Restaurato l’antico forno di Capodimonte

forno_capodimonte_2Angelo Forgione Restaurato il forno settecentesco a legna all’interno del bosco di Capodimonte voluto da Ferdinando IV di Borbone. L’iniziativa è stata sollecitata dal direttore del museo Sylvain Bellenger affinché diventi presto un’attrattiva turistica. Non un forno qualsiasi ma un forno reale, che cuoceva pizze per la corte, e forse già la ‘margherita’. Sì, già a inizio Ottocento, ma è impossibile saperlo, anche perché la narrazione postrisorgimentale ci ha tramandato la data del 1889. La leggenda vuole che lì, in quell’anno, sia stata preparata la prima tricolore, che in realtà già esisteva almeno dal 1810. E mi tocca ripetere – repetita iuvant – che solo di leggenda si tratta, una leggenda legata alle condizioni igieniche di Napoli e alla popolarità dei Savoia al Sud.
Perché il parto della pizza tricolore sarebbe stato postdatato al 1889? Semplice. Nel 1884 Napoli fu colpita da una nuova ondata di colera, e la pizza, cibo povero venduto in strada, fu boicottata come nelle precedenti epidemie ottocentesche perché possibile veicolo di contagio, visto che l’impasto era fatto con acqua. Gli italiani del Nord la consideravano un alimento da straccioni e poveracci afflitti dalla pandemia, un alimento lurido, un pasticcio per maleducati che lo mangiavano con le mani. Nel 1886, Carlo Collodi, autore di Pinocchio, per presentare agli italiani la pizza napoletana, usò toni sprezzanti:

Vuoi sapere cos’è la pizza? È una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.

La pizza, in genere, aveva quindi bisogno di un rilancio d’immagine come la stessa Napoli, e gli stessi sovrani Savoia necessitavano di un’operazione-simpatia nei confronti dei meridionali. Non si dimentichi che, nel 1878, l’anarchico Giovanni Passannante, rabbioso per le disillusioni risorgimentali, aveva tentato di uccidere Umberto I. Il nuovo acquedotto del Serino, inaugurato nel maggio 1885, risolse i problemi idrici causati dagli antichi acquedotti tufacei della città. Acqua pulita, incontaminata, buonissima. Far addentare una pizza dalla Regina e dire agli italiani che non aveva contratto alcuna malattia era il miglior spot per tutti. Pizza pronta a partire, sia pure con molta diffidenza, alla conquista della nazione.
Testi vari e regolamenti europei confermano che la ‘margherita’ è una questione di inizio Ottocento, e lo indicano anche le date dell’esplosione dell’uso del pomodoro e della mozzarella, fulcri di un’ampia rivoluzione agricola d’epoca borbonica che rivoluzionò le tavole di Napoli nel Settecento. Il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in dono al Regno di Napoli di Ferdinando IV dal Vicereame del Perù. La produzione del latticino fu stimolata nei laboratori della Reale Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, a San Tammaro, nel 1780. Le date 1770-1780 preludono proprio alla fine del secolo, quando i due rivoluzionari ingredienti finirono evidentemente sulla pizza, circa un secolo prima di quella riferita a Raffaele Esposito e al suo omaggio alla Regina Margherita di Savoia. Raffaele Esposito non era certo un luminare da fare quello che per circa un secolo nessun pizzaiuolo aveva fatto, e neanche era necessario esserlo, data la semplicità di accoppiamento di due ingredienti che erano entrati di prepotenza nelle cucine napoletane a fine Settecento.
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Una chiacchierata Made in Naples con Raffaella Iuliano

“‪‎Napoli‬ è femmina. Mediterranea, seducente, sinuosa, formosa […]“.
Una piacevole chiacchierata Made in Naples con Raffaella Iuliano per la trasmissione ‘Spakkanapoli’ (Canale 9), sullo sfondo suggestivo della Reggia di Capodimonte nel “bel” mezzo di una tempesta di vento.

Giambattista Basile ispira Matteo Garrone

Angelo Forgione S’intitola Il racconto dei racconti il nuovo film di Matteo Garrone in uscita a maggio, adattamento cinematografico de Lo cunto de li cunti, la raccolta di 50 fiabe in lingua napoletana scritte dal giuglianese Giambattista Basile ed edite fra il 1634 e il 1636 a Napoli. Si tratta di un grande affresco in chiave fantastica del periodo barocco, prodotto dalla società di Garrone, Archimede, con Jean Labadie e Jeremy Thomas in collaborazione con Rai Cinema, e in parte finanziato dal MIBAC.
Lo cunto de li cunti, noto anche con il titolo di Pentamerone (cinque giornate), è una pietra angolare per il mondo occidentale delle fiabe. Nel 1822 fu pubblicato in Germania il terzo volume dei Kinder und Hausmärchen dei fratelli Grimm, in cui fu attribuito un posto di rilevantissima importanza al Basile, la cui opera fu riconosciuta come fondamento delle raccolte di letteratura popolare. Insomma, le fiabe nascono a Napoli. Non tutti sanno che i racconti più famosi della tradizione fiabesca arrivano ai giorni nostri dall’adattamento dei suoi racconti, capaci di favorire il lavoro di celebri favolisti come Perrault, Gozzi, Wieland e tanti altri. La sua fiaba Zezolla de La gatta cennerentola è divenuta la Cenerentola; Sole, Luna e Talia ha ispirato La bella addormentata nel bosco; Il Cuorvo è diventato Il Corvo; Le tre cetre è stata la fonte de L’amore delle tre melarance; Ninnillo e Nennella ha suggerito Fratellino e Sorellina; Cagliuso ha partorito Il gatto con gli stivali.
Il racconto dei racconti di Garrone è da accogliere quindi con molta soddisfazione e curiosità, anche perché è un progetto internazionale girato in lingua inglese che sarà proiettato anche all’estero, e darà spunto per approfondire la figura del letterato di Giugliano in Campania, colui che trovò grande risorsa nel vasto repertorio della tradizione orale napoletana e trasportò nel mondo fiabesco la realtà popolare e locale della città seicentesca. La specularità metaforica usata nel Pentamerone per raccontare la verità del mondo attraverso l’invenzione ha ispirato Garrone per un fantasy che partisse dal fantastico per arrivare alla realtà contemporanea.

(approfondimenti su G. Basile e Lo cunto de li cunti su Made in Naples)

A Napoli e Capri i due parchi più belli d’Italia 2014

Ufficiali i nomi dei vincitori della XII edizione del concorso che premia le bellezze verdi italiane. Un inizio di stagione davvero invidiabile per i due Parchi “vicini di casa” vincitori del concorso “Il Parco più Bello d’Italia”, che da oltre dieci anni è promotore di un turismo verde alla scoperta dei gioielli del patrimonio paesaggistico e botanico italiano.
Quest’anno il Comitato Scientifico ha voluto premiare due gioielli naturalistici di ineguagliabile bellezza con l’intento che possano fare da volano alla rivalutazione di tutto il comprensorio. Si tratta del Real Bosco di Capodimonte a Napoli (categoria Parchi Pubblici) e la Villa San Michele a Capri (categoria Parchi Privati). Due parchi che distano solo quaranta chilometri uno dall’altro ed impreziosiscono la città di Napoli dai due poli opposti, in un abbraccio verde di invidiabile bellezza: il Real Bosco di Capodimonte, adagiato su una collina ai margini della città, un parco storico e botanico di grandissimo interesse gestito dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo; Villa San Michele, piccolo gioiello botanico, architettonico ed artistico, eclettico e rigoglioso, affacciato sul Golfo e amministrato dalla Fondazione Axel Munthe.
Per la selezione dei vincitori il Comitato Scientifico ha valutato i seguenti parametri: l’interesse botanico e storico-artistico, lo stato di conservazione, gli aspetti connessi con la gestione e la manutenzione, l’accessibilità, la presenza di servizi, le relazioni con il pubblico e la promozione turistica.

Addio alla Real Fabbrica di Porcellane

capodimonteAngelo Forgione – La strategia di distruzione della Cultura Napoletana continua, pezzo dopo pezzo! Dopo un lento declino, è stato disposto l’accorpamento dell’Istituto “G. Caselli”, la Scuola di Ceramica di Capodimonte nel cuore del bosco che continua (fin quando?) l’antica tradizione borbonica famosa nel mondo, con l’Istituto “Isabella D’Este”. Dopo essere stata depauperata, la nobile istituzione sarà sradicata dal suo luogo naturale e d’origine, cancellandone la storia e l’unicità.
Era il 1743 quando Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia fondarono la Manifattura Reale della Porcellana nei confini della reggia di Capodimonte. La produzione di porcellane aveva avuto grande impulso in tutti i paesi europei e la regina che veniva da Dresda, la città dalla quale fu diffusa quella nuova moda con la scoperta del caolino, fece di tutto per avviarla anche a Napoli. Qui, però, il caolino non era presente e fu avviata una ricerca-sperimentazione scientifica tra gli alchimisti e le eccellenze locali per trovare un surrogato. Ne venne fuori la specificità della porcellana a pasta morbida, prodotto napoletano che acquisì subito enorme pregio perchè differente per caratteristiche a quello nord-europeo. Non si trattò di una semplice moda o di un capriccio: le porcellane erano un genere appena esploso, con una grande richiesta di mercato. Esisteva una domanda e i Borbone crearono l’offerta. Che ancora oggi conserva tutto il suo prestigio internazionale.
La Real Fabbrica fu ricavata dal riadattamento della palazzina nel bosco di Capodimonte, un tempo destinata a ricovero della Guardia Maggiore. È questa la sede storica che si sta per svuotare, il posto dove la tradizione del giglio pittato, poi N azzurra coronata, ha resistito nonostante varie vicissitudini storiche.
Tutte le componenti dell’Istituto Caselli protestano con un comunicato stampa e con un video degli studenti col quale si implora di non cancellare anche questo frammento di Napoli Capitale.
Prosegue la retromarcia culturale verso le condizioni in cui versava la Napoli vicereale all’alba di fine Seicento. Una regia sta compiendo lentamente l’opera e, di questo passo, della Napoli che ha fatto l’Europa resterà solo qualche traccia nei libri. E poi, neanche più quella.

La grande Cultura di Napoli raccontata da Nicola Spinosa

La Cultura di Napoli raccontata da Nicola Spinosa
l’ex Sovrintendente in una bellissima intervista del 2008

Nicola Spinosa, ex Sovrintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico di Napoli, uomo di profonda conoscenza dell’arte Napoletana e non solo, racconta Napoli e la sua immensa cultura unica al mondo a John Elkann.
Una consigliatissima intervista a tutto campo, una lezione di storia dell’arte mista a sociologia che arricchisce e che rende l’idea dell’importanza ineguagliabile del patrimonio artistico e culturale di Napoli, città unica al mondo, che neanche gran parte degli stessi Napoletani comprende.
Del resto, lo stesso Spinosa è stato premiato nel 2008 col “FIAC Excellency Award 2008” come uomo che ha più contribuito alla diffusione della cultura italiana negli Stati Uniti. Il premio, conferito per la diffusione della cultura italiana con le mostre oltreoceano sulle età artistiche Napoletane, rende l’idea della rilevanza del patrimonio partenopeo nel contesto nazionale.
A Nicola Spinosa i Napoletani devono molto per la sua opera di promozione della cultura Napoletana, per le tante e importanti mostre che hanno spinto l’immagine culturale di Napoli nel mondo richiamando visitatori e turisti. Un uomo di grande cultura, e soprattutto di grande amore e rispetto per la storia identitaria di Napoli che si evincono da quei piccoli particolari da cogliere con attenzione nell’intervista; Spinosa chiama infatti piazza del Plebiscito “Largo di Palazzo”.
Oltre ad avere il merito di aver riorganizzato e ampliato il Museo di Capodimonte, ha curato, tra gli altri, l’ultimo restauro dell’Arco di Alfonso d’Aragona a Castel Nuovo e ha inoltre offerto una preziosissima consulenza per il recente restauro e il rimodernamento del Real Teatro di San Carlo.