Napoli tra tradizione e innovazione

Venerdì 12 ottobre, in un’affollata Casina Pompeiana, nella Villa Comunale di Napoli, si è discusso di Tradizione ed Innovazione all’evento organizzato da MAVV – Wine Arte Museum e patrocinato dal Comune di Napoli, con la partecipazione del mondo accademico locale e quelli di iOS Apple Developer Academy.
Il mio intervento si è dipanato dalla ferrea identità partenopea, che fa profonda tradizione, per giungere al difficile presente dell’innovazione, in cui le capacità locali sono enormi ma mortificate dalle condizioni minoritarie connesse a una irrisolta Questione meridionale.
Rivolgendomi all’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, promotore della trionfante petizione per il riconoscimento UNESCO dell’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani, nonché docente presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e l’Università Tor Vergata di Roma, ho raccontato all’intera platea di un mio confronto con il sociologo Domenico De Masi, il quale affermò che «i napoletani, negli ultimi 200 anni, hanno inventato solo la pizza, una boiata per avvinazzati, mentre tutto il mondo ha inventato i microprocessori».
«E invece – ho detto ai presenti – la FIFA, da otto anni, appalta i biglietti anticontraffazione dei Mondiali di Calcio a una factory di Arzano, che fornisce ticket con microprocessori contactless e antenna per identificazione a radiofrequenza e crittografia anticlonazione inseriti nella carta da stampare. I napoletani, da sempre, sono una risorsa per il mondo. Smettiamo di mortificarli. Piuttosto, diamogli gli strumenti economici, politici e burocratici, mettiamoli in condizioni paritarie rispetto al Nord, e poi rendiamo competitiva tutta l’Italia, e allora vedremo che anche da questo territorio ci sbalordiranno non solo in quanto a tradizione ma anche per innovazione».
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Juventini “napoletani” contro “torinesi”

juve_sudAngelo ForgioneL’inchiesta Alto Piemonte, di cui si occuperà la trasmissione Report il 22 ottobre, ha reso noti i rapporti tra alcuni dirigenti della società Juventus, tra cui Andrea Andrea Agnelli, ed esponenti della ‘ndrangheta piemontese, in particolare Rocco Dominello, anche capo-ultra del gruppo “I Drughi”, per la vendita di biglietti dei match allo Juventus Stadium attraverso il bagarinaggio. Il processo penale che ne è conseguito ha prodotto la condanna di Saverio e Rocco Dominello per aver fatto da intermediari all’attività di bagarinaggio, mentre il processo sportivo ha portato a una squalifica di Andrea Agnelli per un anno, poi convertita in multa.Un’informativa della Digos ha chiarito che i rapporti tra i vari gruppi della tifoseria organizzata della Juve sono davvero aspri e conflittuali da anni, tra aggressioni, regolamenti di conti e infiltrazioni della criminalità organizzata. È un risiko che si disputa conquistando pezzi di curva, in un tutti contro tutti che ha trovato una sorta di tregua quando Rocco Dominello, utilizzando una certa diplomazia, si è accreditato come affidabile interfaccia tra i gruppi ultrà e la società. Ma ora Dominello è fuori gioco e ogni gruppo, evidentemente, cerca di guadagnare campo.
Difficile capire se in questo scenario si inserisca una faida scoppiata tra un giovane gruppo di tifosi juventini, i “True Boys”, nati di recente in Germania e già con numerosi delegazioni in Italia e a Malta, e uno storico gruppo di juventini di Torino del gruppo “Tradizione”. Motivo o, chissà, forse il pretesto della guerra intestina, i cori razzisti contro la città di Napoli.
Prima del match Juve-Napoli i “napoletani” dei “True Boys” avevano chiesto ai “torinesi” di non cantare cori razzisti contro la loro terra, in nome del comune amore bianconero. Gli ultrà sabaudi se ne sono infischiati e hanno urlato ancora una volta «Napoli colera» e roba del genere, finendo per far chiudere la curva per decisione del giudice sportivo. E così quelli dei “True Boys” hanno protestato, prendendosi una sorta di espulsione dalla Curva Sud da parte dei torinesi di “Tradizione”, autori di un comunicato sui social con il quale il gruppo è stato dichiarato “inesistente” e Salvatore Licciardi, il referente di Casalnuovo di Napoli, il più impavido nel confronto-scontro, definito un “pulcinella”. Costui ha sfidato i “torinesi” e ci ha messo la faccia con una serie di lunghi video in diretta su Facebook. Rilevanti due conversazioni telefoniche a dir poco infuocate, la prima con Umberto Toja, uno dei capi storici di “Tradizione”, qualche tempo fa aggredito a colpi di spranga presso il suo bar torinese per la ritrosia a destinare parte dei proventi del bagarinaggio a una famiglia a capo della mafia calabrese radicata a Torino, e la seconda con un anonimo sgherro dall’accento calabrese o forse siciliano.

Per quel che può contare, la pagina Facebook dei giovani “True Boys” conta 145mila iscritti, mentre i più radicati di “Tradizione” non arrivano a 14mila. Conta certamente che nella curva juventina, in cui sempre più alte sono le tensioni tra le diverse fazioni, prenda posto gente di tutt’Italia, isole comprese, e ognuno, evidentemente, pretende rispetto e, soprattutto, spazio.
Nel frattempo, l’avvocato della Juventus, Luigi Chiappero, ha presentato ricorso contro la chiusura della Curva Sud dello Stadium per i cori razzisti contro Napoli definendo il comportamento dei tifosi bianconeri “indifendibile”, sì… e però lui lo difende indirettamente perché il giudice sportivo non ha applicato la condizionale prevista dal Codice di Giustizia Sportiva. Non l’ha fatto perché il fatto è reiterato ed aggravato dalla recidiva specifica.
Altro che interpretazione creativa… Lo stesso Codice, all’articolo 12 comma 6, infatti, dice chiaramente che “nei casi più gravi, da valutare in modo particolare con riguardo alla recidiva, sono inflitte (…) anche le sanzioni previste dalle lettera e dell’art. 18, comma 1 (obbligo di disputare una o più gare con uno o più settori privi di spettatori).
Tradotto in soldoni, anche il Giudice Sportivo ha valutato, precedenti alla mano, che ormai non c’è più da sospendere la pena per i cori razzisti contro Napoli allo Stadium perché, è dimostrato, scattano in automatico.
Ma Chiappero parla di disparità di trattamento e chiede l’annullamento della sanzione, invece di costituire il club parte civile contro chi lede la sua immagine. La strategia difensiva è la stessa adoperata durante lo scandalo doping e quello di Calciopoli. Così fan tutti, dissero in casa Juve. Più o meno tutti usavano farmaci, non accadeva mica solo nello spogliatoio bianconero. Più o meno tutti contattavano gli arbitri, mica solo i dirigenti juventini. Più o meno tutti cantano cori contro Napoli, mica solo i tifosi della Juve. Il che è in parte vero, come è vero che allo Stadium accade più spesso, troppo spesso, e non solo quando è di scena il Napoli.

La tradizionale contestazione dell’estate napoletana

Angelo Forgione – Era il 16 luglio 2007, giorno della presentazione di Hamsik e Lavezzi a Castelvoturno. Il Napoli si riaffacciava alla Serie A dopo anni di stenti, fallimento e purgatorio della C. Quel giorno montava inaspettata la contestazione e spuntava uno striscione: “Basta illusioni, fuori i milioni”.
Dietro ai due calciatori, seduti al tavolo della conferenza, il presidente De Laurentiis, in videoconferenza, avvertiva: “Noi seguiamo la nostra politica, miriamo a un club solido nel tempo. Accettiamo le critiche ma continuiamo per la strada tracciata, e non obblighiamo nessuno a seguirci”.
Quanto abbiano reso Hamsik, Lavezzi e altri calciatori presentati tra delusioni e mugugni è facilmente valutabile. Cosa abbia fatto il Napoli, club del Sud, in questi undici anni, è storia scritta, e ognuno può considerare a proprio metro di giudizio se sia molto o poco. Anni di rincorsa alla stratosferica Juventus, la vera responsabile del complesso di Toto Cutugno del tifoso azzurro che vuole vincere, assai lontana finanziariamente ma vicina sul campo. Anni senza tricolore ma di consolidamento senza precedenti, mentre club assai più blasonati del ricco Nord affannavano, e ancora lo fanno. Anni durante i quali la contestazione si è ripetuta, ed eccola puntuale, sempre più aspra, complice la stessa proprietà, la quale di certo non ha voluto conciliare coi contestatori e non ha mai messo in cima ai suoi intendimenti quello di farsi amare per identificazione con la città.
Tutti liberi di motivare a modo proprio questa frattura insanabile tra la società e una parte della tifoseria che viene da lontano, e dal principio, nella certezza che gli striscioni d’estate contro De Laurentiis sono ormai una tradizione napoletana di Ferragosto, giorno più giorno meno.

La Gatta Cenerentola, remake napoletano della napoletana Zezolla

Angelo Forgione Reduce dal grande successo ottenuto alla 74esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove ha conquistato ben quattro premi, torna a Napoli per festeggiare il suo debutto nelle sale del 14 settembre La Gatta Cenerentola, remake d’animazione “made in Naples” con l’omonimo titolo della fiaba tramandata per via orale e fissata su carta nel 1632 da Giambattista Basile nel Pentamerone, più noto come Lo Cunto de li Cunti, cinquanta fiabe scritte in lingua vernacolare in cui il letterato campano mise la grande risorsa del vasto repertorio della tradizione orale napoletana, trasportando nel mondo fiabesco la realtà popolare e locale della città seicentesca del vicereame. L’opera ebbe gran fortuna presso le corti italiane e, complici alcune traduzioni e rifacimenti nelle diverse lingue straniere, si diffuse nel Settecento oltre confine, fino a raggiungere le corti europee, divenendo la fonte d’ispirazione per il genere letterario della letteratura di fantasia continentale. I fratelli Grimm, Perrault, la Walt Disney e, per ultima, la factory napoletana Mad Entertainment ripropongono, a quattro secoli di distanza e a modo loro, una delle cinquanta fiabe di Basile, che nella sua versione originale presenta una Cenerentola assassina tra pastiere e casatielli.
La Cenerentola rivisitata da Mad riprende l’originale del 1632 di Basile, che uccide la prima inaffettuosa matrigna per aiutare la sua maestra di cucito a conquistare sua padre, ma si ritrova con una seconda matrigna ancora più odiosa della precedente e con sei sorellastre dispettose e maligne. La Gatta Cenerentola di Mad commette proprio un omicidio, ed è sì orfana ma di uno scienziato, Basile appunto, il quale sognava la rinascita del porto e di Napoli attraverso il progresso, ed è cresciuta con la matrigna e le sue sei figlie all’interno della Megaride, un’enorme nave da crociera che è metafora della città stessa, prima resa dallo scienziato faro del progresso scientifico e poi, dopo la sua scomparsa, divenuta bordello e covo di spaccio, ferma per anni. La scarpetta, ovvero lo chianiello, muta nel simbolo di una perdita che tutti affrontano con il passaggio all’età adulta.

Maggiori approfondimenti sull’opera di Basile su Made in Naples (Magenes, 2013)

Presepe, tombola e canzoni. Il Natale è Made in Naples!

Angelo Forgione Pensi al Natale e vengono in mente il presepe, la tombola e le canzoni sacre. Escluso l’albero, vale per tutti, negli usi e nei costumi, la tradizione del Natale per come si è configurata nel Settecento a Napoli.
Da alcuni antichi documenti in cui se ne fa menzione, a Napoli sarebbero attribuite le primissime tracce di una rappresentazione lignea della nascita di Cristo già nel 1025, in una chiesa situata in piazza San Domenico Maggiore e scomparsa ad inizio Settecento, prima detta “la Rotonda” e poi dedicata alla “Santa Maria ad praesepe”. È una testimonianza ben più antica di quella del 1223, anno cui risale quella che è considerata la prima natività di Gesù a Betlemme con figure umane rievocata nella notte santa a Greccio, nella provincia di Rieti, per volontà di San Francesco d’Assisi.
In ogni caso, la grande tradizione presepiale napoletana del Settecento è stata capace di cambiare i canoni della rappresentazione religiosa e avviare una diffusione della stessa in tutti gli Stati preunitari e oltre i confini italiani. L’ispiratore fu il frate domenicano Gregorio Maria Rocco, personaggio popolarissimo e influente, che andava in giro per i vicoli del centro e del porto per incontrare i peccatori e cercare di convincerli a pentirsi a colpi di bastone. Padre Rocco adottò il presepe come strumento di propaganda religiosa e di redenzione, esortando i malfattori a riprodurre la scena della Natività nel tentativo di accendere in loro la fede. Carlo di Borbone amava molto intrattenersi con il religioso e la sua passione per l’intaglio del legno lo condusse a dedicarsi personalmente all’allestimento di un presepe a corte col coinvolgimento della moglie Maria Amalia nella cucitura dei vestiti e dei principini, utilizzando anche la creta. Fu solo l’inizio di un filone che contagiò tutta la città e l’intero Regno con le sue arti, per poi essere svilita proprio dall’avvento della tradizione pagana dell’albero, priva di qualsiasi contenuto artistico-culturale.
Senza dimenticare i dolci natalizi, Napoli ha lasciato la sua impronta culturale anche attraverso l’invenzione della tombola, frutto della creatività dei napoletani, che non vollero rinunciare al gioco del Lotto quando lo stesso padre Rocco riuscì a convincere Re Carlo a bandirlo durante le feste natalizie; i regnicoli avevano già inventato la smorfiaforma folcloristica di cabala legata all’esoterismo mediterraneo per l’interpretazione dei sogni legata etimologicamente ed esotericamente alla divinità greca dei sogni Morfeo.
Non va dimenticata neanche la canzone nataliziacreazione del teologo moralista napoletano Alfonso Maria de’ Liguori, nato a Marianella, che durante la novena del Natale 1754 compose l’inno Tu scendi dalle stelle, il più famoso tra i canti natalizi in lingua italiana, che Giuseppe Verdi consacrò come colonna sonora «senza la quale non sarebbe Natale». Per rendere comprensibile a tutti la sacralità del Natività, nel 1758 il religioso scrisse Per la nascita di Gesù, poi pubblicata nel 1816 col titolo di Quanno nascette Ninno a Bettalemme, una pastorale in napoletano derivata nella struttura musicale da quella in italiano.

Zuppa di cozze, tradizione del giovedì Santo napoletano

Angelo Forgione Giovedì Santo, giorno di zuppa di cozze a Napoli. Tratta da Made in Naples (Magenes, 2013), breve descrizione della genesi di questa peculiare tradizione che precede la Santa Pasqua.

(la rivoluzione alimentare – pagina 78)

Anche il pescato, da sempre risorsa per la popolazione napoletana, conobbe nuovi modi di preparazione che diedero pure luogo a nuove tradizioni. Una su tutte, quella della zuppa di cozze, inquadrata nel periodo di Pasqua. Ferdinando IV, goloso di pescato e frutti di mare, galvanizzato dal pomodoro (ricevuto in dono dal Vicereame del Perù, in quegli anni territorio borbonico dominato dalla Spagna di Carlo III), indicò ai cuochi di corte la pomposissima ricetta delle cozzeche dint’â connola (cozze nella culla), ma il notissimo frate domenicano Gregorio Maria Rocco gli consigliò di morigerarsi nella settimana Santa. Per non rinunciare alle amate cozze, prima di recarsi in via Toledo per lo struscio del giovedì Santo, diede indicazione di prepararle in maniera più sobria, inzuppandole con una salsa piccante di pomodoro. ‘A zuppa ‘e cozzeche uscì dalle cucine reali e si diffuse in città, divenendo la tradizione del giovedì Santo napoletano e ricetta notissima, insieme all’ancor più semplice ‘mpepata.

Amedeo Minghi e il “linguaggio” napoletano

Amedeo Minghi, coi suoi cinquant’anni di carriera, è uno dei cantautori più longevi sul panorama nazionale. Da artista colto, nella sua lunga attività ha avuto modo di omaggiare anche la canzone napoletana, madre di quella italiana. Rosa (1988) e Viceré (1994) sono due brani cantanti in lingua partenopea, tra i più famosi della produzione artistica dell’artista romano. Il videoclip li mette insieme, proponendo una registrazione amatoriale del dicembre 2009 al teatro Ghione di Roma (di Svetlana Mastica), dove lo stesso Minghi introdusse il suo canto partenopeo illustrando piccole nozioni di quello che fu, e tuttora è, il “linguaggio” universale di Napoli.
“Credo che ogni artista debba sentirsi in obbligo di ringraziare gli inarrivabili musicisti napoletani, Beatles compresi”, scrive l’artista sul suo profilo facebook.

È napoletano il cinturino in pelle dell’Apple-Watch

Apple è pronta a lanciare gli Apple-Watch, sul mercato dal 2015. Tanti modelli con diversi materiali per i cinturini: acciaio, maglia metallica saldata al laser (in Italia), gomma, pelle nera olandese, pelle “Granada” francese e pelle “Venezia” napoletana. Si, perché il cinturino “Loop” è realizzato con una pelle “prodotta artigianalmente a Napoli da una conceria che vanta cinque generazioni di esperienza e una lunga storia di collaborazioni con alcune delle più note case di moda”. Il modello, sulle pagine ufficiali (clicca qui), è presentato così: “la tradizione artigianale incontra il design più innovativo”.

Il caffè sospeso che tira su l’Europa

Certo che è proprio strana questa Napoli che non riesce a rendersi conto come nella sua storia vi sia anche tutto il saper vivere dell’umanità. La mania del caffè sospeso ormai dilaga ovunque e travolge anche il noto marchio Starbucks, proprio quello che ha come logo una sirena bifida e che sembra proprio Parthenope. Per chi non la conosce, è una catena internazionale di caffetterie del relax, che in Italia non si azzarda a mettere piede “perché il caffé italiano è insuperabile”, dicono. Figurarsi a Napoli.
Dunque, cosa si sono “inventati” negli Starbucks d’Europa? Il “Caffé Mocha” pagato, che è poi il caffé sospeso napoletano. Che sia una vera e propria mania di questi tristi tempi lo dimostra il fatto che l’abitudine napoletana di una volta è diventato un vero e proprio brand, con tanto di pagina facebook marchiata e cliccata da ben 90mila supporters. Sull’immagine di copertina si legge, scritto in lingua britannica, “basato su una tradizione italiana di solidarietà” (based on an italian goodwill tradition…). Sarebbe il caso di precisare che è napoletana, perché l’Italia la sta timidamente praticando solo ora, al pari degli stranieri. Spulciando sulla pagina, le foto sono un vero e proprio trattato di sociologia. Come commentare altrimenti la foto di una busta postale contenente degli spiccioli, attaccata alla vetrina di un distributore di snack e bevande, su cui si legge “Atto casuale di cortesia – gustatevi un drink e pensatemi”.
Che dite, Napoletani, di dare nuovo impulso alle Vostre tradizioni che tanto insegnano?

Quando la tradizione napoletana si ricorda di essere inter…Nazionale

Angelo Forgione – Piaccia o no il suo canto, Maria Nazionale a Sanremo ha già vinto. Due brani quelli da lei cantati, l’uno in italiano e l’altro in napoletano: Quando non parlo di Enzo Gragnaniello, una suggestiva lirica d’amore che dà spazio alle note, e la più classica  È colpa mia di Servillo-Mesolella. Uno più gradito dell’altro. Qualcuno storce il naso per la dizione e lo stile del’artista torrese, dimenticando il merito di aver  imposto la lingua partenopea al palcoscenico nazionale, a testa alta e senza complessi, come invece non capita da troppo tempo. E proprio la canzone dialettale è stata preferita, prendendosi anche i consensi del giorno dopo. È colpa mia è già cliccatissimo su youtube, le radio la propongono al pubblico che, in buona sostanza, si emoziona all’ascolto della struttura melodica ricca dei canoni della tradizione partenopea. Una canzone che fa leva sul sentimento per emozionare, sulla sofferenza di una donna innamorata, canovaccio immortale e talvolta banale ma non in casi come questo in cui il mix esplosivo di note con la poesia, che è l’origine della canzone di Napoli, ravviva una cultura universale.
Qualcun altro dice invece che la preferenza sia in realtà una trappola, e che la canzone sia stata scelta per far si che non avesse alcuna speranza di vittoria. Complessi e dietrologie che non aiutano la napoletanità ad affermare la propria forza trimillenaria. E anche se fosse? A Sanremo non si vince sul palco ma fuori. E Maria Nazionale ha già vinto, rispolverando con scioltezza la tradizione melodica napoletana, senza il neo, quella che ha figliato la canzone italiana e lo stesso festival di Sanremo.
La cantante di Torre Annunziata era già stata a Sanremo nel 2010 con Nino D’Angelo. Cantarono Jammo Jà e furono subito estromessi dalla kermesse. Quell’edizione esaltava gli imminenti festeggiamenti del 150° anniversario dell’unità d’Italia. Una canzone napoletana che inneggiava ai meridionali non calzava bene con la propaganda spinta sul palco con Emanuele FIliberto, che con Pupo e Luca Canonici erano destinati al podio sulle note dell’improponibile Italia amore mio. Persino Marcello Lippi, allora CT della nazionale italiana, accompagnò il trio “azzurro” e mise in scena un autentico promo, contravvenendo alle regole della competizione. Presero fischi dalla platea, rimproveri della presentatrice Antonella Clerici e accuse da Nino D’Angelo.
Brava Maria Nazionale, dunque. È stata scelta da Fazio e non ha indugiato a insistere sulla tradizione, oltrepassando il provincialismo italiano che fa perdere identità. A testa alta ma senza presunzione, e con consapevolezza. Prendere o lasciare i ricami barocchi della sua voce (che non piacciono a chi scrive). Così si tiene viva la fiamma.