Il Sud ignorato dai media e mal raccontato

Angelo Forgione – Il giornalista Maurizio Ferraris, piemontese, se la ride quando il professor Stefano Cristante, docente settentrionale di Sociologia dei processi culturali e comunicativi in Puglia, gli ricorda che i primati tecnologici dell’Ottocento italiano arrivavano dal Sud: «La prima ferrovia nel Regno delle Due Sicilie… noi piemontesi ce ne siamo avvalsi per meglio condurre l’invasione».
È una cruda verità storica in un dialogo televisivo per spiegare il Mezzogiorno, che nei media nazionali è spesso rappresentato come terra della criminalità e del degrado. Questa rappresentazione non si limita a cogliere dati di fatto ma aggiunge ai fatti un’interpretazione che fa di alcuni problemi la chiave di lettura di un’intera area geografica. Alla cultura del Sud non si rende giustizia e l’immagine che se ne dà è oggetto di processi di semplificazione e di caricatura.
Cristante snocciola un monitoraggio condotto insieme alla collega Valentina Cremonesi sugli argomenti trattati dal Tg1: da circa 35 anni solo il 9% delle notizie apparse sul telegiornale più seguito dagli italiani sono state dedicate al Sud Italia, e di questo 9% si è trattato per il 75% di cronaca e criminalità, seguito dal meteo e dal welfare, tradotto in malasanità. Lo stesso vale per il Corriere della Sera e per la Repubblica, che dal 2000 al 2010 hanno dedicato al Mezzogiorno uno spazio sempre più marginale: 500 articoli contro i 2.000 del ventennio 1980-2000, legati quasi esclusivamente a due sole categorie criminalità/cronaca nera e meteo/natura. Ciò per cui eccelle il Sud, sostanzialmente, non è stato e non viene raccontato, e non è solo un problema riferito a giornali o trasmissioni di chiara impronta discriminatoria. 
In sostanza, un terzo del territorio e degli abitanti d’Italia sono sistematicamente ignorati dai media o hanno un ruolo marginale.
La politica, incapace di mettere mano alla Questione meridionale ma solo di tradurre il lamento in vittimismo al pari di buona parte dell’opinione pubblica, non è stata in grado di intercettare il malcontento, che si è aggiunto al disagio esistenziale. Vittimismo che non va oltre l’incapacità dei meridionali di trasfomare la loro grande potenza creativa in forza politica, come evidenzia l’editore Alessandro Laterza. Ed ecco spiegato perché la gente del Sud, orfana di classi dirigenti all’altezza di proporre un riscatto, si affida in massa a persone senza esperienze di governo e dalla faccia pulita.

80 volte auguri a Lino Banfi, da Canosa a Roma passando per Napoli

Pasquale Zagaria, in arte Lino Banfi, spegne 80 candeline, dopo oltre cinquanta di carriera nel mondo dello spettacolo. Un viaggio cominciato con l’abbandono del seminario nella natìa Puglia e l’approdo a Napoli, all’avanspettacolo con il nome d’arte di Lino Zaga, prontamente modificato su consiglio di Totò. Furono anni di durissima gavetta, di povertà profonda ma anche di conoscenza con la solidarietà partenopea, che l’attore ricorda così:

“Il mio nome d’arte lo devo soprattutto a Totò. Andai a trovarlo e mi chiese come mi chiamassi. «Lino Zaga, principe. Lino diminitivo del mio nome, Pasquale, e Zaga diminutivo del mio cognome, Zagaria». Lui mi disse di cambiare perché il diminutivo del cognome portava male. Andai dal mio impresario a dirglielo e questi, che faceva anche l’insegnante di scuola, aprì un registro di classe che aveva a portata di mano e prese il primo cognome che gli capitò sotto gli occhi: Aureliano Banfi. Lino Banfi… suonava bene.
Napoli è una città alla quale sono legati tanti miei ricordi di gioventù. Lì ebbi le prime scritture con la compagnia di Arturo Vetrani, che conobbi quando passò per Canosa e con cui partii per muovere i miei primi passi nel mondo del varietà. Ricordo la Galleria Umberto I, ritrovo di musicisti e attori alla continua ricerca di scritture quando andava bene e di pranzi e cene a scrocco in periodi di magra. Giorni bellissimi, a ricordarli adesso, ma pieni di difficoltà a viverli allora. Non ho mai dimenticato quel posteggiatore abusivo che una sera di Natale, vedendomi ciondolare senza meta attorno alla Galleria, indeciso se utilizzare i pochi spicci che avevo per mangiare o per dormire, che non bastavano, mi portò a casa sua, mi fece mangiare con la sua numerosa famiglia, mi fece dormire e la mattina dopo mi diede anche un po’ di soldi per tornare a casa. A quell’uomo, come ad altri che, nel corso dei difficili anni all’inizio della mia carriera, mi hanno aiutato senza avere niente in cambio, va senz’altro la mia riconoscenza e il merito di avermi insegnato il valore della solidarietà.
A Napoli è legata anche la mia iniziazione sessuale. Il giorno in cui compii 18 anni, alle nove del mattino, mi recai alla storica “casa” di via Sergente Maggiore, finalmente in regola con l’età per usufruire dei “servizi” delle gentili signorine che l’abitavano. Era troppo presto e la casa chiusa era, appunto, chiusa e, quando suonai, una signora mi disse di tornare più tardi. Io rimasi lì, deciso ad attendere l’orario di apertura. La signora si accorse che ero rimasto e mi chiese perché.
«Voglio entrare – dissi – perché oggi sono diventato maggiorenne». La donna mi fece entrare fuori orario e cominciò a chiamare «Maria… Giovanna… Carmela… Venite! Ce sta ‘nu guaglione che fa 18 anni oggi». Mi festeggiarono come volevo, tutte, e non mi fecero pagare!”

video di Marco Rossano al Napoli Film festival del 2011 (Castel Sant’Elmo)

Matteo Renzi e il disco rotto del piagnisteo. Vietato evidenziare il dramma Sud.

Angelo Forgione per napoli.comSia lodata la Svimez, ma ancor di più la Grecia in crisi. Che potesse divampare nuovamente la “Questione meridionale” sotto il solleone di Agosto, con la colonnina di mercurio sopra i 40 gradi, nessuno poteva prevederlo, perché da un buon decennio, freddo o caldo che facesse, tra l’abbondante demagogia leghista e la massiccia retorica delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, il problema Sud era di fatto scomparso dai temi del dibattito politico nazionale.
Sia chiaro che la Svimez non ha detto nulla di nuovo, perché sono anni che nei suoi periodici rapporti preconizza desertificazione industriale e umana al Sud, richiamando attenzione sulla povertà meridionale. Tutto ignorato e relegato a qualche articolo di giornale mai capace di “estorcere” un commento significativo da parte dei leaders dei Governi che si sono succeduti. C’è voluta la Grecia, c’è voluto il suo euro-referendum per fare lo sgambetto al presidente del Consiglio in carica; c’è voluto il dibattito sulla “Questione greca” che sta all’Europa come quella “meridionale” sta all’Italia. L’attenzione internazionale si è concentrata sul dramma economico ellenico e tutti hanno creduto che oltre quel fondo non si potesse scavare nell’Eurozona. E invece la Svimez, riesprimendo gli stessi dati degli anni scorsi, ha condito quanto già detto col riferimento greco, così riaprendo una ferita mai rimarginata. Tutti hanno finalmente e improvvisamente scoperto che esiste un peggio al peggio, che la Magna Grecia sta peggio della Grecia. Il meridionalismo intellettuale lo sapeva già, ma l’imbavagliamento di cui è oggetto non gli consente di diffondere ampiamente la propria voce. E, del resto, nulla hanno potuto neppure i Gramsci, i Salvemini, i Nitti, i Fortunato e tutti coloro che hanno denunciato a gran voce, anche in sede politica, le problematiche affiorate con la creazione del “triangolo industriale” negli anni seguenti l’unificazione nazionale.
Il Sud ha battuto un colpo, finalmente, e la “Questione meridionale” è tornata inaspettatamente sotto i riflettori. Ma al grido d’allarme della Svimez ha risposto la leggerezza interpretativa del premier Renzi, la stessa persona che lo scorso gennaio, con incredibile superficialità, disse al parlamento di Strasburgo che le famiglie italiane incalzate dalla povertà si stavano invece arricchendo. Ora, dal pulpito nipponico di Tokyo, il “rottamatore” della politica italiana ha tuonato: «Basta piagnistei sul Sud! Voler bene all’Italia è smettere di parlarne male. L’Italia, lo dicono i dati, è ripartita. È vero che il Sud cresce di meno e sicuramente il governo deve fare di più, ma basta piangersi addosso». Il Presidente del Consiglio ha chiesto dunque di nascondere sotto il tappeto la polvere, di celare il dramma meridionale, di non parlar male dell’Italia, come se questa fosse una. No, non lo è e non lo è mai stata. Esistono due diverse Italie: ce n’è una che rincorre la ripresa facendo leva su un’economia che si approssima all’Europa che conta e ce n’è un’altra che da un secolo e più è scivolata verso il baratro. C’è una parte del Paese con distretti che procedono come la Germania e un’altra che è in panne alla partenza.
“Piagnisteo”. È così che Renzi liquida la Questione. Se il Sud si fa ascoltare “chiagne”, e magari “fotte” pure. Per cui è meglio che la smetta e che non faccia fare brutta figura all’Italia sullo scenario internazionale, soprattutto a un premier che è in visita nel Paese della terza economia mondiale. Nel Calcio, tanto caro al Capo di Governo, qualcuno dice che l’attacco è la miglior difesa, e Renzi sembra proprio attuare tal teorema per respingere le accuse nei confronti di un Esecutivo, il suo (ma non solo il suo) che per il Mezzogiorno non ha fatto nulla se non arrecare ulteriori danni con continui tagli della spesa in conto capitale e degli investimenti statali. Proprio di tattica si tratta, perché il rifiuto del “piagnisteo”, cioè l’attacco a chi prova ad attaccare, è un classico della dialettica dell’ex sindaco di Firenze. Otto mesi fa, a novembre, era a Sidney, e dai microfoni australiani chiedeva all’Italia di smetterla di vivere nel piagnisteo. Un mese prima – era ottobre – diceva lo stesso nella sua città, durante le celebrazioni per i 150 anni delle Officine Galileo a Campi Bisenzio, ricordando che nel dopoguerra italiano nessuno si è abbandonato al piagnisteo e così l’Italia è ripartita. Inesatto, perché i “piagnistei” c’erano anche allora, ed erano meridionali, ma furono messi a tacere. Quell’Italia in ginocchio ripartì grazie agli aiuti stanziati dal Piano Marshall tra il 1948 e il 1951, con cui furono rimessi in piedi gli stabilimenti industriali del Nord-Italia. Stanziamenti predisposti dagli Stati Uniti con lo scopo recondito di demolire il comunismo italiano (sostenuto esternamente dal grande blocco sovietico), nell’ambito di un piano più ampio finalizzato ad ottenere liberalizzazioni commerciali in Europa per le multinazionali americane e acquisire forte influenza della politica statunitense su quella europea. Eppure il politico sindacalista pugliese Giuseppe Di Vittorio – e non solo lui – chiese di investire parte dei finanziamenti americani per un minimo sviluppo industriale nel Sud, colpito da distruzioni molto maggiori rispetto al Nord, ma trovò opposizione nell’imprenditoria settentrionale, guidata dal genovese Angelo Costa, presidente di Confindustria, che rifiutò con ormai cronico nordismo. Per l’imprenditore ligure era più conveniente trasferire manodopera al Settentrione che creare fabbriche nel Meridione. «E assurdo pensare che l’industria si localizzi nel Sud, è più conveniente trasferire la manodopera verso il Nord». Così disse Costa nel 1946, e non è un caso che l’attività di navigazione per passeggeri immediatamente dopo avviata abbia portato alla nascita del colosso italiano delle crociere, quelle dai fumaioli gialli e la C blu. I soldi del Piano Marshall furono profusi dal Governo italiano in grandissima parte nei territori d’Alta Italia, rivitalizzando il “triangolo industriale” e inaugurando la più massiccia emigrazione da Sud a Nord. È così che l’Italia spaccata è ripartita dopo la Guerra. Si trattò di ripartenza assistita grazie al gettito di capitali esterni, come l’Italia dovrebbe fare per il suo Sud. È se lo Stivale intero non riesce a volare in Europa è proprio perché quel gettito fu maldistribuito, ricreando un fallimentare modello di sviluppo e ricalcando il Paese proprio come la si era lasciato prima dei bombardamenti, con un Nord in progresso industriale e un Sud “destinato a funzionare da colonia d’America per le industrie del Nord”. Il virgolettato si riferisce alle parole pronunciate da Gaetano Salvemini nel 1911, in pieno cinquantenario dell’Unità. Era anche quello il “piagnisteo” di chi sapeva di cosa parlava.

La condanna della Magna Grecia

Angelo Forgione – Qualcuno si sta accorgendo che non esiste solo il problema della Grecia nell’eurozona e che Il Sud-Italia sta nelle stesse condizioni di povertà. Non è esattamente così. Il Sud-Italia sta peggio della Grecia. Sta peggio perché i suoi livelli di reddito sono anche più bassi, seppur di poco, di quelli ellenici… perché è territorio di mafie, vero sistema economico che condanna la speranza, che in Grecia non ci sono… e perché è un’area che da sempre funge da mercato di sbocco per le merci del Nord, mentre la Grecia non presenta un divario interno come quello italiano.
Insomma, il problema greco è al centro dell’attenzione internazionale e il governo locale stimola una politica responsabile contro le banche, ma in Europa c’è un problema altrettanto grande – se non di più – di cui nessuno parla e che i meridionali sono condannati a subire. Il fatto è che il Mezzogiorno non è uno stato sovrano e non può indire un referendum. La scomparsa dai temi del dibattito politico nazionale della ‘Questione meridionale’, sostituita dalla propaganda leghista e dalla ‘centralità padana’, testimonia un dilagare della demagogia pagato a caro prezzo dai cittadini della Magna Grecia.

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Senza soldi non si cantano messe

Angelo Forgione – Il treno Carratelli è partito e mi ci aggancio in corsa. Quanto ha scritto su napoli.com (leggi) circa il Napoli “empolizzato” non fa una piega. “Senza risorse e senza alternative siamo una città morta e il calcio ne è l’inevitabile riflesso”, scrive il decano del giornalismo partenopeo, che conosce l’ambiente e tutto ciò che c’è, o meglio non c’è, attorno al pallone di casa Napoli. Ma i tifosi continuano a non voler andare oltre, a guardare l’azzurro coi paraocchi, perché quello che sta a destra e sinistra, ma anche dietro e oltre, sembra proprio non interessare a nessuno. Napoli è città stesa supina, dolorante, come un calciatore coi crampi, tanto per restare nella metafora calcistica, ma nessuno accorre a prestargli soccorso. Non c’è un euro, e quelli che potrebbero piovere dall’Unione Europea (100 milioni) per la riqualificazione del Centro Storico Unesco si rischia seriamente di perderli per immobilismo di Regione e Comune. 42 i milioni dei fondi già persi per il Porto di Napoli, che non è neanche elettrificato, il che significa che le navi sono costrette a tenere i motori accesi (e a inquinare l’aria) per continuare le attività vitali a bordo. Tutto o quasi è fermo, sospeso, come il destino di ogni cittadino napoletano che rischia ogni giorno di rimetterci la vita per un cornicione che si stacca da un monumento, per un tronco d’albero che collassa o un palo della luce che piomba sull’asfalto. Le grandi industrie mancano e non si riesce neanche a sfruttare la risorsa turistica, il vero oro sprecato. Ma i tifosi del Napoli proprio non lo vogliono capire che il calcio è un fenomeno industriale, che è uno “sport” che si addice alle città industriali, ed è in quelle che è nato. Ho scritto 350 pagine e passa di saggio (Dov’è la Vittoria) per dare degli strumenti di comprensione, per spiegare che Manchester, Liverpool, Barcellona, Monaco di Baviera, Torino e Milano, centri che esprimano più di una squadra e che ospitano club tra i più seguiti e vincenti del Vecchio Continente, sono cresciuti urbanisticamente ed economicamente con la loro industrializzazione massiccia e con i grossi flussi migratori che li hanno interessati. Non è sufficiente essere una città grande e popolosa (ma in fase di svuotamento) per pretendere di vincere ad ogni costo. La Champions League l’hanno vinta solo quattro capitali europee: Madrid, Lisbona, Amsterdam e Londra, quest’ultima una sola volta e solo recentemente, nel 2012, grazie agli investimenti russi, in una città che esprime ben 8 squadre.
Per vincere nel calcio c’è bisogno di un tessuto produttivo che generi opportunità e interessi capaci di attrarre capitali, e Napoli non ce l’ha. Gli Al-Thani, che ancora non hanno vinto in Europa, sono approdati a Parigi perché l’allora presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy firmò con loro un trattato fiscale molto vantaggioso per i residenti e gli investitori qatarioti sul territorio francese, che è divenuto per loro un paradiso fiscale. Da allora, tra Francia e Qatar intercorrono interessi in tema di turismo, aviazione, gas, petrolio, elettricità, infrastrutture, sicurezza del territorio e cooperazione scientifica. A Napoli sono in troppi convinti che se De Laurentiis si facesse da parte lascerebbe campo libero a investitori più forti. Chi sono? E dove sono? Non c’erano quando per una “manciata” di milioni di euro nessuno si fece vivo nel 2004, mentre Capitalia, in difesa dei suoi crediti, trovava prima Lotito per la Lazio e poi gli americani per la Roma, salvando due società ben più indebitate del Napoli. E quali interessi avrebbero da sfruttare i ricchi investitori internazionali alle falde del Vesuvio? Nessuno! Neanche sullo stadio da ristrutturare – avessi detto uno nuovo! – ci si riesce a mettere d’accordo. Non è che il Comune di Torino se la passi assai meglio di quello di Napoli, ma nel capoluogo piemontese certi interessi di matrice industriale e turistica hanno fatto sì che in un ventennio sorgessero di fatto tre stadi nuovi, mentre a Napoli il tempio del Calcio divorava enormi risorse comunali per la manutenzione ordinaria e straordinaria, sempre al limite dell’agibilità e della fruibilità, con la SSC Napoli a compartecipare alle spese di gestione.
Ma i tifosi del Napoli, imbattibili per passione, lo sono anche per convinzione (sbagliata) e sono persuasi in grandissima parte di supportare la squadra di una capitale del Calcio che vincerebbe e stravincerebbe se De Laurentiis la smettesse di fare l’imprenditore sbruffone a conduzione familiare. Al netto degli errori del patron azzurro, i paraocchi sono il vero limite di una tifoseria che dovrebbe dunque capire che Napoli è città invischiata nelle sabbie mobili del territorio più depresso dell’Eurozona e, in quanto tale, periferia del calcio. Eppure sempre in Europa da sei anni, eppure al posto 20 del ranking UEFA (seconda squadra italiana), eppure con lo sfizio di qualche coppetta nazionale portata in bacheca e strappata ai dominatori di sempre, quelli dell’industria per antonomasia. Ma veramente vogliamo pensare che la Napoli calcistica sia una realtà inespressa dal lontano 1926, e che solo nei 5 anni di Maradona, quando la politica democristiana lo volle in azzurro per dar sollievo alla Campania post-terremoto, abbia fatto il proprio dovere? Suvvia!
Non si può sognare la vittoria quando per due stagioni si resta senza la ghiotta fetta di introiti della Champions League. C’è ora solo da far quadrare i bilanci e programmare diversamente; non si può altrimenti, a meno che non si voglia avviare una nuova spirale negativa. È difficile digerirlo, certo, ma è la realtà, e chi non la guarda finisce nella zona d’ombra della frustrazione. In troppi ci sono già dentro da un bel pò.

Fischi all’inno nazionale, segnale non nuovo che va interpretato

Angelo Forgione – Nel corso della trasmissione radiofonica Si gonfia la rete di Raffaele Auriemma, ho espresso il mio parere sui fatti dell’Olimpico e motivato i fischi all’inno nazionale, che nulla o quasi hanno a che vedere coi tumulti avvenuti dentro e fuori lo stadio. Quei fischi hanno un significato che il Paese bolla come manifestazione di ignoranza, ostinandosi a non volerli comprendere. Eppure già due anni fa si erano verificati in occasione della finale della stessa competizione contro la Juventus. Nessuno si è preoccupato di capire il malessere e la disaffezione di Napoli verso i simboli della Nazione, concentrandosi sulla più deleteria e volgare gogna mediatica a danno dei napoletani.
Nel corso della trasmissione è intervenuto anche il direttore del Corriere del Mezzogiorno Antonio Polito, il quale ha invitato a non individuare nella questione sociale e storica la matrice dei fischi, trovando il disaccordo di Raffaele Auriemma.

Il caffè sospeso che tira su l’Europa

Certo che è proprio strana questa Napoli che non riesce a rendersi conto come nella sua storia vi sia anche tutto il saper vivere dell’umanità. La mania del caffè sospeso ormai dilaga ovunque e travolge anche il noto marchio Starbucks, proprio quello che ha come logo una sirena bifida e che sembra proprio Parthenope. Per chi non la conosce, è una catena internazionale di caffetterie del relax, che in Italia non si azzarda a mettere piede “perché il caffé italiano è insuperabile”, dicono. Figurarsi a Napoli.
Dunque, cosa si sono “inventati” negli Starbucks d’Europa? Il “Caffé Mocha” pagato, che è poi il caffé sospeso napoletano. Che sia una vera e propria mania di questi tristi tempi lo dimostra il fatto che l’abitudine napoletana di una volta è diventato un vero e proprio brand, con tanto di pagina facebook marchiata e cliccata da ben 90mila supporters. Sull’immagine di copertina si legge, scritto in lingua britannica, “basato su una tradizione italiana di solidarietà” (based on an italian goodwill tradition…). Sarebbe il caso di precisare che è napoletana, perché l’Italia la sta timidamente praticando solo ora, al pari degli stranieri. Spulciando sulla pagina, le foto sono un vero e proprio trattato di sociologia. Come commentare altrimenti la foto di una busta postale contenente degli spiccioli, attaccata alla vetrina di un distributore di snack e bevande, su cui si legge “Atto casuale di cortesia – gustatevi un drink e pensatemi”.
Che dite, Napoletani, di dare nuovo impulso alle Vostre tradizioni che tanto insegnano?