Il Vomero? Vino più che broccoli sul monte Trifolino

Angelo Forgione È la collina che sovrasta Napoli, di cui è diventata parte urbanizzata integrante solo nel Novecento, quando gli antichi villaggi della zona, fino ad allora campestre, furono inglobati nell’edificazione dei nuovi quartieri del Vomero e dell’Arenella. Oggi si tende a dare alla collina il toponimo del quartiere, che, per opinione diffusa, deriverebbe dal vomere, la lama dell’aratro con cui si lavorava il territorio agricolo che fu. Pare però che i Greci chiamassero quel colle “Bomós”, (βωμός, pronuncia: vomós), cioè “altura-altare”. Per loro era il locale Olimpo. Il dubbio sull’origine del toponimo resta, ma sembra invece non esservene alcuno sul fatto che la collina si chiami esattamente Vomero, che invece è il nome dato al quartiere, nato a fine Ottocento. Al colle fu certamente dato ben altro nome dai Romani, i primi a sfruttare quel promontorio per scopi agricoli. Quale? Facendo un’accurata ricerca documentale si apprende che lo chiamavano “mons Trifolinus”, monte Trifolino, per l’erba trifoglio che lo contraddistingueva, ed era la “humus vini patria”, la terra del vino. Un vino che prendeva il nome dal luogo stesso: il Trifolino. Fu citato da Marco Valerio Marziale tra quelli noti nei territori dell’antica Roma in un suo epigramma pubblicato in Xenia qualche anno dopo l’eruzione vesuviana del 79 d.C.
Assai più avanti, nel 1586, lo storico Scipione Mazzella, nella Descrittione del Regno di Napoli, scrisse:

Trifolino è un monte che sta nella città di Napoli, e dal volgo, e chiamato hor monte di Sant’Hermo, hor di San Martino, per essersi su la cima di detto monte una bellissima Chiesa, e monasterio di Monaci Certosini sotto nome di S. Martino […]. Produce questo bello monte nobili vini […].
E chiamato monte Trifolino, per causa del erba Trifoglio che per tutto in gran copia nel detto monte nasce.

In età medievale era chiaramente già diffuso l’uso del nome di Sant’Hermo, cioè di Sant’Erasmo, cui era dedicata una cappella in quel luogo, da cui poi Sant’Elmo, così come è detto oggi il castello in cima al colle che trae il nome dalla certosa trecentesca dedicata al vescovo Martino di Tours.

La larga prevalenza di braccianti e contadini, l’aria salubre e le attrattive naturali del monte Sant’Hermo promossero la realizzazione di luoghi di villeggiatura dell’aristocrazia napoletana, tra cui il grande umanista Giovanni Pontano, uomo di corte aragonese, proprietario di una villa con un’amplissima estensione territoriale che occupava tutta l’area tra Antignano e il Torrione di San Martino.

A metà del Cinquecento venne aperto il sentiero dell’Infrascata, quello che oggi è il tracciato della via Salvator Rosa, per consentire all’aristocrazia napoletana di raggiungere più facilmente le residenze sulla collina dalla città bassa. Tutt’intorno, tra i tanti vigneti della zona, qualcuno coltivava di certo anche i rinomatissimi broccoli di Napoli, acclamata tipicità partenopea che per fama equivaleva in Italia a quel che oggi è la pizza. Un luogo comune vuole la collina come “la terra dei broccoli”, ma evidentemente la tradizione locale più antica era (ed è) senza dubbio quella del vino.

I repubblicani giacobini del 1799 ribattezzarono la collina a modo proprio. Per loro era il “monte Giannone”, in onore del riformista che aveva aperto la strada dell’Illuminismo napoletano seminato da Giambattista Vico. Nome presto scomparso, vista la repentina riconquista del regno da parte di Ferdinando di Borbone, che si interessò al luogo più del padre Carlo e acquistò, nel 1817, i terreni utili all’edificazione del buen ritiro nel verde per sé e per la sua sposa morganatica Lucia Migliaccio, contessa di Floridia. La villa Floridiana” fu realizzata dall’architetto toscano Antonio Niccolini, gran protagonista della stagione neoclassica napoletana, autore del rifacimento totale del Real Teatro di San Carlo dopo l’incendio del febbraio 1816 e pure dell’ancora esistente villa Genzano-Majo all’Infrascata, dove Gaetano Donizetti scrisse gran parte della gloriosa Lucia di Lammermoor, assoluto capolavoro composto a cavallo tra la primavera e l’estate del 1835, in quaranta giorni di intenso lavoro tra l’alloggio cittadino di via Corsea, l’attuale via Cervantes, e il ritiro estivo messogli a disposizione dall’editore musicologo di origine francese Guglielmo Cottrau, che ne era proprietario.

Quando, nel 1860, Giuseppe Garibaldi invase Napoli per consegnarla a Vittorio Emanuele II di Savoia, fece suo un recente decreto borbonico di Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli, e decretò la costruzione “nei siti più propri allo estremo dello abitato della città e sulle colline che la circondano, di case salubri ed economiche per il popolo, e massime per gli operai”. Quartieri operai, dunque, nella intenzioni del populista dittatore delle Due Sicilie, ma solo con l’esplosione del colera del 1884 la collina fu interessata dall’espansione della città, per rispondere alle sempre maggiori esigenze abitative ma anche per speculare sull’edilizia espansiva che interessava le maggiori città del Regno d’Italia e che poi generò l’esplosione dello scandalo della Banca Romana. Sotto la spinta dell’epidemia, con la Legge per il Risanamento di Napoli, i territori tra San Martino e e il villaggio di Antignano, quelli che erano stati del Pontano, furono acquisiti dalla Banca Tiberina, una banca piemontese agevolata dalla monarchia sabauda. L’11 Maggio del 1885, il re Umberto I e la regina Margherita di Savoia presenziarono alla posa della prima pietra per la costruzione del nuovo rione Vomero, che venne formalmente inaugurato il 20 Ottobre 1889 con l’apertura della funicolare che conduceva a Chiaia. Le nuove strade furono battezzate il 19 Aprile del 1890, allorché il Comune definì i trentasette nomi di artisti vari a cui intitolarle. Un anno dopo fu la volta dell’inaugurazione della funicolare che collegava il quartiere alla zona di Montesanto.
Il tessuto viario a maglia reticolare appena nato prendeva corpo con le vie Luca Giordano, Scarlatti, Bernini e Morghen, e con la piazza Vanvitelli, nuovo luogo centrale di aggregazione attorno alla quale furono edificati quattro palazzi pressoché omologhi.
Prendeva il via intanto la costruzione del nuovo rione Arenella, che prevedeva una sua grande piazza centrale, l’attuale Medaglie d’Oro, da cui sarebbero partite a raggiera ben sette strade nuove.

La zona collinare venne così a saldarsi alla città bassa, ma in maniera disordinata, e subito si avvertì un’evidente diversità fra i due livelli cittadini. Nacque una conurbazione sicuramente moderna ed elegante, pronto a rappresentare il nuovo riferimento residenziale in città, ma con un errore concettuale: il piano attuato dalla banca piemontese era bidimensionale, non adatto all’orografia di Napoli, non considerando l’obliquità della città, protesa verso il mare. La verticalità tra i quartieri collinari e il centro fu sostanzialmente ignorata nel progetto urbanistico, e ne fece le spese la vista panoramica. Il periodico d’elite Napoli Nobilissima, nel 1893, così descrisse gli interventi appena realizzati: “Le opere sono mirabili e danno alla città un aspetto ordinato, ma quanto si è guadagnato, tanto si è perduto di notevole bellezza”. Anche il secondo tratto del corso Vittorio Emanuele, l’antica tangenziale voluta da Ferdinando II di Borbone, quello dal Suor Orsola Benincasa all’Infrascata, cioè a piazza Mazzini, fu realizzato costruendo edifici sul lato mare, diversamente dal primo tratto borbonico, dal Santuario della Madonna di Piedigrotta al complesso monastico orsolino, per il quale erano stati rispettati i vincoli di tutela panoramica.

Il nuovo quartiere continuò a prendere forma nei primi decenni del Novecento, ora con una nuova sensibilità estetica. La collina fu terreno fertile per il momento partenopeo del Liberty architettonico, tra il 1900 e il 1920, quando la nuova urbanizzazione abbellì alcune zone della città. Un gran numero di villini e palazzi di incredibile splendore, uno più appassionante dell’altro, che raccontano, a chi oggi è capace di coglierne la bellezza tra gli antiestetici palazzi d’epoca successiva, di un periodo in cui ancora l’ideale architettonico era la ricerca stilistica del bello. Tutta una testimonianza dell’ultimo momento significativo dell’architettura locale, interprete di uno stile floreale internazionale ma declinato alla napoletana, contaminato da tracce di stili moresco, Tudor e neogotico ispirate dal tardo eclettismo del virtuoso Lamont Young, coraggioso e sottovalutato autore di diversi edifici evidentemente distanti dall’impronta accademica cittadina. E poi villini dotati di giardini, chiese, scuole, impianti sportivi, cinema, studi cinematografici (qui nacque la Titanus, poi trasferita a Roma), teatri, ristoranti ed esercizi commerciali, facendo della zona una vera e propria città di sopra attigua a quella di sotto, maggiormente collegata col centro tramite una terza funicolare, inaugurata nel 1928 col nome di “Centrale” per la sua posizione intermedia tra quella di Chiaia e Montesanto.

Il collasso urbanistico prese il via nel secondo dopoguerra, quando l’attività edilizia subì un’impennata vertiginosa in nome dell’opportunistica e più facile via della costruzione selvaggia, priva di ricerca architettonica e di estetica ma unicamente interessata allo sfruttamento dei suoli edificabili. Nel giovanissimo quartere chic i casermoni borghesi spuntarono come funghi, espandendosi verso i nuovi rioni più alti, cambiando definitivamente i connotati alla collina e rendendola ambita ma comunque ben lontana dagli standard di vivibilità che il posto aveva offerto fin lì.

Ma quel lembo verde e disabitato di colle, sotto la Certosa di San Martino, ultima testimonianza della “Napoli gentile” dipinta nella celebre Tavola Strozzi, miracolosamente sopravvissuto al sacco edilizio, non sparì, ed è ancora lì, a ricordare ai meno distratti che quella è, da due millenni, la collina del vino.
Proprio osservando dalla città bassa l’attuale monte Trifolino, Sant’Hermo, San Martino o Vomero che dir si voglia si può osservare l’abbondante porzione verde di parete collinare, al riparo dall’aggressione del cemento. Si tratta dell’antica Vigna dei monaci di San Martino, immediatamente ai piedi della Certosa, nata insieme alla Certosa stessa nel Trecento, vincolata come “bene di interesse paesaggistico” nel 1967 per evitare che fosse completamente divorata dalla lottizzazione ediliza prevista del Piano Regolatore del 1939 e dichiarata Monumento nazionale italiano nel dicembre del 2010 per decreto ministeriale. Un vero e proprio territorio agricolo urbano con una vista mozzafiato sul Golfo e sul Vesuvio. È uno di quei fazzoletti cittadini che fanno insospettabilmente di Napoli la città con più terreni coltivati a vite in Europa dopo Vienna. Da questa porzione di città si ricavano ancora oggi litri di vini autoctoni, tra cui la Falanghina, l’Aglianico, il Piedirosso e il Catalanesca, un bianco molto gettonato nella Napoli aragonese, originariamente fatto con le uve catalane, portate dalla Catalogna alla metà del Quattrocento e piantate sulle vulcaniche pendici vesuviane del Monte Somma per volontà di Alfonso V d’Aragona, il sovrano che nel 1442 trasferì la capitale mediterranea dell’impero catalano-aragonese da Barcellona a Napoli.
Nulla e nessuno, grazie a Dio, hanno potuto contro la vigna dei Monaci sul monte Trifolino, dove i trifogli sono rari e i broccoli non si coltivano più ma il buon vino scorre ancora.

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Al museo di San Martino tornano i piemontesi

Al museo di San Martino tornano i piemontesi

una “inedita sfilata di soldatini”, ma stavolta non sparano

Bersaglieri, Carabinieri, Corazzieri, Artiglieri e Lancieri. Tutti corpi militari nati in Piemonte prima dell’unità d’Italia e oggi tra noi a testimoniare una piemontesizzazione dello stivale in epoca risorgimentale. Una “inedita sfilata di soldatini” ad essi dedicati sarà in mostra dal 5 Aprile nella Certosa e Museo di San Martino fino al 10 Settembre. Nel comunicato stampa si parla di Esercito italiano dal 1860-1870, ma era di fatto quello piemontese agli ordini di Vittorio Emanuele II che massacrò centinaia di migliaia di meridionali in tutto il Sud mettendo a ferro e fuoco interi paesi e boschi nella famosa guerra, tra soldati e civili, al cosiddetto “brigantaggio”. In poche parole, gli invasori senza dichiarazione di guerra di Napoli, capeggiati dal generale Enrico Cialdini che rase al suolo Gaeta continuando a bombardare nonostante la resa dei borbonici ed esercitò ferocemente il diritto di rappresaglia anche su donne, vecchi e bambini.
I napoletani avrebbero piuttosto bisogno di conoscere anche la storia degli sconfitti, magari con una mostra sull’esercito Napolitano, perchè anche così si celebrerebbe l’unità; e invece, a conclusione delle celebrazioni dei 150 anni d’unità d’Italia, tocca subire il ritorno a Napoli dei conquistatori, i vincitori, protagonisti di una delle pagine più tragiche della storia non solo italiana. Una mostra dedicata a quegli uomini che parlavano francese e che mantenevano per i capelli i cadaveri dei meridionali in difesa della loro terra prima fucilati e poi fotografati “ad perpetuam rei memoriam”.

La grande Cultura di Napoli raccontata da Nicola Spinosa

La Cultura di Napoli raccontata da Nicola Spinosa
l’ex Sovrintendente in una bellissima intervista del 2008

Nicola Spinosa, ex Sovrintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico di Napoli, uomo di profonda conoscenza dell’arte Napoletana e non solo, racconta Napoli e la sua immensa cultura unica al mondo a John Elkann.
Una consigliatissima intervista a tutto campo, una lezione di storia dell’arte mista a sociologia che arricchisce e che rende l’idea dell’importanza ineguagliabile del patrimonio artistico e culturale di Napoli, città unica al mondo, che neanche gran parte degli stessi Napoletani comprende.
Del resto, lo stesso Spinosa è stato premiato nel 2008 col “FIAC Excellency Award 2008” come uomo che ha più contribuito alla diffusione della cultura italiana negli Stati Uniti. Il premio, conferito per la diffusione della cultura italiana con le mostre oltreoceano sulle età artistiche Napoletane, rende l’idea della rilevanza del patrimonio partenopeo nel contesto nazionale.
A Nicola Spinosa i Napoletani devono molto per la sua opera di promozione della cultura Napoletana, per le tante e importanti mostre che hanno spinto l’immagine culturale di Napoli nel mondo richiamando visitatori e turisti. Un uomo di grande cultura, e soprattutto di grande amore e rispetto per la storia identitaria di Napoli che si evincono da quei piccoli particolari da cogliere con attenzione nell’intervista; Spinosa chiama infatti piazza del Plebiscito “Largo di Palazzo”.
Oltre ad avere il merito di aver riorganizzato e ampliato il Museo di Capodimonte, ha curato, tra gli altri, l’ultimo restauro dell’Arco di Alfonso d’Aragona a Castel Nuovo e ha inoltre offerto una preziosissima consulenza per il recente restauro e il rimodernamento del Real Teatro di San Carlo.

 

Quando i piemontesi tolsero il panorama al Vomero

Quando i piemontesi tolsero il panorama al Vomero
Storia urbanistica del quartiere collinare

di Angelo Forgione per napoli.com

I Greci la chiamavano Bomos, da βωμός, cioè altura. I Romani, invece, Paturcium, trasformato nel medioevo in “Patruscolo” e poi, nel Rinascimento, “Patruce”, per opera del grande umanista Giovanni Pontano, uomo di corte aragonese, proprietario di un’amplissima villa che occupava tutta l’area tra Antignano e il Torrione di San Martino, proprio sotto la cinquecentesca fortezza di Sant’Elmo. Nel Seicento si diffuse il nome “Vomero”, derivazione del greco Bomos. Chiaro che si tratti del popolarissimo quartiere napoletano, un tempo colle campestre e poi, tra il secondo Ottocento e la prima metà del secolo successivo, massicciamente urbanizzato.
Nel primo Settecento, allorché divenne capitale indipendente, Carlo di Borbone non rivolse particolari attenzioni a questa collina, preferendole quella di Capodimonte, dove fece edificare una nuova reggia. Nel 1799, i repubblicani giacobini la ribattezzarono “Monte Giannone”, ma tornò a essere il Vomero con la repentina riconquista del regno da parte di Ferdinando I, che si interessò al luogo più del padre e acquistò, nel 1817, i terreni utili all’edificazione della Villa Floridiana, per se e la sua sposa morganatica Lucia Migliaccio di Floridia. La realizzò l’architetto toscano Antonio Niccolini, gran protagonista della stagione neoclassica napoletana, autore del rifacimento totale del Real Teatro di San Carlo dopo l’incendio del febbraio 1816. In quegli anni fu realizzata la salita dell’Infrascata, attuale via Salvator Rosa, per consentire non solo al Re di spostarsi il Palazzo Reale e la Floridiana ma anche all’aristocrazia della Capitale di raggiungere le case di villeggiatura in collina. Tre queste, anche l’ancora esistente villa Genzano-Majo all’Infrascata, firmata dallo stesso architetto, dove Gaetano Donizetti scrisse gran parte della gloriosa Lucia di Lammermoor, assoluto capolavoro composto a cavallo tra la primavera e l’estate del 1835, in quaranta giorni di intenso lavoro tra l’alloggio cittadino di via Corsea, l’attuale via Cervantes, e il ritiro estivo messogli a disposizione dall’editore musicologo di origine francese Guglielmo Cottrau, che ne era proprietario.
Quando, nel 1860, Garibaldi invase Napoli, fece suo un recente decreto borbonico di Francesco II di Borbone, ultimo re di Napoli, col quale decretò la costruzione “nei siti più propri allo estremo dello abitato della città e sulle colline che la circondano, di case salubri ed economiche per il popolo, e massime per gli operai”. La congestione urbana di Napoli necessitava di soluzioni importanti, e allora si cominciò a costruire in collina per rispondere alle sempre maggiori esigenze abitative. Nel 1885, sotto la spinta dell’epidemia di colera che aveva colpito la città, fu emanata la “legge per il Risanamento di Napoli”, con la quale si pianificò l’edificazione di un nuovo quartiere collinare. I territori tra San Martino e Antignano, quelli che furono del Pontano, erano stati da poco acquisiti dalla Banca Tiberina, una banca piemontese agevolata dalla monarchia sabauda che aveva spodestato quella borbonica. L’11 Maggio del 1885, Re Umberto I e la Regina Margherita presenziarono alla posa della prima pietra per la costruzione del nuovo rione Vomero, che venne formalmente inaugurato il 20 Ottobre 1889 con l’apertura della funicolare che conduceva a Chiaia. Le nuove strade furono battezzate il 19 Aprile del 1890, allorché il Comune definì i trentasette nomi di artisti vari a cui intitolarle. Nel 1891 fu la volta dell’inaugurazione della funicolare che collegava il quartiere a Montesanto.
Il tessuto viario a maglia reticolare appena nato prendeva corpo con le vie Luca Giordano, Scarlatti, Bernini e Morghen, e con la piazza Vanvitelli, nuovo luogo centrale di aggregazione attorno alla quale sorsero i quattro palazzi pressoché omologhi in stile neorinascimentale.
Partiva intanto la costruzione del nuovo rione Arenella, che prevedeva una sua grande piazza centrale, l’attuale Medaglie d’Oro, da cui sarebbero partite a raggiera ben sette strade nuove.
La zona collinare venne così a saldarsi alla città bassa, ma in maniera disordinata, e subito si avvertì una diversità fra i due livelli cittadini ancora oggi evidente. Nacque una conurbazione sicuramente moderna ed elegante, pronto a rappresentare il nuovo riferimento residenziale in città, ma con un errore che oggi in pochi rilevano: il piano attuato dalla banca piemontese era “bidimensionale”, adatto a una città nordica, non certo a Napoli, non considerando le tre dimensioni tipiche della città obliqua, protesa verso il mare. La verticalità tra Vomero e centro fu sostanzialmente ignorata nel progetto urbanistico; un’omissione visibile, oggi come allora, nell’ostruzione della vista panoramica, in buona parte preclusa dai palazzi e sprecata da una visione imprenditoriale fatta da uomini incapaci di rispettare l’orografia del luogo. Anche il secondo tratto del corso Vittorio Emanuele, dal Suor Orsola Benincasa all’Infrascata, cioè a piazza Mazzini, fu realizzato costruendo edifici sul lato mare, diversamente dal primo tratto borbonico, dal Santuario della Madonna di Piedigrotta al complesso monastico orsolino. Il periodico d’elite Napoli Nobilissima, nel 1893, così descrisse gli interventi appena realizzati: “Le opere sono mirabili e danno alla città un aspetto ordinato, ma quanto si è guadagnato, tanto si è perduto di notevole bellezza”.
Il nuovo quartiere continuò a prendere forma nei primi decenni del Novecento con villini dotati di giardini, chiese, scuole, impianti sportivi, cinema, studi cinematografici (qui nacque la Titanus, poi trasferita a Roma), teatri, ristoranti, esercizi commerciali e anche nosocomi, facendo della zona una vera e propria città di sopra attigua a quella di sotto, maggiormente collegata col centro tramite una terza funicolare, inaugurata nel 1928 col nome di “Centrale” per la sua posizione intermedia tra quella di Chiaia e Montesanto.
Il collasso urbanistico prese il via nel secondo dopoguerra, quando l’attività edilizia subì un’impennata vertiginosa che accrebbe la densità popolativa del trecentosessanta percento circa. Si trattò di quella speculazione edilizia di proporzioni incredibili che Franco Rosi immortalò nel film Le mani sulla città. Gli interessi politici si sposarono con la crescente domanda di una casa al Vomero, possibilmente ai piani alti, là dove il mare era possibile scorgerlo, privando il quartiere anche della sua prerogativa di zona a misura d’uomo. Ai villini di pregio architettonico si sostituirono i casermoni borghesi che si espandevano dal centro del quartiere verso i nuovi rioni più alti, cambiando definitivamente i connotati alla collina e rendendola ambita ma comunque ben lontana dagli standard di vivibilità che il posto avrebbe potuto offrire.
Gli ultimi interventi al quartiere si registrarono negli anni Novanta, con l’apertura delle fermate della Metropolitana collinare che dotarono il quartiere di un ulteriore mezzo di trasporto e di nuovi arredi urbani nelle piazze a lungo interessate dai lavori.
A testimonianza di un’urbanizzazione che ha divorato la collina agreste ma anche di una storia antichissima che fa del Vomero la corona della città, nel Dicembre 2010 l’antica Vigna dei Monaci di San Martino tra la trecentesca Certosa di San Martino e il corso Vittorio Emanuele, oggi privata, divenne monumento nazionale per decreto ministeriale. Lì, in un’oasi protetta di sette ettari tra cemento e automobili, si coltivano viti autoctone, agrumi ed altre specie da frutto. È l’ultimo pezzo di Bomos, l’ultimo lembo di verde della celebre Tavola Strozzi, miracolosamente sopravvissuto al sacco edilizio.

La verde collina del Vomero dichiarata “Monumento Nazionale”

La collina del Vomero è “Monumento Nazionale”

di Angelo Forgione
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Mentre il Comune di Napoli si affanna nella lotta contro il tempo per la consegna del Piano di Gestione all’Unesco, giunge una piacevolissima notizia per la città: l’antica “Vigna dei monaci di San Martino”, ovvero la verde collina nel cuore della città che si affaccia sul golfo ai piedi della trecentesca Certosa e del Castel Sant’Elmo, è stata dichiarata Monumento Nazionale.
 Lo ha stabilito il decreto n. 851 del Ministero per i Beni Culturali, emesso a seguito della proposta della Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici di Napoli e provincia.

Da sempre emblema della città, sempre presente nelle immagini e nei disegni storici di Napoli come ad esempio la celebre “tavola Strozzi”, la “Vigna San Martino” è ancora oggi un territorio agricolo urbano di più di 7 ettari. È stato quindi dichiarato “Bene di interesse storico artistico” entrando a far parte del patrimonio culturale italiano al pari di un qualsiasi monumento di fattura umana. È l’ennesima dimostrazione della 
bellezza di Napoli in quanto non solo città d’arte ma anche e soprattutto come città dall’incomparabile bellezza geologica donata dalla natura. La collina del Vomero, una corona della città, si unisce alla bellezza del Vesuvio adagiato sul mare della splendida baia di Napoli che accoglie le isole a largo e degrada fino ai magnifici Campi Flegrei.

La storica vigna fu realizzata insieme alla Certosa nel 1325 dal duca di Calabria Carlo d’Angiò e al momento dell’Unità d’Italia, divenendo la stessa Certosa un Museo, venne a decadere la salvaguardia dello spazio agricolo, separando di fatto le due entità.

Il decreto ha una valenza eccezionale per il fatto che non riguarda la tutela di un bene in pericolo come accade di solito, seppure il verde della collina vomerese sia stato aggredito nei secoli dall’urbanizzazione selvaggia. Nel 1967, la Vigna fu vincolata come “Bene di interesse paesaggistico” per evitare che fosse completamente divorata dalla lottizzazione ediliza prevista del Piano Regolatore del 1939.
 Oggi conserva ancora sentieri, terrazzamenti e edifici agricoli costruiti dai monaci certosini nel corso di sei secoli ed è ora necessario che questo nuovo “monumento nazionale” sia reso visitabile e percorribile con maggiore facilità, inserendolo negli itinerari turistici. La palla passa dunque all’amministrazione comunale nella valorizzazione di uno spazio monumentale unico che comprende castello, certosa e vigna.