Come il Sud si è salvato dal disastro lombardo

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Angelo Forgione Giulio Gallera, assessore al welfare della Regione Lombardia, in un’intervista rilasciata al quotidiano Libero, sostiene che la Lombardia ha salvato il Sud dal disastro sanitario:

«Se noi non ci fossimo opposti con rigidità al governo, il Sud non sarebbe stato chiuso. Invece abbiamo sbattuto i pugni sul tavolo chiedendo misure restrittive. Grazie a questo, le altre regioni ci hanno seguito e abbiamo ridotto il contagio».

Dichiarazione che si smonta con molta facilità, poiché il Sud, al momento, si è salvato da solo nonostante le fughe dal Nord che hanno aumentato i contagi, e ci è riuscito per tre sostanziali motivi:

1) L’inquinamento atmosferico da Pm10 inferiore a quello della Pianura Padana, che è la macroarea più inquinata d’Europa.
L’inquinamento influisce direttamente sulle difese immunitarie e sulle capacità respiratorie, messe a dura prova dal Covid-19. Come sostengono i ricercatori dell’Università di Siena e di Aarhus University, non è casuale il livello di letalità più alto al Nord, “legato al fatto che le persone che vivono in queste aree, con una esposizione prolungata all’inquinamento, hanno una predisposizione maggiore a sviluppare condizioni e patologie respiratorie croniche che con l’arrivo del virus possono portare più facilmente alla morte”;

2) Le decisioni tempestive dei governatori regionali che, come ha sottolineato Giovanni Rezza, capo del dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, «hanno istituito delle zone rosse laddove ce n’era bisogno. Isolare i piccoli territori più colpiti ha funzionato». Contrariamente ai casi Lombardi della Bergamasca e del Bresciano, zone per troppo tempo lasciate aperte nonostante i problemi esplosi ad Alzano Lombardo, Nembro e Orzinuovi;

3) Il sostanziale rispetto del distanziamento sociale.

Fuori elenco per questione di assenza di prove scientifiche circa il Covid-19, il fattore climatico, che normalmente concorre a ridurre la potenzialità dei virus (le influenze di stagione sono sempre più violente in Pianura Padana).

Ognuno può farsi un’idea di ciò che è accaduto, ma una cosa è certa: il 28 febbraio scorso, mentre la situazione nella Bergamasca si aggravava, Giulio Gallera escludeva l’istituzione di una zona rossa per quei comuni: «Non riteniamo di gestire con ipotesi di zona rossa quella zona lì di Alzano Lombardo».

Contemporaneamente, Confindustria Bergamo, per tranquillizzare “i nostri partner internazionali”, pubblicava il video “#bergamoisrunning” dove si sbandierava che l’industria lombarda non si fermava affatto.

Si spingeva per tenere aperto il distretto industriale di Alzano-Nembro, uno dei primi cinque d’Italia per Comuni sotto i 300mila abitanti. Secondo i dati di Confindustria Bergamo, un’eventuale zona rossa in quell’area avrebbe riguardato 376 aziende, con una forza lavoro che varia dai 120 agli 800 dipendenti, per circa 850milioni di euro all’anno di fatturato.

Il 9 aprile, Marco Bonometti, presidente della sezione lombarda di Confindustria, ha rivelato:

«Nelle riunioni che abbiamo avuto con cadenza quasi quotidiana tra fine febbraio e i primi giorni di marzo, anche in sede di Patto di sviluppo con artigiani, commercianti, lega delle cooperative e sindacati, la Regione è sempre stata d’accordo con noi nel non ritenere utile, ma anzi dannosa, una eventuale zona rossa sul modello Codogno per chiudere i comuni di Alzano e Nembro».

Per Bonometti, «non si poteva fermare la produzione». Ma la colpa dei troppi contagi, secondo lui, non è da imputare al tardivo lockdown bensì… agli allevamenti di animali in Lombardia.

Appare chiaro che il Sud si sia per il momento salvato sa solo, anche facendo tesoro dei disastri della Regione Lombardia, che si è condannata con le sue stesse mani e si è rivelata, in tempo di pandemia, la palla al piede dell’intera Italia, costringendo il Centro e il Sud a difendersi dal bubbone lombardo lasciato crescere per non dover rinunciare al profitto produttivo. Altro che salvezza!
Tra minacce di secessione e arraganza padana, manca solo che la Lombardia chieda riconoscenza al Sud.

Quando in piena psicosi da “terra dei fuochi” dicevamo che l’agroalimentare campano era sicuro

Angelo Forgione – Striscia la Notizia torna sul prodotto agroalimentare della Campania, quello colpito dalla psicosi da inquinamento della “Terra dei fuochi”, per chiarire che anche in zone contaminate da inquinanti e metalli pesanti non è in discussione la qualità di frutta e verdura, e lo fa con il supporto degli esperti, per i quali anche in terreni che dovessero risultare contaminati le piante crescono sane.

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Peccato, perché ricordo bene quanto fosse scorretta l’informazione fornita in piena esplosione del fenomeno criminale che causò una drammatica flessione di domanda di prodotto e la chiusura di centinaia di piccole e medie imprese per un danno, calcolato per difetto, di circa cento milioni di euro.

In quel periodo in cui nessuno voleva più mangiare frutta e verdura campana, e mentre il pentito Carmine Schiavone, ex boss dei Casalesi, diventava ospite fisso delle trasmissioni radical-chic preconizzando un’ecotombe da guerra atomica in pochi anni, sarebbe bastato dare voce agli agronomi e agli scienziati, gli stessi che si interpellano oggi. Io lo feci e, sfidando tutti, risposi all’appello della ricercatrice Paola Dama per provare a far capire che i prodotti campani erano sicuri a tavola, perché i frutti sono capaci di assorbire dalle piante ciò che serve loro per crescere e in quantità tali da non risultare nocivi. Sarebbe bastato chiarire che il vero problema per la salute, nei territori tra Caserta e Napoli, era (ed è) respirarne l’aria o berne l’acqua se attinta da falde acquifere inquinate, non certo mangiare i prodotti coltivati.

A quel tempo mettemmo in piedi il Festival del Pomodoro a Caivano e fummo i “pazzi” che andavano controcorrente, mentre tutti si alimentavano più di terrore che di prodotti della terra, nonostante il RASFF (Rapid Alert System for Food and Feed), il sistema comunitario di allerta rapido per alimenti e mangimi, non lanciasse alcun tipo di allarme sui prodotti campani esportati.

Il nostro megafono non era né potente né sufficientemente amplificato, ma almeno continuammo a mangiare serenamente campano, e ci andava storto solo quando aziende come la cremonese Pomì pubblicavano l’immagine “pubblicitaria” dello Stivale italiano con un bel pomodoro tondo, lucido e rosso, a cavallo tra Lombardia ed Emilia, zona del comparto Nord del pomodoro da industria, nel bel mezzo della Pianura Padana, e il messaggio “Solo da qui. Solo Pomì”. E pazienza se la distesa padana era già stata indicata dall’Agenzia Comunitaria per l’Ambiente quale zona con l’aria più inquinata d’Europa, altro che fazzoletto di campagne tra Caserta e Napoli.
Proprio su quel palco di Caivano decisi di scrivere presto un libro sulla storia del pomodoro, veicolo di tanta insospettabile storia di Napoli, e che Dio benedica i napoletani per aver insegnato al mondo intero di quale ricchezza alimentare si trattasse, mentre un po’ tutti lo consideravano nocivo. Corsi e ricorsi storici.

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La colonizzazione lombarda della Sardegna

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Angelo ForgioneI travestimenti di Matteo Salvini continuano. Stavolta niente divisa (abusiva) della Polizia, niente divisa della Protezione Civile. Ora, in tempo di elezioni in Sardegna, è il momento della felpa sarda dei Quattro Mori. Prima il Nord… anzi no, prima l’Italia… anzi no, prima la Sardegna dei poveri pastori che buttano il latte e il sangue, e beato chi ci crede. Che poi, ancora ringraziamo la Lega (Nord) per il consentito sforamento delle quote latte degli allevatori settentrionali, che è costata all’Italia una salatissima multa pagata con i Fondi Fas destinati al Sud.
Ennesima sceneggiata elettorale da parte di un lombardo che, in quanto lombardo, dovrebbe solo chiedere scusa ai sardi per aver devastato il territorio negli anni Sessanta col Piano per la Rinascita della Sardegna, col quale pezzi di un paradiso terrestre sardo furono consegnati all’industria altamente inquinante, quella petrolchimica, ed era lombarda. Vi misero le mani i lombardi Angelo Moratti e Angelo “Nino” Rovelli, con la collaborazione di tutti i politici democristiani che spinsero per l’industrializzazione indiscriminata dell’Isola, senza il minimo rispetto per l’ambiente e per le popolazioni contrarie al destino scritto tra Roma e Milano. E per raggiungere lo scopo portarono persino uno scudetto sull’Isola, quello del 1970 di Gigi Riva, che veniva dalla Lombardia proprio come i due lombardi che acquisirono nell’ombra il club rossoblù e i quotidiani locali (La Nuova Sardegna e L’Unione Sarda) per creare consenso. Chi erano? Moratti e Rovelli. L’uno creò la Saras a Sarroch, vicino Cagliari, e l’altro la SIR a Porto Torres.
L’industria petrolchimica continua a produrre i suoi danni in Sardegna. La Saras, la più grande raffineria petrolifera del Mediterraneo, oggi di proprietà dei fratelli Gian Marco e Massimo Moratti (ex proprietario dell’Inter), danneggia non solo l’ambiente ma anche le finanze della Regione, una delle più povere d’Europa. Il fatto è che una decina d’anni fa la raffineria della famiglia milanese, i cui proventi vanno per tre quarti in Lombardia, presentava bilanci floridi e ciò fece lievitare l’indice del prodotto interno lordo sardo senza un sensibile beneficio diretto sul posto. E così quelli dell’Unione Europea esclusero la Regione Sarda dall’Obiettivo 1, il livello massimo di fondi strutturali destinati al recupero delle regioni europee con reddito pro capite inferiore al 75% della media europea. I livelli di reddito e PIL pro capite sardi erano leggermente più alti delle regioni più povere solo per l’incidenza della Saras sulla percentuale di ricchezza prodotta nell’isola, ricchezza trasferita fiscalmente per tre quarti in Lombardia, e così la Sardegna fu privata di parte dei fondi comunitari nella programmazione 2014-2020. Insomma, ritenuta un’area “in transizione”, tecnicamente verso lo sviluppo, ma ancora oggi resta l’unica regione d’Italia in cui non ci sono autostrade, ma solo strade a scorrimento veloce. Solo nel 2020 sarà pronta la Strada Statale a scorrimento veloce Sassari-Olbia, prima autostrada che possa dirsi tale. Il Frecciarossa? Sull’Isola non sanno neanche cosa siano gli ancor più lenti Frecciabianca, i convogli che assicurano la copertura su rete convenzionale di grandissima parte della Penisola. Lì solo treni regionali su linee complementari.
La Saras è poi andata in rosso, un poker di bilanci in rosso dal 2009 al 2012, totale 151 milioni di perdite, con il bisogno di aprire ai russi di Rosneft nel gruppo petrolchimico pur di non rimanere a secco e la necessità di cedere la maggioranza dell’Inter all’indonesiano Erick Thohir, dopo aver indebitato il club pur di vincere in Italia e in Europa e levarsi da dosso la frustrazione di anni di fallimenti. Appresso alla Saras, anche il reddito pro capite dei sardi è tornato sotto il 75% della media europea, e così Bruxelles si è accorta che si tratta di un territorio nel baratro, e l’ha giustamente declassata ad area “meno sviluppata”, cioè facendola tornare nell’ex Obiettivo 1, in triste compagnia di Campania, Calabria, Basilicata, Molise, Puglia e Sicilia, tutte destinatarie di maggiori risorse per la programmazione 2021-2026. E ora è stata messa in ginocchio anche la pastorizia.
La Sardegna è territorio coloniale, succursale periferica dell’imprenditoria settentrionale. Secondo i rapporti di Greenpeace, vi si registra la maggiore estensione nazionale di siti contaminati, con maggiore incidenza nel Sulcis, nell’Iglesiente, nel Guspinese e nel Sassarese. All’inquinamento territoriale e all’eccesso di mortalità della popolazione contribuiscono anche le esercitazioni di guerra, in quello che è il più grande fronte d’addestramento bellico d’Europa. Dagli anni Sessanta, migliaia di ettari di territorio sardo (e fondali) sotto il vincolo delle servitù militari di aria e di terra vengono devastati e incendiati, con gravi conseguenze sulla salute umana. Capo Frasca, Capo Teulada, Perdasdefogu e Salto di Quirra, ad esempio, sono enormi e velenose discariche a cielo aperto di residui di bombe, proiettili, ordigni metallici inesplosi, missili conficcati nel terreno e persino lamiere, fusoliere e carcasse di aerei da guerra abbattuti o precipitati.
E sapete oggi a chi appartiene il Cagliari Calcio? Al milanese Tommaso Giulini, ex componente del C.d.A. dell’Inter di Massimo Moratti. Acquistò il pacchetto azionario da Massimo Cellino, riportando la squadra dell’Isola nelle mani dell’imprenditoria chimica lombarda. Sì, perché in Sardegna gli appartiene la Fluorsid Spa di Macchiareddu, zona industriale di Cagliari, con sede a Milano, leader nella produzione di fluoroderivati inorganici con sfruttamento di una materia prima locale, la fluorite del giacimento di Silius. Azienda creata nel 1969, in piena colonizzazione industriale della Sardegna dal padre Carlo Enrico Giulini, amico di Angelo Moratti. Nel C.d.A. del Cagliari vi troverete anche il vicepresidente Stefano Filucchi, dirigente della Saras ed ex dirigente dell’Inter. Se non è colonizzazione lombarda questa…
Manca solo la Lega (Lombarda) e il cerchio sarebbe chiuso.

(approfondimenti su Dov’è la Vittoria)

Polveri sottili, il paradosso delle città di mare

Angelo Forgione – Torino, Milano e Napoli svettano sul podio delle città europee più critiche per inquinamento atmosferico. 39 microgrammi di Pm10 per metro cubo a Torino, 37 a Milano e 35 a Napoli, anche se la città campana ha superato il limite giornaliero 43 volte, contro i 112 del piemontese e i 97 del lombardo. Seguono Siviglia, Marsiglia e Nizza, dove la concentrazione media annuale di Pm10 di 29. Roma si piazza insieme a Parigi al settimo posto, con 28 microgrammi per metro cubo. È quanto emerge da un’elaborazione fatta da Legambiente sulla base dell’ultimo report del 2016 diffuso dall’Oms, relativo a 20 grandi città di Italia, Spagna, Germania, Francia, e Regno Unito.
Per Torino e Milano non c’è troppo da stupirsi, dal momento che il satellite ha dimostrato che l’area più inquinata d’Europa è proprio la pianura padana, e in generale il Nord-est. C’è invece da capire perché dietro le due città del Settentrione d’Italia vi siano delle città di mare, dove l’aria gode dello spazzamento della brezza marina. A Napoli, un problema sono certamente le automobili vecchie, con una media di vetture euro 0 intorno al 28% contro una media nazionale del 10%. Ma a peggiorare l’aria delle città di mare è la presenza delle navi, dei tanti traghetti e giganti da crociera, in particolar modo proprio a Napoli, il cui porto è solo parzialmente elettrificato, cosa che costringe molte imbarcazioni a tenere i motori accesi anche in ormeggio. E queste sono motorizzate attraverso un carburante con alto contenuto di zolfo, elemento che nel carburante per le auto non c’è più.
(video tratto dalla trasmissione Rai “Indovina chi viene a cena”)

Terra dei Fuochi, pozzi e terreni dissequestrati a Caivano

Angelo Forgione Ho dato il mio contributo culturale al Festival del Pomodoro di Caivano dello scorso 24 ottobre e alla Task Force Pandora della Dottoressa Paola Dama per denunciare la cattiva informazione e gli eccessivi allarmismi sulla produzione agro-alimentare in Campania. E proprio a Caivano, nei giorni scorsi, sono stati dissequestrati dalla Procura di Napoli dei pozzi e degli ettari coltivati di terreno posti sotto provvedimento giudiziario nel novembre del 2013. L’ipotesi di reato era quella di “avvelenamento delle acque dei pozzi” con conseguente “avvelenamento delle colture ivi effettuate destinate all’alimentazione umana”. Nelle acque irrigue era stata rilevata la presenza di fluoruri, manganese, arsenico, ferro e solfati. Ebbene, si trattava di concentrazioni di origine naturale, ritenute pericolose all’epoca per l’assenza di norme nazionali per i terreni e per le acque per irrigazione e per la mancata pubblicazione dei valori di fondo naturale delle stesse matrici ambientali da parte della Regione Campania.
Terreni bollati subito come avvelenati, e prodotti della Campania immediatamente ma immovitivamente boicottati. Poi intervenne la Cassazione a decretare che invece verdure e ortaggi erano sani, ma il danno era fatto. Il clamore mediatico aveva già pesantemente bombardato e messo in ginocchio un intero comparto.

caivano_dissequestroIl messaggio è da ribadire ancora: l’ecosistema biologico rende le piante autodepurative, cioè capaci di assorbire ciò che gli serve e non tutto quello che si trova nel terreno. I loro frutti assimilano in modo selettivo e tendono a rifiutare inquinanti e sostanze in eccesso.
La vera responsabile dell’incidenza tumorale, più alta che altrove nelle province tra Caserta e Napoli, è l’aria che vi si respira, ed è quello il grande problema, ancora esistente, della Terra dei Fuochi.

Un festival per affermare la sicurezza della produzione agro-alimentare campana

Un Festival del Pomodoro proprio a Caivano, sfidando la fobia per i prodotti coltivati nella cosiddetta Terra dei fuochi. Lo abbiamo fatto, guidati da Paola Dama, fondatrice del gruppo di studio Task Force Pandora e ricercatrice dell’Università di Chicago, per lanciare un messaggio chiaro: non è affatto vero che se si mangia campano si ingeriscono veleni. Lo abbiamo fatto per arginare i danni creati a una filiera agricola da chi non aveva alcun titolo per gridare all’inquinamento agro-alimentare in Campania e per mettere in crisi un intero comparto. Ne hanno approfittato in tanti, creando allarmismo strumentale, nonostante il RASFF, ovvero il Sistema di Allerta Rapido comunitario, non abbia mai lanciato alcun allarme in tal senso. Insomma, prodotto campano più boicottato che inquinato. Malainformazione e nulla più.
La serata all’auditorium Caivano Arte, presentata da Mary Aruta e Luca Riemma, ha goduto del sostegno di personalità politiche e diversi artisti di Made in Sud, ma i veri protagonisti sono stati i numerosi esperti e ricercatori che hanno fatto luce sulla potenziale tossicità dei prodotti campani. Il messaggio più importante è che le piante non accumulano sostanze tossiche nelle parti che mangiamo. L’ecosistema biologico le rende autodepurative, cioè capaci di assorbire ciò che gli serve e non tutto quello che si trova nel terreno. I frutti della terra assimilano in modo selettivo e tendono a rifiutare inquinanti e sostanze in eccesso. Il problema vero resta l’aria che si respira nel zone comprese tra Napoli e Caserta, ed è quella la vera responsabile dell’incidenza tumorale più alta che altrove.
La chiusura, dopo tre ore di dibattito, ha proposto una mia spiegazione della diffusione del pomodoro in Europa, partendo di fatto da Napoli, la città che, con una epocale rivoluzione agricola del Settecento, cambiò le abitudini alimentari. Un secolo fa un’industria fondata da un piemontese metteva il Golfo di Napoli nelle sue immagini pubblicitarie per dire al mondo che il proprio prodotto era di eccellenza. Oggi invece le aziende conserviere del Nord rivendicano la provenienza settentrionale delle materie prime. Qualcosa è cambiato.

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A Caivano il “Festival del Pomodoro” per il riscatto della Campania

Il pomodoro si ergerà a simbolo del riscatto della Campania Felix. È questo l’obiettivo prefissato dal “Festival del Pomodoro” che si terrà a Caivano il prossimo 24 ottobre, alle ore 18, presso l’Auditorium Caivano Arte in via Necropoli. Promosso dalla dottoressa Paola Dama, fondatrice del gruppo di studio “Task Force Pandora”, la manifestazione sarà presentata da Salvatore Calise e Mary Aruta e annovererà tra gli organizzatori anche il dottor Pasquale Crispino, presidente dell’ordine degli agronomi. Tra i partecipanti, lo scrittore Angelo Forgione, il dottor Umberto Minopoli, presidente di Sviluppo Campania Spa, e personaggi dello spettacolo come Nando Varriale, Enzo Fischetti, Maria Bolignano, Gaetano De Martino e il cantautore Tommaso Primo.
Lo scopo è rilanciare un territorio martoriato che ha visto demonizzare i prodotti agricoli coltivati in quella terra che una volta era Felix ed oggi è stata ribattezza “Terra dei Fuochi”. Si punterà in particolare a spiegare, attraverso un percorso storico-culturale, le origini ed i molteplici volti dell’inquinamento ambientale. La scelta di puntare sul pomodoro è stata dettata dal suo rappresentare una delle eccellenze di un’area diventata in questi anni icona della Campania avvelenata.
“Il Festival del Pomodoro” mira a portare, attraverso un evento culturale ed educativo, corretta informazione sul fenomeno della “Terra dei Fuochi” con lo scopo di far comprendere quanto realmente si conosce questa area puntando sulla maestosa opera di caratterizzazione delle varie matrici che hanno permesso di individuare le criticità territoriali. Nell’area del’emergenza ambientale si concentrano di fatto tanti affari della criminalità che hanno colpito anche i pomodori, una delle eccellenze campane. Eppure su un totale di 1.076 km quadrati di terreni mappati in 57 comuni, le aree ritenute sospette rappresentano soltanto il 2% per un totale di 21.5 km quadrati. Il dato è contenuto nell’indagine compiuta dal Ministero delle Politiche Agricole in seguito all’approvazione del Dl 136/2013 per fronteggiare l’emergenza ambientale in questa zona della Campania. Nasce dunque l’esigenza di restituire credibilità ai prodotti campani che, pur provenendo in larghissima parte da terreni non contaminati, hanno subito un crollo delle vendite.
«Non sono mai state presentate certificazioni inerenti la nocività dei nostri prodotti – sottolinea Paola Dama, forte anche dei dati raccolti da “Task Force Pandora” – e in realtà tutte le piante, dai pomodori ai broccoli, non accumulano sostanze tossiche nelle parti che mangiamo anche se coltivate in terreni contaminati o irrigate con acque contenenti inquinanti. Il degrado ambientale in alcune zone ha creato un danno di immagine, ma questo non deve intaccare il nostro comparto agroalimentare, considerato una eccellenza in tutto il mondo. Il “Festival del Pomodoro” nasce non solo per contribuire al riscatto della Campania, bensì anche per conoscere e vivere la nostra regione attraverso informazione, educazione e best-practice. Abbiamo ancora un territorio massacrato dal degrado e dal fenomeno criminale dei roghi, bisogna trovare sinergia nell’opera dei cittadini, della politica e delle istituzioni. Il pomodoro, con la sua carica iconica storico-culturale, rappresenta senza dubbio l’eccellenza campana da cui ripartire».
Il pomodoro diventa dunque icona del riscatto di una Campania Felix e di un territorio che sogna di tornare a risplendere rigoglioso di luce propria.

Il boicottaggio psicotico dei prodotti campani

Angelo Forgione Ho scelto una Melannurca per la copertina di Made in Naples, “la regina delle mele”, simbolo di perfezione e di lavorazione della Campania Felix. Ma nera, perché la Melannurca è diventata “malannurca”. Eppure in ogni occasione pubblica non ho mai evitato di dire che i prodotti campani sono più boicottati che inquinati. Solo una minima percentuale del territorio ha un’alta concentrazione di inquinanti nel terreno e nelle falde acquifere, ma la concentrazione negli alimenti è decisamente inferiore anche in quei territori, dove si muore per l’acqua che si beve e per l’aria che si respira. L’ecosistema agricolo privilegia la pianta, che non assorbe tutto quello che si trova nel terreno e ha un’incredibile azione autodepurativa. I frutti della terra assorbono in modo selettivo e tendono a rifiutare inquinanti e sostanze non “terrene”. Il problema può semmai esserci per la filiera del latte, ma i controlli nel settore sono tanti.
La Corte di Cassazione ha disposto che i prodotti coltivati nei terreni sequestrati a Caivano sono sani. E intanto un intero comparto, per colpa della malainformazione, è stato messo in ginocchio. Nessuno compra più prodotti campani. Ora la Regione Campania corre ai ripari con 23 milioni di euro per ricostruire l’immagine della produzione locale, coinvolgendo il Calcio Napoli. Il picco di tumori aumenterà, ma per altre cause. È un dramma, ma combattere un problema – lo dico sempre – non significa crearne altri.

Italia inquinata. Sud avvelenato.

Situazioni drammatiche per Terra dei Fuochi, Taranto, Sardegna e Sicilia

Angelo Forgione – L’hinterland agricolo della conurbazione Napoli-Caserta, l’area industriale di Taranto e gli insediamenti industriali di Sardegna e Sicilia sono sempre più i simboli moderni delle speculazioni e degli interessi personali che hanno generato picchi tumorali in aumento e devastazione del territorio. L’aggiornamento dello studio epidemiologico “Sentieri” condotto dall’Istituto Superiore di Sanità rafforza la disperazione urlata da oncologi e specialisisti negli ultimi anni.
Nella Terra dei Fuochi, quella tra Napoli e Caserta, dove, secondo la Commissione parlamentare d’Inchiesta preposta, il picco si raggiungerà intorno al 2060, si muore di più “per l’esposizione a un insieme di inquinanti ambientali che possono essere emessi o rilasciati da siti di smaltimento illegale di rifiuti pericolosi o di combustione incontrollata di rifiuti sia pericolosi, sia solidi urbani”. L’eccesso di mortalità per l’esposizione a un insieme di inquinanti rispetto al resto della regione è del 10% per gli uomini e del 13% per le donne nei comuni in provincia di Napoli, mentre per quelli in provincia di Caserta del 4 e del 6%. Nella Terra dei Fuochi i bambini nascono malati. “Non si osservano eccessi di mortalità ma resta meritevole di attenzione il quadro che emerge dai dati di ospedalizzazione che segnalano un eccesso di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori: nella provincia di Napoli un eccesso del 51% e nella provincia di Caserta e del 68% rispetto al “rapporto standardizzato di ospedalizzazione”.
Gravissima la situazione anche a Taranto. Lo studio “conferma le criticità del profilo sanitario della popolazione di Taranto emerse in precedenti indagini. Le analisi effettuate utilizzando i tre indicatori sanitari sono coerenti nel segnalare eccessi di rischio per le patologie per le quali è verosimile presupporre un contributo eziologico delle contaminazioni ambientali che caratterizzano l’area in esame, come causa o concausa, quali: tumore del polmone, mesotelioma della pleura, malattie dell’apparato respiratorio nel loro complesso, malattie respiratorie acute, malattie respiratorie croniche”. Inoltre, “il quadro di eccessi in entrambi i generi riguarda anche molte altre patologie, rafforzando l’ipotesi di un contributo eziologico ambientale in un’area come quella di taranto ove è predominante la presenza maschile nelle attività lavorative legate al settore industriale”. A Taranto la mortalità infantile registrata per tutte le cause è maggiore del 21% rispetto alla media regionale.
E non va meglio in Sardegna, dov’è la maggiore estensione nazionale di siti contaminati. Qui la situazione peggiore è per Porto Torres e i quartieri settentrionali di Sassari (esposti a maestrale e tramontana), con un eccesso generalizzato di mortalità per tumori rispetto al resto della Sardegna. Complessivamente 447.144 ettari sardi rientrano nei due siti di interesse nazionale per le bonifiche ambientali del Sulcis-Iglesiente-Guspinese e di Sassari-Porto Torres.
In quanto a concentrazione di S.I.N., la mappa stilata nel 2013 dall’Istituto Superiore per la
Protezione e la Ricerca Ambientale (guarda la mappa) è terrificante per la zona che va dalla provincia meridionale di Napoli al basso Lazio. Particolare allarme destano i siti siciliani delle aree di Milazzo, Gela, Biancavilla e Priolo. Ma sono tutti i S.I.N. italiani a presentare un quadro estremamente preoccupante: l’incrocio di mortalità, incidenza oncologica e ricoveri fa emergere un aumento dei tumori anche del 90%. E le politiche sanitarie e ambientali restano oscurate dai fumi, insieme al cielo.

PM Donato Ceglie: «è in atto la terza guerra contro il Sud»

«dopo i fusti tossici e l’emergenza rifiuti, ora i prodotti meridionali sotto attacco»

Il sostituto procuratore generale della Repubblica Donato Ceglie, ovvero il magistrato che ha indagato sui fusti tossici del Nord intombati in Campania, ha lanciato un allarme: «è in corso un attacco mediatico ai prodotti campani». In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno ha spiegato che, dopo il traffico di fusti tossici dalle regioni del Nord a quelle del Sud e l’emergenza rifiuti, ora è il momento dell’attacco all’economia locale.
«C’è un quantitativo impressionante di video, prime pagine e articoli – racconta Ceglie – che presentano una situazione completamente inquinata. Ma lo fanno dando notizie confuse, opinabili, strumentali. La verità è che il problema non è assolutamente così grave come certi media lo vogliono far sembrare. Basterebbe la copertina dell’Espresso dal titolo Bevi Napoli e poi muori. Vogliono mettere al tappeto il Sud, colpire i suoi due asset strategici: turismo e agroalimentare. Vogliono distruggere la mozzarella e il pomodoro per guadagnare un 6 o 7% di quota di mercato. E attenti, ché l’operazione Pomì è solo la prima di una lunga serie che seguirà. I nemici del Sud stanno facendo propaganda, manipolando le coscienze e le emozioni alla ricerca di un tornaconto personale. Oggi vince chi la spara più grossa. Qui non abbiamo né la potenza di informazione né i mezzi dei nostri nemici. E non abbiamo neppure le loro banche. È per questo che, nonostante la soddisfazione per i controlli positivi sulla mozzarella, continuiamo a vivere l’emergenza dei prodotti comuni. I cittadini vogliono sapere. E l’unico modo per difendersi da quest’attacco è fornire loro informazioni. Il ministro della Salute, quello dell’Ambiente e il governatore della Campania si prendano due mesi, valutino tutto, esaminino i dati. Ma poi, per favore, ci facciano sapere. Solo così ne verremo fuori. L’alternativa è l’apocalisse».
Anche Antonio Lucisano, il direttore del Consorzio per la tutela della Mozzarella dop, forte dei risultati sulla sicurezza dei test in Germania, ha lanciato l’allarme: «A repentaglio il destino di migliaia di lavoratori di un settore, quello agricolo, fatto di eccellenze che tutto il mondo di invidia. I nostri prodotti sono sotto attacco perché gli interessi di altre realtà produttive non sono esattamente i nostri. Gli ettari di terreno interessati dal fenomeno della Terra dei Fuochi sono 840 a fronte di 500mila ettari di superficie agricola coltivata. Una percentuale molto piccola, inferiore all’1%.»