchisio, risentimento ingiustificato

Da “La Radiazza” (Radio Marte), il parere di Angelo Forgione sull’eccessivo caos intorno alle frasi di Claudio Marchisio e la telefonata di Gianni Simioli al padre del calciatore juventino.

Marchisio detesta solo il Napoli… ma ammira Napoli

Angelo Forgione – Grandi polemiche e botta e risposta tra Napoli e Juventus hanno suscitato le parole di Claudio Marchisio rilasciate al magazine “Style” del “Corriere della Sera”. «Un calciatore che mi suscita particolari antipatie? Non qualcuno in particolare, ma una intera squadra: il Napoli. Dopo le finali ruvide di Coppa Italia e Supercoppa. Quando me li trovo di fronte scatta qualcosa». Parole del centrocampista della Juventus.
Tranquilli, non è l’Amandola bis; qui la puzza dei napoletani non c’entra. È solo sana rivalità sportiva, ampiamente ricambiata. È l’orgoglio di un torinese doc e juventino dop (rigorosamente protetto) che ancora non ha digerito la sconfitta di Coppa Italia dello scorso Maggio e la maniera con cui la sua squadra ha vinto la rivincita a Pechino. Uno sfogo che va anzi letto con grande orgoglio dai napoletani, senza alcun risentimento, firmato da un piemontese che di Napoli non nutre “antipatia” solo per la squadra di calcio: alla vigilia dello scorso Juventus-Napoli (2-0), il nostro dichiarò alla stampa che «non c’è nulla di più bello che svegliarsi a Napoli, aprire la finestra e affacciarsi sul Golfo… In ogni stagione!».
La sottrazione di trofei sul campo, le rivincite avvelenate da evidenti favori arbitrali, la disponibilità in rosa di giocatori desiderati. Questo è evidentemente il Napoli per Marchisio. E la stima, nello sport, si esprime con le forti rivalità. È appagante che lo juventino non pensi a Milan e Inter, bensì al Napoli. Che gli azzurri siano sempre più antipatici! Come Juventus, Milan e Inter.

L’estate rovente del calcio italiano

dalla Supercoppa al via della Seria A scontri e premesse peggiori

di Angelo Forgione per napoli.com

Il Napoli vince il derby delle Due Sicilie con una rotonda tripletta e parte col piede giusto in campionato. Partita senza veleni nonostante un rigore non fischiato al Palermo per fallo di Maggio su Cetto che però ha calciato. Poche le proteste e grande onestà intellettuale di Sannino che ha riconosciuto senza esitazioni la superiorità schiacciante degli avversari. È questo il calcio che piace e che fa dimenticare per un attimo gli orrori e le nefandezze di Paolo Silvio Mazzoleni e le ombre cinesi di Pechino con cui ci eravamo lasciati prima di Ferragosto. Lo abbiamo ritrovato a dirigere la primissima partita del campionato tra Fiorentina e Udinese senza che il designatore Nicchi si sia posto il problema di sospenderlo. Un arbitro viene sospeso quando si rivela inadeguato al ruolo e con tale atto se ne certificano gli errori. È quindi chiaro che l’A.I.A. ha così “dichiarato” che l’arbitraggio di Mazzoleni fu corretto e, per punire il Napoli che se n’era andato sotto la doccia, l’ha pure promosso per il “vernissage” di Firenze.
Troppe cose non quadrano, tutto sembra una continua sfida all’umano intelletto, alla ragione e al buon gusto. Gli affronti si moltiplicano e danno corpo ad un tutti contro tutti di dimensioni bibliche; società contro gli arbitri, arbitri contro le società, Cassano contro Galliani, Zeman contro la Juventus, Carrera contro Mazzarri, Mazzarri contro Agnelli ed Elkann che bacchettano il Napoli invocando lo spirito olimpico salvo poi ricusare le sentenze della giustizia sportiva e mandare a dirle a Conte che senza lo stemma della Juventus e i suoi avvocati alle spalle ci penserebbe tre volte prima di scagliarsi contro i giudici, innocente o colpevole che sia.
La gravità dell’attacco dell’allenatore bianconero sta nel portare la faccenda in curva, etichettando i giudici come “tifosi” e rivolgendosi a “tutto il popolo juventino” che deve sapere del presunto complotto. Pericoloso e sconsiderato! La tifoseria juventina si sente così investita di un ruolo, quello della vittima designata. E siccome una tifoseria che si raduna in uno stadio è per abitudine cieca ci vuole poco a immaginare cosa potrà succedere nel corso della stagione. Alla prima di campionato, Juventus-Parma, dagli spalti torinesi sono piovute offese per tutti; per il procuratore Palazzi, per Mazzarri, per Zeman e, tanto per non perdere le sane e buone abitudini, per i napoletani. E meno male che la Juve ha maramaldeggiato tra un rigore gentilmente infiocchettato e un goal fantasma che resta fantasma a differenza di altri palloni oltre la linea del passato entrati in porta ma non sui tabellini e negli archivi della FIGC.
La differenza tra un tifoso cieco e un tifoso intellettualmente onesto sta nella differenza tra i cori juventini e le parole di Marco Travaglio che, sempre più disgustato dalla sua squadra del cuore (ma non della testa), a John Elkann ha detto di vergognarsi di cugino Andrea che ha reso più sopportabile l’onta di calciopoli del 2006, prendendosi gli insulti dei primi, i ciechi. Sembra che il calcio italiano, incapace di regalare sogni estivi agli italiani come negli anni 80-90, abbia trovato il modo peggiore per far parlare di sé e il gallo di turno si mette d’impegno per mantenere la sua posizione privilegiata sulla munnezza. Il baratto Cassano-Pazzini è il compendio delle nozze coi fichi secchi che poi sono marci perchè anche Cassano vomita veleno sul Milan e i suoi ex tifosi lo mettono nel mirino. Se il buongiorno si vede dal mattino, questa è un’alba nuvolosa che nasconde il sole.
Ma per fortuna il calcio giocato, non condizionato, ci ha regalato un po’ di divertimento e un raggio di luce, uno squarcio nelle tenebre dopo tanto disgusto firmato Cavani che ancora una volta ha dato un dispiacere ai suoi ex-tifosi e una volta ancora ha contenuto l’esultanza in quello che è stato il suo stadio. Atto spontaneo e non formale di un calciatore con qualche valore in più. Gesto che scalda il cuore sporcato negli studi di Mediaset Premium dal cinismo di Aldo Serena che ha detto di non capire “certi atteggiamenti che mortificano la bellezza del calcio”, spalleggiato da Maurizio Pistocchi che nel gesto del “matador” ha visto una mancanza di rispetto nei confronti dei tifosi del Napoli. I quali invece apprezzano, applaudono e ringraziano pure.
Calcio che trita tutto, anche quei pochi valori residui. Manca il buonsenso oltre i soldi e le idee. Quello che in un passato neanche tanto lontano consentiva di nascondere il volto brutto di uno sport che già si trasformava in show-business. A proposito, Corrado Ferlaino ha parlato con Dario Sarnataro per “Il Mattino” e ha fatto una battuta per commentare il furto di Pechino: «Dopo 150 anni i piemontesi ci hanno fregato un’altra volta. Allora si servirono di Garibaldi, stavolta di Mazzoleni». Non era solo una battuta, di Ferlaino è nota la conoscenza e la passione per le vicende storiche di Napoli condivisa con l’ex moglie Patrizia Boldoni. E l’ex presidente non ha fatto riferimenti casuali perchè sa bene che gran parte delle mille camicie rosse era bergamasca, proprio come Mazzoleni. Ma se il buon Corrado, negli anni degli scudetti, avesse dato ascolto alla sua passione invece di accontentare la sua ex signora affascinata dalla figura di Napoleone oggi non avremmo la N napoleonica sovrapposta all’azzurro borbonico. Chi conosce la storia di Napoli sa che l’epoca di Napoleone iniziò con furti e ruberie all’ombra del Vesuvio (vero Championnet?). Poi arrivarono i piemontesi, mezzi francesi con l’aiuto degli inglesi. E la storia si ripete, non solo nel calcio. Caro Ferlaino, ma allora te le cerchi?!

Napoli nemica giurata, deve pagare… e paga!

Napoli nemica giurata, deve pagare… e paga!

giustizia sommaria contro quella ordinaria e sportiva

Angelo Forgione – Dobbiamo rendercene conto. Napoli è una nuova nemica giurata della Juventus, al pari delle forze economiche di Milan e Inter. Come lo è diventato se i capitali messi in campo dal fastidioso De Laurentiis non sono ingentissimi? Non solo per la competitività gestionale e quella tecnica espressa in campo in questi anni, non solo per la sottrazione della stella d’argento sulle maglie bianconere, ma anche e soprattutto per quella grande spina nel fianco del corpo juventino che fa sanguinare: la giustizia, ordinaria e sportiva. Napoli è detestata perchè la sua Procura della Repubblica ha condotto il processo di “calciopoli” che ha fruttato la Serie B e cancellato due scudetti, ovvero la famigerata terza stella della discordia. Napoletani sono l’ex procuratore Lepore, il PM Narducci e il Tenente Colonnello Auricchio così come napoletano è il procuratore federale Palazzi, grande accusatore dei prosciolti Bonucci e Pepe ma soprattutto dello squalificato Conte (solo per ora, ma la squalifica in panchina è comunque una farsa) cui, non a caso, è stata dedicata la vittoria. Napoli è odiata dalla Torino e dall’Italia bianconera e deve pagare per il sangue versato, per i continui “fastidi”. Mettiamoci poi un De Laurentiis ingombrante e i fischi all’inno nazionale italiano che Abete, Petrucci e l’Italia intera non hanno gradito. A Pechino Napoli ha pagato e, col senno di poi, ognuno discerna se sia stata solo sfortuna o se l’avvertimento sia stato recapitato tramite un corriere col fischietto tra le labbra.
È tutto qui il livore di quotidiani e siti schierati che non vedevano l’ora di veder perdere Napoli, non solo il Napoli, di scrivere fiumi di sprezzo e puntare il dito verso chi ha protestato per il danno e non verso chi ha danneggiato. L’assenza del Napoli durante la premiazione è un po’ come i fischi all’inno nazionale, cioè il disappunto di chi ha capito di aver subito un danno non casuale. E allora grande spreco di pareri di Xavier Jacobelli, Giancarlo Padovan, Giuseppe Cruciani, Tony Damascelli e i vari bacchettatori per cui quella di ieri è una sceneggiata di Pulcinella senza precedenti. Col primo ho avuto un personale botta e risposta interrotto dall’esercito di indignati per un’affermazione scorretta purtroppo non rettificata. Cruciani invece, come suo solito, non si è confrontato censurando chi non la pensa come lui anche se educatamente. Complimenti vivissimi a tutti!

Supercoppa, in Cina vincono Juve, arbitri e disgusto

Supercoppa, in Cina vincono Juve, arbitri e disgusto

16mila chilometri a/r per “valorizzare” il solito volto della Serie A

Che senso ha andare in Cina a promuovere il calcio italiano e poi esportare il peggio del movimento calcistico nazionale? Che senso ha che un arbitro, ben spalleggiato dai suoi collaboratori, si issi a protagonista indiscusso indirizzando e rovinando una gara fino a quel momento ben combattuta? No, non c’è nulla di logico in tutto questo.
Mi hanno raccontato di piccoli tifosi del Napoli in lacrime per la frustrazione. Tutto questo è diseducativo, immorale. Poi è normale che i bambini si attacchino al potere e ingrossino il popolo juventino piuttosto che milanista o interista. Così si indirizzano da sempre le forze del calcio in Italia.
Ricordo che quando nel 2007 un Bergonzi in confusione decretò due rigori inesistenti al Napoli vincente sulla Juventus per 3-1, De Laurentiis si scusò con l’allora presidente bianconero Cobolli Gigli che gridò allo scandalo insieme a tutta la stampa e le tv nazionali. Oggi non gli si può imputare di aver fatto disertare alla squadra la cerimonia di premiazione. Mancanza di sportività e rispetto? La mancanza di sportività e rispetto non sta né in questa comprensibile protesta né nell’infierire cercando il goal in condizioni di netta superiorità ma semmai nell’esultare in campo e in panchina dopo averlo trovato facilmente.
Oggi non si è esportato il marchio della Serie A in Cina ma evidentemente un altro marchio perchè nessuno aveva l’obiettivo di preservare e valorizzare lo spettacolo. Dopodiché non c’è più da stupirsi per gli stadi fatiscenti di “Italia 90”, della fuga dei talenti, della violenza, del razzismo, del doping, delle schede telefoniche svizzere, dei passaporti falsi e del calcioscommesse. Al momento da noi resta solo la competizione ma se si sacrifica anche quella meglio che diciassette squadre si iscrivano ad un altro campionato prima di inoltrarsi nel “buongiorno” dopo aver visto il mattino.

Marco Travaglio, uno juventino disgustato

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Tuttosport, solita descrizione di una certa Napoli

Tuttosport, solita descrizione di una certa Napoli

“Insigne & c. al mercato del falso dove non devono imparare”

Che la falsificazione dei brand sia un’arte illecita anche napoletana è risaputo. Non lo scopriamo oggi e non lo scopre Guido Vaciago di Tuttosport che però ricama come al solito sulla presunta visita dei giocatori del Napoli al “New Silk Market” di Pechino: “Tra un allenamento e l’altro, comunque, c’è tempo per un pò di shopping e ieri nel famoso centro commerciale del fake, ovvero il tempio del falso made in China, sono stati avvistati Insigne e altri giocatori del Napoli. Si sono ovviamente sprecate le battute sul fatto che in fatto di griffe falsificate a Napoli non devono imparare niente da nessuno”.
In primo luogo bisogna specificare che quel mercato è la terza meta turistica di tutta la Cina dopo la “Città proibita” e la “Grande Muraglia”, ci sono centinaia di bus turistici parcheggiati nel piazzale antistante che scaricano fiumi di curiosi provenienti da ogni continente. È normalissimo che i calciatori del Napoli, così come quelli della Juventus e di ogni squadra di passaggio nella capitale cinese, possano essere attratti nel tempo libero da questa particolare attrazione, ed è quindi gratuito discutere su tutto ciò che ci sta attorno solo perchè si scrive su un giornale sportivo torinese di quel che possono essere gli effetti collaterali, quindi negativi, dell’ingegno napoletano. Non è da discutere la notizia in sé stessa ma la caduta di stile di Vaciago che scrive “Insigne e altri giocatori del Napoli” facendo di un napoletano l’emblema di questa spedizione senza precisare chi siano gli “altri giocatori” che potrebbero essere settentrionali o stranieri. Non è citato Cannavaro, quindi presumibilmente non era con Insigne e compagnia. Se non ci fosse stato Insigne forse questo momento di relax non sarebbe stata neanche segnalato. Non discutiamo la notizia, discutiamo semmai il ricamo chiaramente inquadrato nella classica denigrazione velata. È una questione di etica e di rispetto che troppo facilmente a qualcuno viene a mancare.