––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione– Monte Echia è il luogo dove nacque Palepoli, l’antica Napoli. Lì sotto, sull’isolotto di Megaride, approdarono i Rodiesi che nel 900 a.C. fondarono il primissimo insediamento. Là sopra i coloni greci di Cuma edificarono un secolo dopo un epineion militare, attorno al quale sarebbe nata la Palaeopolis. Questo luogo più che storico e altamente panoramico attende da dodici anni una riqualificazione con due ascensori che dovrebbero collegare la parte bassa con l’affaccio che sovrasta il borgo di Santa Lucia. Lavori fermati per l’esaurimento dei fondi e cantiere recentemente sequestrato dalla magistratura per infiltrazione camorristica. E così il luogo è piombato nell’abbandono, tra sporcizia e abusivismo dei parcheggiatori.
Il monte Echia, in verità, è una zona incompiuta sin dal secondo Ottocento, quando fu fatto oggetto di una serie di programmi per mettere in sicurezza il costone tufaceo e per migliorarne l’estetica. Il primo obiettivo è stato assicurato ma il secondo resta un fallimento ancora dopo più di un secolo. Il più spettacolare dei progetti fu quello del 1928, firmato da da Giovanni Cimmino, Manfredi Franco, Gennaro Russo e Alfredo Sasso: una sistemazione ascenzionale con un’elegantissima scalea evocante l’architettura napoletana del Settecento, tra tardo barocco e neoclassicismo, di collegamento tra la sommità e lo snodo stradale Chitamone-Santa Lucia.
Il disegno faceva parte del “Piano regolatore e di risanamento di Santa Lucia a Monte Echia” d’epoca fascista, inserito poi nel più ampio Piano regolatore della Città di Napoli, nel quale fu pensata anche la sistemazione edilizia e stradale dal Monte Echia fino alla zona retrostante la chiesa di S. Francesco di Paola. Inutile dire che, per il sopraggiungere della guerra, nulla fu mai fatto, purtroppo.
La vera storia della pizza margherita, ma anche del pomodoro e delle mozzarella, alla trasmissione Domenica Luna Live (Tv Luna) condotta da Paola Mercurio.
Angelo Forgione – Pensi al Natale e vengono in mente il presepe, la tombola e le canzoni sacre. Escluso l’albero, vale per tutti, negli usi e nei costumi, la tradizione del Natale per come si è configurata nel Settecento a Napoli. Da alcuni antichi documenti in cui se ne fa menzione, a Napoli sarebbero attribuite le primissime tracce di una rappresentazione lignea della nascita di Cristo già nel 1025, in una chiesa situata in piazza San Domenico Maggiore e scomparsa ad inizio Settecento, prima detta “la Rotonda” e poi dedicata alla “Santa Maria ad praesepe”. È una testimonianza ben più antica di quella del 1223, anno cui risale quella che è considerata la prima natività di Gesù a Betlemme con figure umane rievocata nella notte santa a Greccio, nella provincia di Rieti, per volontà di San Francesco d’Assisi.
In ogni caso, la grande tradizione presepiale napoletana del Settecento è stata capace di cambiare i canoni della rappresentazione religiosa e avviare una diffusione della stessa in tutti gli Stati preunitari e oltre i confini italiani. L’ispiratore fu il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, personaggio popolarissimo e influente, che andava in giro per i vicoli del centro e del porto per incontrare i peccatori e cercare di convincerli a pentirsi a colpi di bastone. Padre Rocco adottò il presepe come strumento di propaganda religiosa e di redenzione, esortando i malfattori a riprodurre la scena della Natività nel tentativo di accendere in loro la fede. Carlo di Borbone amava molto intrattenersi con il religioso e la sua passione per l’intaglio del legno lo condusse a dedicarsi personalmente all’allestimento di un presepe a corte col coinvolgimento della moglie Maria Amalia nella cucitura dei vestiti e dei principini, utilizzando anche la creta. Fu solo l’inizio di un filone che contagiò tutta la città e l’intero Regno con le sue arti, per poi essere svilita proprio dall’avvento della tradizione pagana dell’albero, priva di qualsiasi contenuto artistico-culturale.
Senza dimenticare i dolci natalizi, Napoli ha lasciato la sua impronta culturale anche attraverso l’invenzione della tombola, frutto della creatività dei napoletani, che non vollero rinunciare al gioco del Lotto quando lo stesso padre Rocco riuscì a convincere Re Carlo a bandirlo durante le feste natalizie; i regnicoli avevano già inventato la smorfia, forma folcloristica di cabala legata all’esoterismo mediterraneo per l’interpretazione dei sogni legata etimologicamente ed esotericamente alla divinità greca dei sogni Morfeo.
Non va dimenticata neanche la canzone natalizia, creazione del teologo moralista napoletano Alfonso Maria de’ Liguori, nato a Marianella, che durante la novena del Natale 1754 compose l’inno Tu scendi dalle stelle, il più famoso tra i canti natalizi in lingua italiana, che Giuseppe Verdi consacrò come colonna sonora «senza la quale non sarebbe Natale». Per rendere comprensibile a tutti la sacralità del Natività, nel 1758 il religioso scrisse Per la nascita di Gesù, poi pubblicata nel 1816 col titolo diQuanno nascette Ninno a Bettalemme, una pastorale in napoletano derivata nella struttura musicale da quella in italiano.
Angelo Forgione – Immacolata, San Gennaro, San Domenico, Materdei e Portosalvo. Sono i cinque obelischi di Napoli. Uno di questi è uscito dall’abbandono in cui era caduto da decenni. È quello antistante la chiesa cinquecentesca di Santa Maria di Portosalvo e la Fontana della “Maruzza”, all’altezza dell’Immacolatella, alla biforcazione di Via Marina e Via De Gasperi. È un simbolo di una vicenda saliente della storia di Napoli, realizzato dopo la riconquista del Regno da parte del Cardinale Fabrizio Ruffo che, alla testa dell’esercito della Santa Fede, scacciò i giacobini e restituì ai Borbone quanto sottratto dalle truppe francesi al comando del generale Championnet. A dieci anni dalla Rivoluzione Francese, la Repubblica Napoletana ebbe vita breve e la guglia fu innalzata in ricordo dell’esito favorevole ai reali napoletani in una vicenda epocale destinata a far discutere nei secoli.
L’obelisco celebrativo fu realizzato in piperno, con terminale piramidale sormontato da una croce, e vi furono apposti sui quattro lati dei medaglioni di marmo raffigurantila Madonna di Portosalvo, Sant’Antonio, San Francesco di Paola – a cui i Borbone erano devoti – e San Gennaro, con cui ci si volle in qualche modo riconciliare. Che aveva combinato?
I militari francesi, appena entrati in città, avevano instaurarono un deciso anticlericalismo e politicizzato il venerato Santo per placare il dissenso dei partenopei, che li consideravano l’esercito dell’anticristo. Championnet, ben informato da Eleonora Fonseca Pimentel sui costumi locali e favorito da alcuni massoni della Deputazione del Santo, aveva imposto con la forza all’Arcivescovo di Napoli, Capece Zurlo, di annunciare lo scioglimento del sangue per salutare l’arrivo dei suoi e legittimarne l’occupazione.
[…] Pure san Gennaro si è fatto giacobino! Ecco il commento del popolo. Ma può il popolo napoletano non essere quello che è san Gennaro? Dunque… Viva la Repubblica!
Questo scrisse Eleonora Pimentel Fonseca sul suo Monitore Napolitano, ma il popolo di Napoli non gradì né i francesi né i giacobini napoletani, e tantomeno l’atteggiamento del Santo. Il cardinale Ruffo aveva destituito San Gennaro, sostituendolo con Sant’Antonio da Padova, la cui festività era coincisa con l’ingresso a Napoli alla guida dell’esercito dei sanfedisti, ingrossato dal popolo di Napoli urlante a gran voce “Viva ‘o Rre!”. Nonostante l’amnistia concessa dal Cardinale, iniziarono a saltare diverse teste in piazza Mercato per la sete di vendetta dell’ammiraglio inglese Nelson, fiero oppositore dei francesi, e della Regina Maria Carolina, ancora traumatizzata dalla decapitazione della sorella Maria Antonietta a Parigi e dal massacro di decine di migliaia di popolani del Regno.
I realisti, San Gennaro non ce lo volevano sul monumento, e nemmeno il popolo, che aveva cominciato a chiedere grazie a Sant’Antonio. Ma Ferdinando IV pronunciò parole di pacificazione in vista della ricorrenza del 19 settembre e fece in modo che la città non ripudiasse il suo Santo, cui era dedicato tra le altre cose il più importante Ordine morale del Regno, riservato ai capi delle grandi famiglie e ai fedeli alla dinastia. San Gennaro ebbe un suo spazio sull’obelisco, ma per riottenere il patronato della città dovette attendere la fine definitiva del giacobinismo e dei Napoleonidi, nel 1815.
Qualche anno dopo, l’obelisco divenne il simbolo di una memoria dannata, quella della monarchia napoletana cacciata da Garibaldi e dai Savoia, e ha del prodigioso il fatto che sia scampato alla furia iconoclasta dei liberali, probabilmente perché simbolo religioso. L’abbandono e la razzia dei bassorilievi condussero la guglia di Portosalvo a un sostanziale oblio e a un grave degrado. Nel 1998, il Consiglio Comunale di Napoli discusse l’opportunità di un’integrazione culturale che accogliesse una più ampia valutazione storica nel corso delle celebrazioni del bicentenario del 1799. In sostanza, la città decise la rivalutazione di ogni periodo storico, a prescindere che si trattasse di vinti o vincitori. Fu proposto che la degradata guglia borbonica e l’area circostante fossero restaurate. La discussione trovò il consenso dell’allora sindaco Bassolino e fu approvata all’unanimità. A quella decisione seguì l’avvio dei lavori di restauro nel 2004, poi interrotti senza che l’obelisco uscisse della rovina. La guglia, con gravi problemi di staticità, restò ingabbiata da una struttura metallica, circondata da rifiuti, avanzi di cibo e bottiglie rilasciati dagli extracomunitari che bivaccavano ed esercitavano l’attività di lavavetri in zona.
Nel frattempo, in epoca di celebrazioni dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia, i monumenti e le statue dedicati agli eroi del Risorgimento ritrovavano splendore e visibilità. Poi l’avvento del finanziamento privato del progetto Monumentando a dare finalmente dignità e visibilità all’obelisco borbonico.
Angelo Forgione – Ho dato il mio contributo culturale al Festival del Pomodoro di Caivano dello scorso 24 ottobre e alla Task Force Pandora della Dottoressa Paola Dama per denunciare la cattiva informazione e gli eccessivi allarmismi sulla produzione agro-alimentare in Campania. E proprio a Caivano, nei giorni scorsi, sono stati dissequestrati dalla Procura di Napoli dei pozzi e degli ettari coltivati di terreno posti sotto provvedimento giudiziario nel novembre del 2013. L’ipotesi di reato era quella di “avvelenamento delle acque dei pozzi” con conseguente “avvelenamento delle colture ivi effettuate destinate all’alimentazione umana”. Nelle acque irrigue era stata rilevata la presenza di fluoruri, manganese, arsenico, ferro e solfati. Ebbene, si trattava di concentrazioni di origine naturale, ritenute pericolose all’epoca per l’assenza di norme nazionali per i terreni e per le acque per irrigazione e per la mancata pubblicazione dei valori di fondo naturale delle stesse matrici ambientali da parte della Regione Campania.
Terreni bollati subito come avvelenati, e prodotti della Campania immediatamente ma immovitivamente boicottati. Poi intervenne la Cassazione a decretare che invece verdure e ortaggi erano sani, ma il danno era fatto. Il clamore mediatico aveva già pesantemente bombardato e messo in ginocchio un intero comparto.
Il messaggio è da ribadire ancora: l’ecosistema biologico rende le piante autodepurative, cioè capaci di assorbire ciò che gli serve e non tutto quello che si trova nel terreno. I loro frutti assimilano in modo selettivo e tendono a rifiutare inquinanti e sostanze in eccesso.
La vera responsabile dell’incidenza tumorale, più alta che altrove nelle province tra Caserta e Napoli, è l’aria che vi si respira, ed è quello il grande problema, ancora esistente, della Terra dei Fuochi.
Angelo Forgione – Sono trascorsi pochi mesi dalla conclusione del restauro della basilica e del colonnato di San Francesco di Paola, in piazza Plebiscito, nonché dei basamenti dei monumenti equesti. Ma, come da facile previsione, il nitore è durato pochi giorni, cancellato dai giovani che bazzicano la zona abitualmente nel loro ozio, gli unici per la verità. Giusto il tempo di far girare un bellissimo spot alla Ferrero per il suo dolcissimo Rocher e l’insensibilità ha subito reso amara la vista ravvicinata del bellissimo scenario.
A nulla sono servite le notoriamente inutili camionette dell’Esercito e i diversi “presidi” nello slargo, come disinteressati al repentino imbrattamento della basilica simbolo del neoclassico napoletano da parte dei ragazzi armati di pennarelli e bombolette di vernice. Non solo le tipiche dediche di fidanzatini ma anche disegni volgari e incisioni nei muri stanno già avviando lo storico colonnato alle condizioni indecorose in cui versava all’avvio del restauro.
Mentre coi simpatici “Nati con la Camicia” giravamo un’improvvisata gag ricca di amara ironia per denunciare la nuova triste condizione del sito, un gruppo di ragazzini giocavano all’interno dell’inadeguata recinzione originale del monumento di Ferdinando a cavallo e né una coppia di agenti della Polizia Municipale né i militari si preoccupavano di ricondurli all’esterno. Chi di dovere, poi, neanche provvede a coprire certi scempi, prima che sia troppo tardi. Sì, perché questo è un braccio di ferro che vincono i più deboli.
Un Festival del Pomodoro proprio a Caivano, sfidando la fobia per i prodotti coltivati nella cosiddetta Terra dei fuochi. Lo abbiamo fatto, guidati da Paola Dama, fondatrice del gruppo di studio Task Force Pandora e ricercatrice dell’Università di Chicago, per lanciare un messaggio chiaro: non è affatto vero che se si mangia campano si ingeriscono veleni. Lo abbiamo fatto per arginare i danni creati a una filiera agricola da chi non aveva alcun titolo per gridare all’inquinamento agro-alimentare in Campania e per mettere in crisi un intero comparto. Ne hanno approfittato in tanti, creando allarmismo strumentale, nonostante il RASFF, ovvero il Sistema di Allerta Rapido comunitario, non abbia mai lanciato alcun allarme in tal senso. Insomma, prodotto campano più boicottato che inquinato. Malainformazione e nulla più.
La serata all’auditorium Caivano Arte, presentata da Mary Aruta e Luca Riemma, ha goduto del sostegno di personalità politiche e diversi artisti di Made in Sud, ma i veri protagonisti sono stati i numerosi esperti e ricercatori che hanno fatto luce sulla potenziale tossicità dei prodotti campani. Il messaggio più importante è che le piante non accumulano sostanze tossiche nelle parti che mangiamo. L’ecosistema biologico le rende autodepurative, cioè capaci di assorbire ciò che gli serve e non tutto quello che si trova nel terreno. I frutti della terra assimilano in modo selettivo e tendono a rifiutare inquinanti e sostanze in eccesso. Il problema vero resta l’aria che si respira nel zone comprese tra Napoli e Caserta, ed è quella la vera responsabile dell’incidenza tumorale più alta che altrove. La chiusura, dopo tre ore di dibattito, ha proposto una mia spiegazione della diffusione del pomodoro in Europa, partendo di fatto da Napoli, la città che, con una epocale rivoluzione agricola del Settecento, cambiò le abitudini alimentari. Un secolo fa un’industria fondata da un piemontese metteva il Golfo di Napoli nelle sue immagini pubblicitarie per dire al mondo che il proprio prodotto era di eccellenza. Oggi invece le aziende conserviere del Nord rivendicano la provenienza settentrionale delle materie prime. Qualcosa è cambiato.
Il pomodoro si ergerà a simbolo del riscatto della Campania Felix. È questo l’obiettivo prefissato dal “Festival del Pomodoro” che si terrà a Caivano il prossimo 24 ottobre, alle ore 18, presso l’Auditorium Caivano Arte in via Necropoli. Promosso dalla dottoressa Paola Dama, fondatrice del gruppo di studio “Task Force Pandora”, la manifestazione sarà presentata da Salvatore Calise e Mary Aruta e annovererà tra gli organizzatori anche il dottor Pasquale Crispino, presidente dell’ordine degli agronomi. Tra i partecipanti, lo scrittore Angelo Forgione, il dottor Umberto Minopoli, presidente di Sviluppo Campania Spa, e personaggi dello spettacolo come Nando Varriale, Enzo Fischetti, Maria Bolignano, Gaetano De Martino e il cantautore Tommaso Primo.
Lo scopo è rilanciare un territorio martoriato che ha visto demonizzare i prodotti agricoli coltivati in quella terra che una volta era Felix ed oggi è stata ribattezza “Terra dei Fuochi”. Si punterà in particolare a spiegare, attraverso un percorso storico-culturale, le origini ed i molteplici volti dell’inquinamento ambientale. La scelta di puntare sul pomodoro è stata dettata dal suo rappresentare una delle eccellenze di un’area diventata in questi anni icona della Campania avvelenata. “Il Festival del Pomodoro” mira a portare, attraverso un evento culturale ed educativo, corretta informazione sul fenomeno della “Terra dei Fuochi” con lo scopo di far comprendere quanto realmente si conosce questa area puntando sulla maestosa opera di caratterizzazione delle varie matrici che hanno permesso di individuare le criticità territoriali. Nell’area del’emergenza ambientale si concentrano di fatto tanti affari della criminalità che hanno colpito anche i pomodori, una delle eccellenze campane. Eppure su un totale di 1.076 km quadrati di terreni mappati in 57 comuni, le aree ritenute sospette rappresentano soltanto il 2% per un totale di 21.5 km quadrati. Il dato è contenuto nell’indagine compiuta dal Ministero delle Politiche Agricole in seguito all’approvazione del Dl 136/2013 per fronteggiare l’emergenza ambientale in questa zona della Campania. Nasce dunque l’esigenza di restituire credibilità ai prodotti campani che, pur provenendo in larghissima parte da terreni non contaminati, hanno subito un crollo delle vendite. «Non sono mai state presentate certificazioni inerenti la nocività dei nostri prodotti – sottolinea Paola Dama, forte anche dei dati raccolti da “Task Force Pandora” – e in realtà tutte le piante, dai pomodori ai broccoli, non accumulano sostanze tossiche nelle parti che mangiamo anche se coltivate in terreni contaminati o irrigate con acque contenenti inquinanti. Il degrado ambientale in alcune zone ha creato un danno di immagine, ma questo non deve intaccare il nostro comparto agroalimentare, considerato una eccellenza in tutto il mondo. Il “Festival del Pomodoro” nasce non solo per contribuire al riscatto della Campania, bensì anche per conoscere e vivere la nostra regione attraverso informazione, educazione e best-practice. Abbiamo ancora un territorio massacrato dal degrado e dal fenomeno criminale dei roghi, bisogna trovare sinergia nell’opera dei cittadini, della politica e delle istituzioni. Il pomodoro, con la sua carica iconica storico-culturale, rappresenta senza dubbio l’eccellenza campana da cui ripartire».
Il pomodoro diventa dunque icona del riscatto di una Campania Felix e di un territorio che sogna di tornare a risplendere rigoglioso di luce propria.
Angelo Forgione– L’arrivo dei napoleonidi a Napoli, nel 1806, significò l’avvio di una ristrutturazione dello Stato, soprattutto con l’incoronazione di Gioacchino Murat, nel 1808, che diede impulso al processo di laicizzazione e di sviluppo scientifico e urbanistico della Capitale. Napoli, che il Neoclassicismo l’aveva formulato a partire da Vanvitelli e diffuso altrove coi suoi epigoni, vide l’avvio della sua stagione neoclassica più intensa, partendo dallo stile Impero, cioè un neoclassico pomposo che Napoleone rese espressione rappresentativa della Grandeur. L’area del Palazzo Reale fu oggetto di una rivisitazione, che avrebbe portato in seguito all’attuale conformazione. Uno dei problemi era l’antica facciata del teatro di San Carlo di Giovanni Antonio Medrano, del 1737, un portale appena decorato con statue e fregi, di stile spigoloso molto somigliante a quello della Reggia di Capodimonte (dello stesso architetto). Murat pretese che se ne realizzasse una nuova, più degna della Capitale, e incaricò l’architetto pisano Antonio Niccolini, già scenografo e coreografo del Massimo, di progettare tutto il riassetto della piazza San Ferdinando, ancor prima di risistemare il Largo di Palazzo. La prima soluzione mostrò un raccordo tra la reggia e il teatro, con una Guardia Reale al posto degli antichi fabbricati da abbattere e due torri laterali da innalzare sul Palazzo Reale, mentre dall’alto versante la facciata laterale doveva degradare verso verso il mare con una lunga scalinata. Di questo progetto sarebbe stata realizzato solo il nuovo volto del teatro, nel 1810, poiché, alla Restaurazione del 1815, Ferdinando di Borbone, recuperato il trono, dovette impegnarsi in cospicue spese per le truppe austriache di stanza a Napoli, e si limitò alla realizzazione del nuovo foro ferdinandeo con la basilica di San Francesco di Paola e i laterali palazzi del Principe di Salerno e della foresteria. La configurazione della piazza San Ferdinando, così come la conosciamo oggi, sarebbe stata accennata nel 1843, sotto Ferdinando II di Borbone, privilegiando il ruolo del San Carlo con una nuova facciata laterale affidata a Francesco Gavaudan e Pietro Gesuè, mentre Gaetano Genovese ampliava e regolarizzava il Palazzo Reale e i suoi giardini. Lo slargo di San Ferdinando avrebbe preso il nome di piazza Trieste e Trento nel 1919, per celebrare l’acquisizione delle due città all’Italia dopo la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale.
Nonostante la concomitanza della prima serata del Festival di Sanremo, numeri record per la puntata “carnascialesca” di “San Paolo Show” che ha anticipiato la super sfida di sabato sera tra Juventus e Napoli. Ospiti del salotto di Paola Mercurio e Gigio Rosa sono stati l’allenatore Paolo Specchia, il giornalista Toni Iavarone, il procuratore Enrico Fedele e lo scrittore Angelo Forgione, protagonisti di un piacevole e competente dibattito, tra risvolti sociali e aneddoti storici.