Garibaldi bianconero? Forse sarebbe stato antijuventino.

Angelo Forgione “Garibaldi era juventino!”. Lo ha voluto chiarire, in modo anacronistico, una sigla politica che fa capo a Enzo Rivellini e Roberto Lauro, che hanno mandato qualcuno lassù, in cima al colossale monumento a Garibaldi, nella piazza della stazione centrale di Napoli, a porre un mantello a strisce bianconere per chiedere che la statua “ritorni in Piemonte, in quelle risaie che si bonificarono grazie ai soldi che lo juventino Garibaldi rubò alle casse del Banco di passato”. E di fianco, per ironia della sorte, un’immagine pubblicitaria griffata “Borbone”.
Mantello bianconero poi rimosso da alcuni addetti comunali, ma resta il gesto verso uno dei simboli meno amati dai napoletani, al pari delle statue di Vittorio Emanuele II in piazza Bovio e sulla facciata di Palazzo Reale.

Ovvio che quella di questa notte sia stata una forte provocazione, dacché quando Garibaldi scese al Sud per consegnarlo ai Savoia il Football era agli albori nella sua culla di Sheffield. Ma stiamo al gioco, quantunque poco ludico, e proviamo a capire se il Dittatore delle Due Sicilie, come egli stesso si autoproclamò nel settembre del 1860, sarebbe davvero divenuto juventino, a inizio Novecento.
Intanto bisognerebbe chiarire se sia la Juventus la squadra dei Savoia, e non il Torino. Certo, in casa Savoia, solo Vittorio Emanuele IV si è permesso di voltare le spalle alla Juventus per sostenere il Napoli, la squadra della città in cui è nato e cresciuto. Suo padre, Umberto II, era stato padrino di battesimo di Umberto Agnelli. E la Juventus, non il Torino, fu l’unica squadra che, per volontà di Gianni Agnelli, il 20 marzo 1983, due giorni dopo la morte del “Re di Maggio” a Ginevra, portò il lutto al braccio, in un match a reti inviolate contro il Pisa. Fu quella l’unica manifestazione di cordoglio pubblico per l’ex sovrano, che non mancò di suscitare aspre polemiche politiche, e già questo basterebbe per certificare il legame tra Casa Savoia e la squadra della «famiglia».

E però non credo che Garibaldi, se pure si fosse appassionato al Football, sarebbe diventato juventino. Forse simpatizzante di qualche squadra inglese; il Nottingham Forest, per esempio, i cui fondatori, nel 1865, scelsero esattamente il “Garibaldi Red”, il rosso garibaldino delle camicie dei protagonisti della spedizione dei Mille per le loro maglie. O magari milanista, visto che il fondatore del Milan, Herbert Kilpin, un inglese di Nottingham, a tredici anni, partecipò alla creazione del Garibaldi Nottingham 1883, compagine che scendeva in campo indossando delle camicie rosse garibaldine, come il Nottingham Forest. Anche per il Milan Kilpin scelse il rosso, ma abbinato al nero, perché quella fosse – come disse l’inglese fondatore – “una squadra di diavoli che doveva impaurire gli avversari”. Un po’ come i garibaldini.

No, non credo che Garibaldi sarebbe diventato juventino. Lui non amò né Carlo Alberto, da cui fu condannato a morte in contumacia per aver cospirato contro Casa Savoia, salvo poi ottenere il ritiro del provvedimento in cambio del suo servizio nei moti del 1848, e neanche apprezzò Vittorio Emanuele II, al quale diede una fondamentale mano nella conquista di Napoli e del Sud per interessi degli amici inglesi, che, cancellando Napoli capitale, intesero addomesticare l’Italia nell’imminenza dell’apertura del Canale di Suez.
Conquistata Napoli, nel settembre del 1860, tra Garibaldi e Vittorio Emanuele la tensioni furono altissime. Il nizzardo, una volta compreso di essere stato usato dal piemontese, sciolse il suo esercito, non prima di aver schierato in riga tutti i suoi uomini davanti alla saccheggiata Reggia di Caserta, sperando di poter ricevere gli onori da quel re al quale aveva regalato il Mezzogiorno. L’attesa durò ore, e fu vana, poiché Vittorio Emanuele II puntò direttamente su Napoli. Garibaldi lo raggiunse più adirato che mai, dando vita a un’asprissima discussione per chiedere di essere nominato viceré dell’Italia Meridionale, ma ottenendo rifiuto.
Il Generale abbandonò Napoli per Caprera il 9 novembre, dopo aver salutato privatamente l’ammiraglio Kodney Mundy sull’incombente nave da guerra inglese Hannibal, ringraziandolo per il decisivo aiuto ricevuto dal regno britannico. Il Re di Sardegna, invece, lasciò la città solo il 26 dicembre, una volta accertatosi che le operazioni belliche nella decisiva battaglia di Gaeta volgevano a favore dell’esercito piemontese. Proprio quel giorno si disputava a Sheffield la primissima partita di calcio della storia, un’amichevole tra Sheffield FC e Hallam FC.
Tra il Re e il Generale la tensione crebbe, come dimostra lo scontro a fuoco in Aspromonte. Garibaldi fu invece sempre grato ai “Fratelli” di Gran Bretagna, cui diede libera manifestazione nell’aprile del 1864, recandosi a Londra per ricevere la cittadinanza onoraria. Fu accolto dal delirio di una folla straripante, un milione di persone lungo le strade percorse dalla sua carrozza, e al Crystal Palace, durante una delle tante tappe del suo viaggio, per rispondere alle dimostrazioni di simpatia, pubblicamente dichiarò:

«Senza l’aiuto di lord Palmerston, Napoli sarebbe ancora sotto i Borbone; senza l’ammiraglio Mundy, io non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina. Se l’Inghilterra si dovesse un giorno trovare in pericolo, l’Italia si batterà per essa».

Alla fine si rese conto anche Garibaldi di cos’era l’Italia dei Savoia da lui favorita, dimettendosi dalla carica di deputato al Parlamento nel settembre del 1868, disgustato per la condotta del Governo della Destra nei confronti del Mezzogiorno. In una lettera scritta per chiarire il suo disimpegno alla rammaricata patriota Adelaide Cairoli, il nizzardo si mostrò pentito del suo apporto alla causa sabauda in alcuni significativi passaggi:

“[…] E mi vergogno certamente di avere contato, per tanto tempo, nel novero di un’assemblea di uomini destinata in apparenza a fare il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l’ingiustizia, il privilegio e la prostituzione! […] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame. Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato”.

Dieci anni più tardi, l’anziano Garibaldi, frustrato e deluso dai governi sabaudi, apprese del tentato regicidio di Umberto I a Napoli ad opera del lucano Giovanni Passannante, animato dalla rabbia per la miseria e le tasse al Sud, e commentò così:

“Il malessere politico altro non è che una conseguenza dei pessimi governi; e questi sono i veri creatori dell’assassinio e del regicidio”.

Giuseppe defunto non seppe mai dell’assassinio di Umberto I, al quarto tentativo, quello letale di Gaetano Bresci, che lo fece fuori il Re nel luglio del 1900, a Monza, perché quel sovrano era odiato anche in Lombardia.
Quattro anni dopo, a Napoli, veniva inaugurato il monumento in bronzo a Giuseppe Garibaldi, issato su un alto piedistallo. Il titolo di campione d’Italia era per la sesta volta su sette edizioni nelle mani del Genoa, vincitore dei primi tornei riservati esclusivamente a squadre piemontesi, liguri e lombarde che escludevano il resto d’Italia e assegnavano i primi “titoli”, oggi ben ostentati nelle bacheche e nell’albo d’oro. Erano i colori rossoblu, ispirati proprio alla bandiera britannica tanto amata da Garibaldi, a dominare i primi calci al pallone italico. Ma sì, forse Garibaldi, peraltro nato a duecento chilometri da Genova, da grande opportunista qual era, sarebbe diventato un genoano della prima ora, e chissà, forse anche antijuventino. Una cosa però è sicura: molti napoletani non sono diventati garibaldini.

Sceneggiata napoletana o juventina?

Angelo Forgione Che nazional questione il match fantasma Juventus-Napoli! Che festival della partigianeria! E che superficialità di analisi! Da saggista, da giornalista, studiando il calcio e scrivendone un libro, ho imparato a distaccarmene e ad analizzarlo senza metterci il cuore, perché il calcio-business di cuore non ne ha, e senza metterci l’ancor più dannosa pancia, perché quella è predominante nell’orbita esterna del calcio-business e conduce facilmente nel vortice perverso del giornalismo sportivo condizionato dal tifo, anche quello nazionale, che in questi giorni si è nuovamente smascherato nel tentativo di capire se il Napoli fosse stato davvero obbligato dall’ASL o se avesse recepito la decisione con piacere per sottrarsi al confronto con la Juventus sul campo. Complice al sorgere del dubbio, De Laurentiis è certamente colpevole di aver palesato le simpatie reciproche con il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, e a questo punto il dibattito investe gli evidenti e noti errori di comunicazione del patron azzurro.

Non arrivo in ritardo ad analizzare la vicenda, tra l’altro dopo essermi silenziato volontariamente durante lo tsunami mediatico sollevato dalla mancata partenza degli Azzurri alla volta dell’Allianz Stadium per evitare di esprimermi senza le necessarie conoscenze. In verità sono pure arrivato in anticipo, scrivendo proprio sabato mattina, ben prima del caos scatenato dall’intervento dell’ASL di Napoli, che la partita andava rinviata a prescindere per la complicata evoluzione dell’eventuale incubazione del Covid-19 in seno alla rosa degli Azzurri dopo il match contro il Genoa. Ne andava della sicurezza della Juventus.

Il caso Genoa era esattamente il monito che, dal punto di vista sanitario, metteva a rischio la Juventus e tutti gli individui che il Napoli avrebbe incontrato nella sua trasferta. Dunque, sulla scorta di quanto accaduto alla squadra ligure nei giorni precedenti, l’ASL di Napoli ha disposto l’annullamento della fallace quarantena “soft” per gli Azzurri in odor di allargamento del contagio. Il campanello d’allarme è stata la positività di Zielinski, seguita da quella di Elmas. E qui bisognerà appurare se il Napoli abbia osservato il Protocollo alla lettera, come ha insinuato Andrea Agnelli, o se lo abbia disatteso lasciandoli liberi di tornare ai loro domicili senza comunicarli all’ASL. È questa la vera partita che il Napoli giocherà in tribunale. La dottoressa Maria Rosaria Granata dell’Asl Napoli 2 Nord, intanto, all’emittente campana TeleclubItalia, ha detto che il Napoli non ha sbagliato nulla.
I tamponi effettuati venerdì e sabato, in ogni caso, fissavano la situazione del momento, non certo chiudendo la “finestra”. Così si chiama il periodo di incubazione di un virus, durante il quale si può risultare negativi oggi e positivi domani. È esattamente quello che era accaduto al Genoa, sceso a Napoli senza due positivi e poi risultato già dal giorno seguente il match in piena espansione di un “cluster”, cioè di un gruppo allargato di positivi. Ed è proprio questo il passaggio che non riescono ad afferrare coloro che chiedono perché il Napoli sia stato fermato e il Genoa non lo era stato, o, peggio ancora, perché il Napoli verso Torino sì e la Salernitana, per esempio, in direzione di Verona no pur con due positivi appiedati. L’ASL di Napoli ha valutato che nella rosa del Napoli, verosimilmente contagiata dal cluster genoano (non conclamato la domenica precedente ma nei giorni successivi), potesse essere in corso l’espansione dei contagi e il potenziale cluster partenopeo avrebbe potuto contagiare la rosa juventina. Chiamasi prevenzione, che è poi la parola d’ordine del mondo d’oggi, all’altare della quale si sacrificano intere economie.
Effetto domino scongiurato dall’ASL napoletana, e ogni persona di buonsenso penserebbe che la prudenza era più che giustificata. Non i dirigenti della Juventus, che si sono inopportunamente precipitati a informare che i loro calciatori avrebbero rispettato l’appuntamento di domenica sera, mostrando di fregarsene del pericolo che avrebbero incontrato quelli del Napoli, di fregarsene della pandemia che riprende quota. Se ne sarebbero fregati di certo dopo un possibile contagio, magari con un Ronaldo positivo, e allora ne avremmo viste delle belle. Ma l’ASL di Napoli ha evitato il problema, salvaguardando indirettamente anche il capitale juventino, e invece i vertici bianconeri hanno di fatto urlato al mondo che puntavano al 3-0 a tavolino, supportati dalla Lega con la conferma della data e dell’orario del match, così commettendo, secondo alcuni Giuristi, un illecito penale per il sollecito al Napoli di contravvenire alle disposizioni dell’ASL, che equivale all’istigazione a delinquere.

Manca al dibattito l’unica certezza essenziale: la Sanità, in Italia, è di competenza regionale e le ASL, come opportunamente rileva lo stesso Ministero della Salute, hanno tutte le competenze in materia di isolamento fiduciario e di gestione dei casi e dei focolai. Il Protocollo di cui tanto si discute, adottato dalla Serie A per continuare a giocare ad oltranza e non avere grane con i dirigenti delle pay-tv (si pensi al danno televisivo per la mancata disputa di un match di cartello come Juventus-Napoli), si rifà al placet del Ministero della Sanità, il quale si limita a legiferare ma non a gestire l’emergenza sanitaria, cosa che tocca proprio alle ASL su base territoriale. Qualcuno dice che l’ha firmato anche il Napoli quel Protocollo, e infatti ha firmato un Protocollo che, in tema di gestione di positività, contempla un’alzata di mani di fronte a “provvedimenti delle Autorità statali o locali”. C’è poco da fare: se le varie ASL intervengono, le partite non si disputano. Punto! L’ASL di Napoli è intervenuta, e bisognerà capire perché. Esclusivamente per evitare che il Napoli contagiasse altri individui o anche perché il Napoli aveva infranto il Protocollo dopo la rilevata positività dei suoi calciatori?

Nel gran caos delle mille voci, il festival del giornalismo tifoso non si arresta, e solo stamane il quotidiano sportivo nazionale di Torino titola in prima pagina “Tutti contro De Laurentiis”. Tutti chi? Qualche presidente di club della Serie A in difesa dei propri interessi e del proprio club che è alla canna del gas e ha bisogno dei diritti televisivi come l’ossigeno? Magari sì, ma di certo non sono contro l’ASL di Napoli gli scienziati che di Coronavirus e prevenzione si occupano dalla prima fila. L’onnipresente infettivologo Massimo Galli, dal suo privilegiato osservatorio di Milano, ha ammonito che non è responsabile non accettare le decisioni delle autorità sanitarie, e che il Napoli, partendo per Torino, avrebbe rischiato una denuncia penale. L’oncologo Paolo Ascierto, persino juventino di fede e sannita di stanza a Napoli, ha bacchettato la Lega per l’atteggiamento irresponsabile assunto rispetto alla partita, che a suo dire avrebbe messo a rischio i giocatori della Juventus e rischiato di attivare un altro focolaio. Morale della favola: l’ASL di Napoli blocca il Napoli, i luminari della medicina plaudono alla misura ma certa stampa sportiva di parte (torinese) mette il presidente del Napoli alla gogna.

Un gradino sotto c’è l’opinione dei tifosi schierati sui siti e nelle emittenti televisive locali, come tale Marcello Chirico, tifoso juventino nelle vesti di giornalista de ilbianconero.com, che parla di “sceneggiata degna di loro”, i napoletani. Sembra di stare al bar. La sceneggiata c’è stata, sì, e l’ha fatta la Juventus, ma le è riuscita malissimo, annunciando senza alcuna necessità di farlo che si sarebbe trovata il giorno dopo allo stadio, puntuale all’ora della partita, poi pubblicando la formazione scelta dall’allenatore quando anche gli australiani, dall’altra parte del globo, sapevano che il Napoli non era partito per Torino, e infine lasciando che alcuni tifosi invitati presenziassero sugli spalti (destando la mal celata ilarità degli stessi calciatori bianconeri affacciatisi sul campo) affinché le telecamere dimostrassero che il mondo juventino è responsabile, che la Juventus è una società seria “che rispetta i regolamenti”, come ha sostenuto il presidente Andrea Agnelli suscitando le grasse risate di tutti i non juventini d’Italia davanti alla tivù, memori del doping prescritto, delle sentenze di Calciopoli, dei due scudetti in più ostentati nel salotto di casa, dei rapporti con la tifoseria mafiosa, degli esami d’italiano taroccati a Perugia, etc.
Eppure la Juve avrebbe potuto zittire per una volta tutti i suoi tanti detrattori, dichiarando che non le sarebbe piaciuto vincere a tavolino e che il competitivo Napoli intendeva batterlo sul campo più prima che poi. Sarebbe stata una perfetta dimostrazione di vero stile, e invece ancora boriosa tracotanza.
Forse il Napoli, alla fine di tutta questa storia, subirà penalizzazione in classifica, o forse no, ma una cosa è certa: se De Laurentiis, con i suoi errori di comunicazione, ha insinuato il sospetto di aver sollecitato e accolto favorevolmente il provvedimento dell’ASL, Agnelli ha sicuramente voluto spazzare via ogni dubbio sulla Juventus, che è sempre la Juventus. Esemplare per lui e per tutti gli juventini. Antipatica, sgradevole e urticante per il resto del mondo.

Il tributo di sangue del Sud nella ‘Grande Guerra’

Angelo Forgione 24 maggio, giorno di commemorazione dell’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale. La guerra, con tutto il suo carico di morti, tragedie e devastazioni, era già in corso da dieci mesi quando l’Italia abbandonò la neutralità e si schierò al fianco delle forze dell’Intesa contro gli ex alleati dell’Impero Austro-Ungarico e della Germania. Nonostante la maggioranza della popolazione fosse contraria alla guerra, a prevalere furono le posizioni di chi premeva per la partecipazione al conflitto. Tra questi, un ruolo fondamentale lo recitarono gli industriali e la massoneria del nuovo triangolo industriale Torino-Genova-Milano, che dagli eventi avrebbero ottenuto grandissimi vantaggi economici. Le fabbriche avrebbero sfornato armi e mezzi bellici, il vero business per far crescere la piattaforma del Nord-Ovest, e gli operai si sarebbero trasformati in militari impiegati in catena di montaggio. In trincea ci sarebbero andati soprattutto i meridionali, già condannati all’agricoltura e ora alla sopravvivenza in battaglia. La chiamata al fronte consegnò i campi da coltivazione del Mezzogiorno all’incuria e sottrasse alle famiglie ogni tipo di mantenimento. I territori del Sud beneficiarono – si fa per dire – del 7,4% degli stanziamenti militari; il Nord e il Centro del restante 92,6. A guerra finita fu la borghesia imprenditoriale del Nord ad avvantaggiarsi dell’allargamento dei mercati e delle risistemazioni postbelliche.
Che vi fossero italiani di Serie A e altri di Serie B lo dimostra il movimento calcistico, in crescita in quegli anni, fortemente legato proprio allo sviluppo industriale del Nord, e quindi anche a quello sociale. La sospensione del campionato, detto nazionale pro forma ma di fatto spaccato, comportò la mancata assegnazione del titolo di Campione d’Italia. Dopo quattro anni, quel titolo fu attribuito d’ufficio al Genoa (che non lo aveva richiesto), in testa al girone Nord al momento dell’interruzione, nonostante al Centro-Sud l’Internazionale Napoli, il Naples e la Lazio si stessero contendendo il titolo del’altra Italia che avrebbe consentito di disputare la finalissima per il Tricolore. Ai meridionali non restò che festeggiare per i sopravvissuti di ritorno dal fronte o piangere i loro morti.

Solita storia, lo Scudetto resta al Nord. È il n. 104!

Angelo Forgione Scudetto numero 32 per la Juventus. E la ripartizione dei diritti televisivi del Calcio (tabella a lato), primaria fonte dei bilanci dei club italiani, continua a rappresentare un grande limite alla competitività della Serie A. Finché sarà assegnata in base ai bacini d’utenza, cioè al numero dei tifosi, il club bianconero, più di Milan e Inter, otterrà la fetta più grossa e beneficerà del grande seguito dell’Italia bianconera, Sud compreso. Qualcuno, per cambiare la storia, studia la modifica del sistema, proponendo il parametro della densità popolativa delle città al posto dei bacini d’utenza (frutto di sondaggi e non di censimenti), e l’aumento della percentuale da dividere in parti uguali (oggi il 40% della torta).
Tratto dal ‘Brigantiggì’, il mio commento all’epilogo del campionato italiano di Calcio, vinto ancora una volta dalla Juventus, tra limiti strutturali e caratteriali di Napoli e Roma ed errori arbitrali.

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Dov’è la Vittoria, il libro della settimana (Canale 21)

Tratto dalla rubrica Il libro della settimana (Canale 21 Napoli), l’intervista a cura di Federica Flocco su Dov’è la Vittoria (Magenes, 2015).

‘Dov’è la Vittoria’ e ‘Made in Naples’ a Domenica Luna Live

«A noi fa piacere sapere la verità, la verità secondo Angelo Forgione». Così la conduttrice Paola Mercurio chiude la chiacchierata con l’autore di Dov’è la Vittoria e Made in Naples nel salottino domenicale dell’emittente campana Tv Luna.

‘Dov’è la Vittoria’ su Radio Sportiva

Dalla rubrica “Libri e Sport” di Radio Sportiva di venerdì 4 settembre, un concentrato di meridionalismo intellettuale in maglietta e pantaloncini, parlando di Calcio e Italia spaccata.

‘Dov’è la Vittoria’ a “Si Gonfia la Rete”

Dalla trasmissione Si Gonfia la Rete su Radio CRC del 13 luglio, due chiacchiere sul libro Dov’è la Vittoria e sul nuovo Napoli di Sarri che inizia a prendere forma.

Pistole nel calcio, la prima volta fu dei tifosi del Bologna

Gli spari a Roma prima di Fiorentina-Napoli non sono stati i primi tra tifoserie.
Storia del calcio violento e truccato di sempre.

Leandro Arpinati

Angelo Forgione – I tristi eventi romani del 3 maggio che hanno preceduto la finale di Coppa Italia hanno un lontano precedente, che risale alla stagione 1924/25, quando Bologna era un faro del fascismo e Genoa e Bologna si contesero l’accesso alla finale scudetto contro i vincitori della Lega Sud. Ecco i fatti drammatici di quel tempo.
I liguri, una potenza calcistica di inizio Novecento, rincorrono il decimo scudetto. I felsinei, un’ambiziosa realtà emergente, sono guidati dal gerarca fascista e accolito del Duce Leandro Arpinati, presidente degli emiliani e vicepresidente della Lega Calcio. Un uomo potentissimo, una delle figure principali del regime fascista, capo dello squadrismo bolognese che già nel novembre del 1920 ha guidato i militanti armati nelle vicende della strage di Palazzo d’Accursio seguita all’insediamento della nuova giunta comunale socialista massimalista. Arpinati è vicesegretario del partito e podestà di Bologna, presidente del CONI e della FIGC, nonché, in seguito, sottosegretario agli Interni, cioè di fatto ministro.
La finale d’andata della Lega Nord va in scena a Bologna il 24 maggio 1925 ed è vinta dal Genoa per 2-1. I gol dell’ex Alberti e di Catto, con Schiavio che accorcia nel finale, indirizzano la vittoria verso i liguri. Sette giorni dopo, le squadre si ritrovano di fronte per il ritorno allo stadio di Marassi, gremito e pronto ai festeggiamenti. Ma il Bologna, a sorpresa, restisce il 2-1 con le marcature di Muzzioli e di Della Valle, dopo il provvisorio pareggio di Santamaria, e porta gli avversari allo spareggio in campo neutro. Il 7 giugno, a Milano, le squadre si ritrovano di fronte e il Genoa, grazie ai goal di Catto e Alberti, va all’intervallo sul punteggio di 2-0. Al 15’ della ripresa, il portiere genoano De Prà devia in angolo un potentissimo tiro del bolognese Muzzioli; l’arbitro Giovanni Mauro indica regolarmente la bandierina e a quel punto dirigenti e sostenitori bolognesi, tra cui alcuni uomini in camicia nera, irrompono armati sul terreno di gioco per accerchiare il direttore di gara e imporgli la convalida di un goal non visto per un buco nella rete, ma di fatto inesistente. Parole grosse, minacce e percosse conducono alla concessione del goal fantasma, con l’arbitro che promette ai liguri di mettere tutto a referto per far assegnare la vittoria a tavolino. Il Genoa la prende per buona e prosegue la partita tra ulteriori risse e tensioni che portano pure al pareggio felsineo dopo un fallo sul portiere genoano. Troppo per poter proseguire la farsa anche ai supplementari, il Genoa si rifiuta di giocarli e si affida al referto arbitrale. Ma il signor Mauro non fa alcuna menzione dell’aggressione e delle pressioni ricevute e omologa il risultato di 2-2 tra lo stupore dei liguri. Arpinati ha fatto valere la sua influente figura di dirigente della Lega e, soprattutto, di rampante gerarca fascista, imponendo un secondo spareggio, fissato per il 5 luglio a Torino, dove le due contendenti chiudono ancora in parità per 1-1. La forte tensione non genera nessun problema in campo ma violentissimi scontri si verificano in serata all’esterno, nella stazione ferroviaria di Porta Nuova, dove i treni delle due tifoserie si ritrovano divisi da quattro binari e un terzo convoglio, che all’improvviso si allontana. Bolognesi e genoani ora si guardano, prendono a inveire gli uni contro gli altri. Sui binari scendono i più scalmanati, si sfidano in una prima sassaiola mentre la polizia accorre a dividerli e a dare tempestivamente l’ordine di partenza del treno dei felsinei. La rincorsa al convoglio in corsa sembra riportare la calma, ma i tifosi di estrema destra del Bologna girano armati; e qualcuno fa fuoco: tra i venti e i trenta colpi, tutti in aria tranne tre. Due colpiscono di striscio un genoano e il capostazione. A terra resta un altro ligure, Vittorio Tentorio, trapassato da una pallottola in un punto fortunatamente non vitale e immediatamente trasportato in ospedale per le lunghe e necessarie cure.
I quotidiani tentano di minimizzare la vicenda, il governo, di destra, probabilmente copre i colpevoli, ma l’indignazione è tanta perché per la prima volta si è sfiorata la tragedia per una partita di calcio. Il Consiglio Direttivo del Bologna addossa ai sostenitori del Genoa la colpa degli incidenti e fa arrabbiare i vertici fedarali, che allora multano il club di Arpinati e gli impongono di identificare i colpevoli per evitare l’esclusione dal campionato. Il braccio di ferro è violento e il gerarca, dietro le quinte, fa radunare in piazza Nettuno a Bologna una folla ribelle. Va in scena un folle comizio sportivo, il primo del genere tenuto in Italia, da cui si leva il grido di protesta contro la FIGC. In un clima del genere non si può più andare avanti e si decide la sospensione della sfida tra le due squadre. Sembra una tregua per calmare le acque in vista dell’ennesimo spareggio da giocarsi a settembre, ma un nuovo colpo di scena firmato Arpinati è pronto: in Consiglio Federale della Lega Nord impone un nuovo spareggio a porte chiuse da disputare alle 7 del mattino del 9 agosto in un campo secondario del quartiere Vigentino a Milano. Bisogna che la notizia resti segreta per evitare ulteriori scontri, ma di quell’appuntamento il Bologna viene avvisato per tempo, mentre il Genoa riceve la notifica soltanto qualche giorno prima. I suoi calciatori sono al mare, non si allenano e non sono preparati, ma vengono convocati d’urgenza per essere catapultati in campo a Milano a prima mattina. Nelle case sono ancora tutti a dormire ma attorno al terreno di gioco ci sono carabinieri a cavallo e camicie nere emiliane ad assistere alla vittoria del Bologna per 2-1. Il Genoa è finalmente piegato, la conquista del decimo tricolore fallisce. Dopo la sfida finale contro i meridionali dell’Alba Roma, lo scudetto va al Bologna, il primo dei felsinei, sul quale gravano le manovre di Arpinati, l’unico uomo veramente decisivo del club emiliano. Sarebbe diventato l’anno seguente, guarda un po’, presidente della FIGC. Pistole e proiettili non si sarebbero più visti nelle dispute calcistiche fino al 2 dicembre 1973: un tifoso della Roma avrebbe colpito il napoletano Alfredo Della Corte con uno sparo alla bocca. E poi il 3 maggio 2014: a ottantanove anni dai fatti di Torino un altro romano e romanista, Daniele De Santis, ha fatto fuoco contro un altro tifoso napoletano, Ciro Esposito. Era anch’egli legato ad ambienti di destra.

Multa alla Juventus: zingaro no, coleroso si! C’è un problema e non è Tosel.

arbitri e ispettori federali non sentono i cori razzisti indirizzati ai napoletani

Siamo al pastrocchio totale. Un’ammenda di 15mila euro è stata comminata dal giudice sportivo Tosel alla Juventus per cori offensivi nei confronti dell’allenatore della Roma Zdenek Zeman nel corso del match disputato sabato allo Juventus Stadium. Nel comunicato ufficiale si legge che la Juve è stata multata “per avere suoi sostenitori, nel corso della gara, rivolto continuativamente all’allenatore della squadra avversaria grida e cori insultanti e costituenti espressione di discriminazione etnica”.
Dunque, gli ispettori federali o uno dei sei arbitri ha ascoltato i cori volgari, non discriminatori, all’indirizzo di Zeman. Cosa che non accade mai, e dico MAI, quando i cori razzisti, non solo volgari. vengono indirizzati ai Napoletani. Come a Genova, ad esempio, quando i napoletani sono stati etichettati al solito come colerosi; o come proprio a Torino la settima scorsa quando i tifosi bianconeri, durante Juventus-Chievo, al minuto 13 e 30″ hanno intonato un coro di pulizia etnica inneggiante al Vesuvio.
“Zeman tu sei un figlio di…”“Noi vogliamo morto il boemo”, per quanto volgari, non sono cori razzisti. La multa arriva per il “Seiuno zingaro”. Insomma, gli juventini, e non solo loro, non possono urlare “zingaro” a Zeman ma “coleroso” ad un napoletano si. Poi piovono bottigliette dagli spalti del “Ferraris” sulla testa di Hamsik in diretta tv e viene in mente la confezione di yogurt che costò la squalifica del “San Paolo”.
Ribadisco che il problema non è Tosel ma gli ispettori federali e la sestina arbitrale. Sono loro che non riportano al giudice sportivo il quale si limita ad applicare sanzioni in base ai referti. Se nei referti non c’è scritto un fatto, quel fatto non può essere punito. E la conferma sta nel fatto che solo una volta c’è stata sanzione per cori razzisti contro i napoletani. La cosa stupì tutti a Napoli perchè gli azzurri non erano neanche in campo; si trattava di Inter-Genoa di Coppa Italia del Gennaio scorso. E sapete perchè Tosel ebbe la notifica a referto? Perchè l’arbitro era Russo… di Nola. Tutto chiaro, no?