Il bello di essere napoletani a “Napoletani Belli”

di Francesco Gala (redazione Radio CRC)

Lunedì 25 Marzo, alla trasmissione radiofonica “Napoletani Belli”, in onda dal lunedì al venerdì dalle 19 alle 21 su Radio CRC, ospite Angelo Forgione, quotato scrittore e giornalista al fianco del padrone di casa Ettore Petraroli.

Faccio lo scrittore – ha detto il protagonista della puntata – perché voglio rimettere a posto i conti con la storia, e Napoli è portatrice sana di storie. Una storia negata su questa città? Può essere lo stesso pomodoro, perché in passato i prodotti fatti con quest’ortaggio erano denigrati, oggi invece sono il simbolo dell’Italia nel mondo”.

Spazio a due napoletane belle: Beatrice Lizza, milanese che ama la nostra città e sta per trasferirvisi, ed Elisa Baroti, albanese che da sempre vive a Napoli.

Beatrice ha esordito così: “Sono napoletana d’origine ma sono nata e cresciuta a Milano. Volevo fare l’università a Napoli, però per motivi di lavoro ho rinunciato. Ora disferò per l’ultima volta le valigie per vivere a Napoli dopo due anni e mezzo. Il mio innamoramento è diventato vero e proprio amore”.

Anche Elisa ha raccontato il suo rapporto con la città partenopea: “Sono qui grazie ai miei genitori e devo dire che è il regalo più bello che mi potessero fare. Sono follemente innamorata della città in cui vivo. Sono abbastanza fortunata perché viaggio molto anche in Europa, però posso dire che questa città è speciale. Abbiamo cose meravigliose sotto il nostro naso e non ci rendiamo conto nemmeno di tutto questo”.

Forgione ha poi chiamato in causa Pasquale Cozzolino, ormai celebre chef napoletano, cha aperto un ristorante in America dal nome Ribalta. Un giorno ha preso parte ad una selezione per la cucina di Bill De Blasio, sindaco di New York, che dopo aver assaggiato la sua parmigiana ha detto: “Questi sono i sapori della mia infanzia”. Da quel momento Pasquale ne è diventato lo chef: “De Blasio non può mangiare pasta a casa perché la maglie glielo vieta, però di nascosto, ogni tanto, viene da me e la mangia. Per lui cucino io e la mia squadra, e lo facciamo nella residenza riservata. Sono lo Chef executive ed ogni settimana stilo il menù che poi viene approvato dal sindaco. Sono diventato ricco? La vita a New York è cara, dunque anche se lo stipendio è alto per gli italiani, qui in America è normale”.

Spazio poi a Tommaso Primo, celebre cantautore partenopeo: “Se faccio uso della sesta napoletana? È un accordo che non ho usato nell’ultimo disco, bensì in Flavia e il Samurai. Si usa tipicamente nella musica rock, però io cerco anche di usare altri generi. Quando suono qualcosa in napoletano la uso, in altri contesti evito. Su quest’accordo si è fondata la musica rock, Elvis ne è stato il fautore”.

Forgione racconta che il pomodoro lungo è arrivato a Napoli grazie all’intercessione di San Gennaro. Per questo motivo ha aperto il  microfono a Francesco Andoli: “Ho una risto-bottega dal nome “Januarius”. Ci troviamo nei pressi del Duomo. È un locale dedicato completamente al Santo ed è arredato in tema, e la cucina è tipicamente tradizionale. Dove va il pomodoro lungo? Nel ragù napoletano è d’obbligo”.

Corteo per dire no alla riduzione di pena dell’assassino di Ciro Esposito

Angelo Forgione Il 17 giugno, sotto un torrido sole e in un’umidissima aria di fine primavera, si è svolto un corteo nel centro di Napoli per chiedere la riconferma di pena di 26 anni a Daniele De Santis, assassino di Ciro Esposito, condannato in primo grado di giudizio. Nel corso processo d’appello, il procuratore generale Vincenzo Saveriano ha chiesto una riduzione della pena a 20 anni, confermando l’accusa di omicidio volontario ma escludendo l’aggravante dei futili motivi, nonostante vi siano video e audio che testimoniano come De Santis abbia messo in atto un vero e proprio agguato nei confronti di un pullman pieno di tifosi napoletani.
La famiglia di Ciro Esposito e l’Associazione Ciro Vive, promuovendo il corteo, hanno voluto chiedere verità, giustizia, e conferma della pena, in vista del prossimo appuntamento del 27 giugno. La manifestazione ha preso il via da via Toledo per giungere in Piazza Plebiscito, dove Antonella Leardi ha consegnato una lettera al Prefetto di Napoli, mentre chi scrive invitava a riflettere sull’accaduto e sulle omissioni in sede processuali. Si trattò di agguato a sfondo razzista, di matrice neo-fascista, rivolto alla gente di Napoli, che avrebbe potuto avere conseguenze maggiori se Ciro Esposito non fosse intervenuto a intralciare il lancio di petardi all’indirizzo di un pullman pieno di famiglie con bambini e donne, e se l’autista non avesse avuto il sangue freddo di tenere chiuse le porte del veicolo, evitando così l’introduzione di materiale esplosivo. De Santis avrebbe meritato anche l’accusa di tentata strage, e invece ora si rischia persino la riduzione della pena per assenza dell’aggravante dei futili motivi.

Riprese del corteo: Mauro Cielo

Inquietante Gentiloni: «Per risolvere la Questione meridionale speriamo nella Germania»

Angelo Forgione Sconcertante ricetta governativa del presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni per “risolvere” la Questione meridionale. Durante l’incontro con la stampa al termine del Summit G7 di Taormina, Duilio Calarco della Rai Sicilia pone un’ineccepibile domanda:

«Visto che in soli 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino la Germania è riuscita a unificare una nazione in modo omogeneo tra Ovest ed Est, mentre l’Italia in oltre 70 anni di storia repubblicana non è riuscita a ridurre il gap tra Nord e Sud, il Governo italiano, che in tre mesi ha cambiato volto a Taormina, dimostrando che volere è potere, come intende continuare il suo impegno per la Sicilia?»

Questa la risposta del Premier:

«Sul prolungamento dell’Alta Velocità ci stiamo attrezzando con investimenti correttivi. Più di una volta ho parlato con la Merkel di questo argomento, perché non c’è dubbio che la Germania ha saputo superare le differenze interne mettendo in campo un piano straordinario di investimenti, e mi auguro che questa logica tedesca sia contagiosa e si prolunghi in Germania, perché di questo beneficerebbe l’intera economia europea.»

Tradotto in soldoni, la Sicilia e il Sud-Italia devono raccomandarsi alla Germania (sigh!), non all’Italia, che se ne lava le mani del Mezzogiorno, in cui manca non solo lo straordinario ma spesso anche l’ordinario. Altro che investimenti correttivi!
La risposta è figlia di un imbarazzo grave che ha trovato riparo in un’inquietante dichiarazione di subalternità dell’Italia, con l’acqua alla gola e schiava della Germania e dell’Europa a più velocità. Cioè, Sud-Italia schiavo del Nord-Italia e Italia schiava delle Germania. Campa cavallo…

Ai Martiri di Pietrarsa un piazza di Napoli

pietrarsa_sangiovanniAngelo Forgione Dopo San Giorgio a Cremano, anche Napoli ha intitolato una piazza ai Martiri di Pietrarsa. Nel giorno della festa del Lavoro, il sindaco Luigi De Magistris ha presenziato alla cerimonia di intitolazione di “Piazza Martiri di Pietrarsa” nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, il largo all’intersezione tra Via Taverna del Ferro e Via Domenico Atripaldi.
Il mondo occidentale celebra il primo maggio del Lavoro in ricordo dei gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago, conosciuti come “rivolta di Haymark”. Penso che 23 anni prima era successo in Italia, a Napoli, nell’ormai sufficientemente celebre opificio siderurgico di Pietrarsa. Ma quella era una storia da nascondere in una nazione debole e sbagliata, e mai sarebbe potuta farsi monito per il mondo. Oggi, a quasi 154 anni da quel tragico 6 agosto, su mozione di Andrea Balia della Commissione Toponomastica, il Comune di Napoli recepisce il racconto dei narratori della storia nascosta, aprendo indirettamente un conflitto con la figura di Nicola Amore, allora questore e responsabile dell’uso delle armi in quel triste episodio, poi sindaco della città del Risanamento, costretto alle dimissioni per il favoritismo nei confronti delle banche piemontesi implicate nello sfruttamento edilizio dei suoli. Amore ha a suo onore statue e piazze in città, e c’è da preconizzare che mai le avrà De Magistris. Ma non è momento di polemica e sterili rabbie. È sempre più momento di conoscenza e di riflessione. Il fatto è che il 6 agosto 1863 si inaugurava la desertificazione industriale del Sud, e prendeva corpo il dramma della disoccupazione. Chiamarla festa è diventata ormai quasi una beffa. Aspettando il giorno in cui i sindacati italiani si degneranno di informarsi sulla storia d’Italia e recarsi a Pietrarsa, oggi museo ferroviario, ma anche museo del lavoro, sempre più un ricordo lontano.

A Caivano il “Festival del Pomodoro” per il riscatto della Campania

Il pomodoro si ergerà a simbolo del riscatto della Campania Felix. È questo l’obiettivo prefissato dal “Festival del Pomodoro” che si terrà a Caivano il prossimo 24 ottobre, alle ore 18, presso l’Auditorium Caivano Arte in via Necropoli. Promosso dalla dottoressa Paola Dama, fondatrice del gruppo di studio “Task Force Pandora”, la manifestazione sarà presentata da Salvatore Calise e Mary Aruta e annovererà tra gli organizzatori anche il dottor Pasquale Crispino, presidente dell’ordine degli agronomi. Tra i partecipanti, lo scrittore Angelo Forgione, il dottor Umberto Minopoli, presidente di Sviluppo Campania Spa, e personaggi dello spettacolo come Nando Varriale, Enzo Fischetti, Maria Bolignano, Gaetano De Martino e il cantautore Tommaso Primo.
Lo scopo è rilanciare un territorio martoriato che ha visto demonizzare i prodotti agricoli coltivati in quella terra che una volta era Felix ed oggi è stata ribattezza “Terra dei Fuochi”. Si punterà in particolare a spiegare, attraverso un percorso storico-culturale, le origini ed i molteplici volti dell’inquinamento ambientale. La scelta di puntare sul pomodoro è stata dettata dal suo rappresentare una delle eccellenze di un’area diventata in questi anni icona della Campania avvelenata.
“Il Festival del Pomodoro” mira a portare, attraverso un evento culturale ed educativo, corretta informazione sul fenomeno della “Terra dei Fuochi” con lo scopo di far comprendere quanto realmente si conosce questa area puntando sulla maestosa opera di caratterizzazione delle varie matrici che hanno permesso di individuare le criticità territoriali. Nell’area del’emergenza ambientale si concentrano di fatto tanti affari della criminalità che hanno colpito anche i pomodori, una delle eccellenze campane. Eppure su un totale di 1.076 km quadrati di terreni mappati in 57 comuni, le aree ritenute sospette rappresentano soltanto il 2% per un totale di 21.5 km quadrati. Il dato è contenuto nell’indagine compiuta dal Ministero delle Politiche Agricole in seguito all’approvazione del Dl 136/2013 per fronteggiare l’emergenza ambientale in questa zona della Campania. Nasce dunque l’esigenza di restituire credibilità ai prodotti campani che, pur provenendo in larghissima parte da terreni non contaminati, hanno subito un crollo delle vendite.
«Non sono mai state presentate certificazioni inerenti la nocività dei nostri prodotti – sottolinea Paola Dama, forte anche dei dati raccolti da “Task Force Pandora” – e in realtà tutte le piante, dai pomodori ai broccoli, non accumulano sostanze tossiche nelle parti che mangiamo anche se coltivate in terreni contaminati o irrigate con acque contenenti inquinanti. Il degrado ambientale in alcune zone ha creato un danno di immagine, ma questo non deve intaccare il nostro comparto agroalimentare, considerato una eccellenza in tutto il mondo. Il “Festival del Pomodoro” nasce non solo per contribuire al riscatto della Campania, bensì anche per conoscere e vivere la nostra regione attraverso informazione, educazione e best-practice. Abbiamo ancora un territorio massacrato dal degrado e dal fenomeno criminale dei roghi, bisogna trovare sinergia nell’opera dei cittadini, della politica e delle istituzioni. Il pomodoro, con la sua carica iconica storico-culturale, rappresenta senza dubbio l’eccellenza campana da cui ripartire».
Il pomodoro diventa dunque icona del riscatto di una Campania Felix e di un territorio che sogna di tornare a risplendere rigoglioso di luce propria.

Il bluff renziano dei 600 posti Apple a Napoli

Angelo Forgione Presentato in pompa magna da Matteo Renzi, il ‘Centro Apple’ di Napoli sembra sempre più un torso di mela. Il “segno tangibile” dell’attenzione del Governo per il Sud si sta rivelando un boomerang propagandistico, lasciando sulla sua scia i 600 posti di lavoro sbandierati dal premier e dalla sua pletora. Nessuna filiale europea, nessun posto di lavoro, ma una iOs Developer Academy, un’accademia formativa con borse di studio per studenti e laureati vogliosi di imparare i linguaggi di programmazione delle App.
Le prove per la selezione dei corsisti si sono svolte recentemente, senza file e ressa, di quelle che si vedono nei centri commerciali all’uscita dei nuovi modelli di iPhone. Su oltre 4000 domande accettate, si sono presentati  in poco più di 1000. In moltissimi hanno evidentemente compreso l’effettivo indirizzo dell’operazione, rinunciando. Prendono corpo i sospetti della vigilia sulla soluzione orchestrata dal Governo Renzi per sistemare con un bonus l’accordo scontato siglato da Apple con il fisco italiano per una corposa evasione fiscale sulle vendite in Italia.

post facebook del 22 gennaio 2016

Un reportage de La Gabbia Open (La7) ci aiuta a comprendere meglio la vicenda.

Tommaso Primo il predestinato della musica napoletana

Angelo Forgione Tommaso Primo. Ricordatevelo questo nome. Non è solo un talento emergente nel nuovo scenario della musica napoletana d’autore. Lui è un predestinato. Lo è perché fa ottima musica ma anche perché è un ragazzo curioso e intelligente, con cui è piacevole scambiare idee e opinioni. Tommaso Primo è un napoletano fiero, esplora la sua identità e cerca di portarla in musica. Il suo primo successo è già un biglietto da visita. Ma ascoltando il brano Metafisica, tratto dal suo ultimo CD Fate, Sirene e Samurai, si afferra la sua crescente ispirazione alla cultura partenopea, nella fattispecie a Giambattista Basile e alla tradizione orale e scritta del Seicento napoletano.

Ho gradito, davvero molto, la scelta di ambientare il videoclip del brano Viola a Casertavecchia, un angolo molto caratteristico della meravigliosa Campania.

Per presentare Tommaso oltre la sua già apprezzabile ricerca musicale, consiglio di ascoltare le sue lucide riflessioni su Napoli e la musica napoletana alle audizioni di Musicultura 2015 a Macerata (a 2:03:40). E capirete perché Tommaso è solo all’inizio di una luminosa strada.

Restaurato l’antico forno di Capodimonte

forno_capodimonte_2Angelo Forgione Restaurato il forno settecentesco a legna all’interno del bosco di Capodimonte voluto da Ferdinando IV di Borbone. L’iniziativa è stata sollecitata dal direttore del museo Sylvain Bellenger affinché diventi presto un’attrattiva turistica. Non un forno qualsiasi ma un forno reale, che cuoceva pizze per la corte, e forse già la ‘margherita’. Sì, già a inizio Ottocento, ma è impossibile saperlo, anche perché la narrazione postrisorgimentale ci ha tramandato la data del 1889. La leggenda vuole che lì, in quell’anno, sia stata preparata la prima tricolore, che in realtà già esisteva almeno dal 1810. E mi tocca ripetere – repetita iuvant – che solo di leggenda si tratta, una leggenda legata alle condizioni igieniche di Napoli e alla popolarità dei Savoia al Sud.
Perché il parto della pizza tricolore sarebbe stato postdatato al 1889? Semplice. Nel 1884 Napoli fu colpita da una nuova ondata di colera, e la pizza, cibo povero venduto in strada, fu boicottata come nelle precedenti epidemie ottocentesche perché possibile veicolo di contagio, visto che l’impasto era fatto con acqua. Gli italiani del Nord la consideravano un alimento da straccioni e poveracci afflitti dalla pandemia, un alimento lurido, un pasticcio per maleducati che lo mangiavano con le mani. Nel 1886, Carlo Collodi, autore di Pinocchio, per presentare agli italiani la pizza napoletana, usò toni sprezzanti:

Vuoi sapere cos’è la pizza? È una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.

La pizza, in genere, aveva quindi bisogno di un rilancio d’immagine come la stessa Napoli, e gli stessi sovrani Savoia necessitavano di un’operazione-simpatia nei confronti dei meridionali. Non si dimentichi che, nel 1878, l’anarchico Giovanni Passannante, rabbioso per le disillusioni risorgimentali, aveva tentato di uccidere Umberto I. Il nuovo acquedotto del Serino, inaugurato nel maggio 1885, risolse i problemi idrici causati dagli antichi acquedotti tufacei della città. Acqua pulita, incontaminata, buonissima. Far addentare una pizza dalla Regina e dire agli italiani che non aveva contratto alcuna malattia era il miglior spot per tutti. Pizza pronta a partire, sia pure con molta diffidenza, alla conquista della nazione.
Testi vari e regolamenti europei confermano che la ‘margherita’ è una questione di inizio Ottocento, e lo indicano anche le date dell’esplosione dell’uso del pomodoro e della mozzarella, fulcri di un’ampia rivoluzione agricola d’epoca borbonica che rivoluzionò le tavole di Napoli nel Settecento. Il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in dono al Regno di Napoli di Ferdinando IV dal Vicereame del Perù. La produzione del latticino fu stimolata nei laboratori della Reale Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, a San Tammaro, nel 1780. Le date 1770-1780 preludono proprio alla fine del secolo, quando i due rivoluzionari ingredienti finirono evidentemente sulla pizza, circa un secolo prima di quella riferita a Raffaele Esposito e al suo omaggio alla Regina Margherita di Savoia. Raffaele Esposito non era certo un luminare da fare quello che per circa un secolo nessun pizzaiuolo aveva fatto, e neanche era necessario esserlo, data la semplicità di accoppiamento di due ingredienti che erano entrati di prepotenza nelle cucine napoletane a fine Settecento.
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Renzi là dove gli italiani spararono sui napoletani: «tornare orgogliosi di far parte dell’Italia»

Angelo Forgione Certo che è proprio strana l’Italia. Oggi la guida un fiorentino di mezz’età che prima taglia risorse al Sud e poi, con buone parole, predica il riscatto nazionale; che invita gli italiani a «tornare ad essere innamorati di un Paese che nel mondo è stato famoso per la sua storia»; che chiede di essere supportato nella partita del turismo, inteso come «elemento di cultura politica e di orgoglio nazionale». È una strategia condivisibile quella di Matteo Renzi, se di strategia si trattasse e di non sola propaganda. Lo vedremo in futuro, ma intanto è necessario che il leader del Governo nazionale si prepari meglio, ora che esercita una certa presenza sui vari territori. «Il museo, due secoli fa – ha detto Renzi a Portici (nel video al minuto 5:58) – era una delle tappe del Grand Tour. C’era una élite che studiava per mesi e che sapeva che doveva fare Venezia, Firenze e Roma, e che se non si faceva non era un pezzo della formazione […]». Cancellate Napoli, patria del  Neoclassicismo, e la Sicilia dalle tappe del viaggio sette-ottocentesco. È così che si parla di turismo alla platea napoletana di Pietrarsa.
Ascolti il premier confermare che Napoli non la conosceva, e ora la conosce perché i suoi viaggi istituzionali lo hanno condotto a scoprire le sue bellezze. Dopo la prima volta agli scavi di Pompei e alla Reggia di Caserta, è stata la volta della prima volta al Museo nazionale e parco di Capodimonte e al Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa. E proprio da lì, chiudendo gli Stati generali del Turismo, il Primo Ministro ha affermato che «Napoli e tutto il Paese devono tornare a sentire orgoglio di far parte dell’Italia». Sì, proprio da lì, luogo simbolo di una Napoli produttiva piegata e della colonizzazione meridionale, lì dove venivano costruite locomotive, rotaie, caldaie per navi e tutto quello che serviva per il primo sviluppo industriale dell’antico Regno del Sud, interrotto a tavolino dalle politiche del Regno d’Italia, che non esitò ad armare bersaglieri, carabinieri e guardia nazionale per sparare sugli operai in rivolta mentre difendevano la propria fabbrica e il proprio lavoro. Se Renzi, nel suo discorso, avesse chiesto scusa ai napoletani, per quella e per altre ferite sempre aperte, forse sarebbe apparsa meno lunga la strada per ricongiungerli al comune sentimento nazionale, ammesso che esista. Già, perché l’orgoglio partenopeo è realtà sempre crescente, e viene prima d’ogni cosa, ma l’orgoglio italiano di cui parla Renzi non esiste e mai è esistito.
«Dev’essere un pezzo dell’orgoglio della mia identità sapere che se sono nato a Firenze, a Napoli o in alti posti del nostro Paese. Questa realtà fa parte del nostro DNA», ha aggiunto Renzi. Giusto, giustissimo, perché proprio questo significa essere culturalmente unitaristi. Riconoscere la cultura dei grandi centri storici dello Stivale è il primo passo per provare a costruire l’identità nazionale mai esistita (altro che “tornare” ad esser orgogliosi; NdR), che non può essere quella proposta ancora oggi con ostinazione, un retaggio della cultura massonica post-risorgimentale, che prevedeva l’affermazione di una romanzata Storia Patria di tutti, riempita di un tronfio spirito dei miti fondanti della Nazione e delle battaglie che avevano condotto all’indipendenza. L’istruzione fu nel 1861 la prima cura della nuova Italia tutt’una, col preciso intento di annientare le culture locali e affermarne una sola, di fatto inventata, che era piemontese e non apparteneva che al Piemonte. Ancora oggi siamo tutti, da Bolzano a Pantelleria, “vigilati” da statue, busti e toponimi dei ladri della Patria. Ogni zona della Penisola ha invece la sua cultura, in modo più eterogeneo che in ogni altro paese del mondo. Bisognerebbe lasciare ad ogni territorio la rivendicazione della propria identità, riconoscendola. Soprattutto in ottica turistica, che è un’ottica settentrionalista, come conferma lo stesso Renzi con la sua riflessione sul Grand Tour di un tempo. E lo confermano persino i souvenir che in certe zone d’Italia si vendono ai viaggiatori, spesso stranieri. ombrelloApri un ombrello con l’Italia turistica vista dai toscani: Firenze, Pisa, Siena, Roma, Venezia e Milano. Il Sud sparisce completamente. Niente Napoli e Palermo, Lecce o Catania, ma due volte raffigurate Firenze e Pisa. Anche così si capisce perché il premier fiorentino Renzi, solo per compiti istituzionali, sia sceso per le sue “prime volte” nei luoghi delle meraviglie di Napoli.

Cosa c’è dietro la guerra tra i sindacati e il direttore della Reggia di Caserta

Angelo Forgione “Il direttore della Reggia lavora troppo e crea problemi”. Questo, in buona sostanza, il messaggio diffuso dai titoli che nei giorni scorsi hanno riportato la denuncia dei sindacati UIL, USB e UGL nei confronti dell’operato del bolognese Mauro Felicori, dirigente massimo della Reggia di Caserta dallo scorso ottobre, nominato ad agosto da Dario Franceschini, ministro ai Beni Culturali del Governo Renzi. Proprio Matteo Renzi ha dato il suo corposo contributo alla polemica, fattasi nazionale, lanciando i suoi strali con un post su Facebook: “L’accusa sembra ridicola, in effetti lo è. I sindacati che si lamentano di Felicori, scelto dal governo con un bando internazionale, dovrebbero rendersi conto che il vento è cambiato. E la pacchia è finita”. Il tutto condito da una radiosa foto con il direttore sotto braccio, scattata durante la sua primissima visita (nella vita) al complesso vanvitelliano.
Ma quanto c’è di vero in tutta questa faccenda che è apparsa da subito una paradossale boutade? Possibile che i sindacati abbiano potuto condannare l’abnegazione al lavoro di chi starebbe accompagnando la Reggia di Caserta al suo sacrosanto rilancio? Chi, tra coloro che hanno sparato la notizia liofilizzata, cioè ritagliando 3 righe da un carteggio che ne contiene circa 70, ha letto il comunicato per intero prima di occuparsene? Forse neanche lo stesso Renzi. O forse sì, visto che la nota era indirizzata al capo di gabinetto del ministro Franceschini. Fatto sta che la denuncia, leggendola per bene, ha ben altro significato. Certo, il bersaglio è sempre Felicori, ma la strumentalizzazione a scopi politici è evidente, condita del neanche troppo subdolo stereotipo del meridionale scansafatiche che si ribella al settentrionale stakanovista. E invece i sindacati hanno lamentato la carenza di personale e la mancanza di fondi, attribuendo a Felicori la colpa di non predisporre le condizioni necessarie di sicurezza per la Reggia al termine dell’orario di lavoro canonico. Vero o no, il senso è questo, e non quello che si è insinuato attraverso i media. Nel comunicato, si legge infatti che il Direttore disattende l’attuale legislazione che lega l’apertura degli spazi museali in funzione del numero degli addetti necessari ad una efficace tutela, proseguendo a non disporre che le sale del Museo aperte al pubblico siano regolarmente assegnate in consegna al personale della vigilanza e le sale non aperte al pubblico in consegna alla sottoguardia di turno siano chiuse a chiave”. Ancora, si apprende che l’Area della fruizione accoglienza e vigilanza si muove in piena anarchia senza avere una chiara gerarchia rispetto alla missione istituzionale (tutela e conservazione)”, e che “il Direttore permane nella struttura fino a tarda ora, senza che nessuno abbia comunicato e predisposto il servizio per tale permanenza. Tale comportamento mette a rischio l’intera struttura museale”. Il comunicato è evidentemente chiaro, e rende più aspro un malumore interno del personale di servizio nei confronti di Felicori per la sua volontà “di far transitare il personale AFAV (Assistenti alla Fruizione, Accoglienza e Vigilanza) verso gli uffici, adibendolo a mansioni amministrative”. Un malumore che forse doveva restare confinato tra le mura settecentesche di Caserta e il ministero capitolino di via del Collegio Romano, ma che qualcuno ha forse fatto divampare in un incendio per rispondere a fuoco amico, strumentalizzando l’orario di lavoro di Felicori (che a Caserta soggiorna senza la famiglia, rimasta a Bologna) per neutralizzare l’offensiva e mettere in difficoltà gli autori dell’attacco interno. Del resto, i sindacati sono in guerra con il Direttore praticamente dal suo insediamento, e quest’ultimo comunicato è datato 22 febbraio, ma è stranamente venuto fuori con una decina di giorni di ritardo, a scoppio davvero ritardato.
Cosa sta succedendo realmente alla Reggia di Caserta? Felicori lavora bene o i sindacati hanno le loro buone ragioni? Difficile capire la verità. Di certo, il Real Palazzo e i suoi giardini sono diventati non solo il simbolo renziano della lotta ai sindacati ma anche del rilancio culturale del Sud. Che sia rilancio reale, è troppo presto per capirlo, ma è altrettanto certo che sia un rilancio cavalcato per mera propaganda politica. Secondo i dati del MiBact, in una generale e improvvisa ripresa dei musei italiani, la Reggia è risultato il decimo per affluenza del 2015, con un +16% rispetto all’anno precedente (trend positivo già prima dell’insediamento del direttore bolognese), e lo stesso Felicori ha in questi giorni annunciato che i visitatori, nei primi mesi del 2016, sono aumentati del 70% rispetto ai primi dello scorso anno. Eppure i sindacati di Caserta lamentano il persistere di pessime condizioni strutturali, tra servizi igienici rotti, assenza di scivoli per disabili in biglietteria, siepi incolte nei giardini e generale incuria. E lamentano che l’aumento dei visitatori non si traduca in alcun incremento di incassi, cioè che il Direttore miri solo all’affluenza ma non al miglioramento del complesso borbonico. E lamentano soprattutto, anche se non lo dicono chiaramente, che la nomina di Felicori sia stata frutto di un processo del PD di Renzi (e Franceschini) privo di credenziali di merito e competenza.
A noi innamorati della Storia, cui sta a cuore solo il rilancio del monumento più universale che vi sia in Italia, anche attraverso un personale all’altezza e il ripristino del decoro che merita, certe guerre non ci interesserebbero se non vi fosse di mezzo la politica e la propaganda di rilancio del Sud di cui si è fatto promotore Matteo Renzi, il quale la Reggia l’ha vista per la prima volta in tutta la sua vita a 41 anni, e per impegni istituzionali, mostrando uno stupore da turista per caso che non gli ha fatto certo onore. Il racconto del manager (di Bologna), nominato dal Governo in carica, che mette in riga i lavoratori (di Caserta) mentre la Reggia riprende quota di afflussi è perfetto per un Primo Ministro in cerca di consensi. E via coi luoghi comuni. Ma sta ad ognuno capire dove sia la verità, e quanto fumo invece si alzi tra lotte intestine e guerre politiche. Nessuno però si permetta di farlo sulla pelle dei meridionali, sulle cui braccia e fatiche si è retta e si regge la storia del Nord e d’Italia. La differenza tra “il Direttore lavora troppo […]” e “il Direttore permane nella struttura fino a tarda ora […]” è sostanziale e indicativa.