Davvero il 21 dicembre è il compleanno di Napoli?

Angelo Forgione No, il 21 dicembre non è il compleanno di Napoli. Non datemi del guastafeste perché racconto verità documentate… Ci stiamo nutrendo di storie fantasiose antiche e moderne, come quella delle sette strisce sulla pastiera. Stiamo osservando date inesatte, come quelle dell’invenzione della pizza margherita e della fondazione del calcio Napoli. E questa, che ormai ogni anno viene ripescata per celebrare la nascita di Napoli (21 dicembre 472 a.C.), è una ricorrenza che non è, trattandosi di un’invenzione partorita nel marzo del 1990 dal professor Renato Palmieri, un fisico unigravitazionale, che scrisse un racconto a metà tra verità e fantasia intitolato La chiave astronomica della fondazione di Neapolis, facendo intendere immediatamente, nel sottotitolo, che si trattava di una “rêverie neoclassica”, cioè di una fantasticheria moderna.

Ma tranquilli, sono romantico anch’io nel mio rigore storico, e anch’io ritengo che il 21 dicembre sia comunque una data simbolica per Napoli. Mi appello agli studi accademici di due professori dell’Università Federico II, per i quali l’orientamento e le proporzioni della griglia stradale dell’antica Neapolis, l’attuale centro storico di Napoli patrimonio Unesco, sarebbero stati scelti dai coloni Greci in modo che la città potesse essere riconosciuta come la città di Helios/Apollo, il dio del sole dei Greci, oltre che della sirena Partenope.

Lo studio è del 2019, ma già nel 2013 scrissi in Made in Naples: “La Neapolis fu città “solare”, cioè rivolta al cielo e orientata secondo il cammino del Sole; prese il posto della Palaeopolis “oscura”, rivolta agli abissi e fondata sulle rive del mare secondo l’orientamento della terra verso l’acqua”.

Neapolis fu tracciata su di un terrazzamento demarcato dal mare, dall’antico fiume Sebeto e dai terreni nelle attuali Foria e Forcella, e opposta dai Cumani al più vecchio insediamento, la Palaeopolis, fondato dai Rodiesi tra i secoli IX e VIII a.C., ventinove secoli fa, là dove è il monte Echia.

In quanto città greca, Neapolis osservava il mithraismo, la religione antica di origine persiana e di tradizione ellenistica che celebrava i misteri del Sole invincibile, sempre capace di rinascere. I cittadini di Neapolis veneravano Mithra in processione verso la Crypta Neapolitana, quella oggi alle spalle del santuario di Piedigrotta. Lì, proprio al centro della grotta attraversata completamente solo due volte l’anno da un raggio di sole (in occasione degli equinozi di primavera e di autunno), fu rinvenuto in tempi recenti proprio un bassorilievo di Mithra, oggi in mostra al Museo Archeologico Nazionale. Il Cristianesimo sostituì la celebrazione dei misteri mithraici con il Natale e la nascita di Mithra, divinità solare, con quella di Gesù.

Il 21 dicembre, è il giorno meno luminoso dell’anno, quello in cui cui il Sole rinasce. Mi piace, dunque, pensare che Napoli incarni la metafora del Sole invincibile, facendosi città invincibile, che sempre si risolleva. Sfida la presenza incombente di due vulcani distruttivi, ed è sopravvissuta a terremoti, eruzioni, colate di fango, epidemie, invasioni e bombardamenti. Napoli non si spegne. Magari tramonta, ma poi sempre risorge.

Chisto è ‘o paese d’ ‘o sole, scrisse Libero Bovio.

160 anni di storia d’Italia in cerca di oblio

Angelo Forgione 160 anni. Tanti ne compie oggi l’Italia, giovanissima nazione ancora in cerca di unità. Il 160 anni di una nazione andrebbero festeggiati in forma solenne, anche solo per legge, quella che ha fissato al 17 marzo la celebrazione della proclamazione a Torino del Regno d’Italia e del suo primo Re, che però era il secondo Vittorio Emanuele di Savoia, e tale rimase per ribadire che quel nuovo regno era di fatto un Piemonte allargato.

Non tantissimi sanno che oggi è data patriottica, e ancora meno sanno il perché si è scelto il 17 marzo per festeggiare la nascita della Nazione. Ma poi, diciamolo chiaramente, cosa vuoi festeggiare con i chiari di luna della pandemia? Il disinteresse per una celebrazione già normalmente poco sentita è più normale che mai, anche perché i fini conoscitori della vicenda storica hanno persino invocato l’oblio del Risorgimento, chiedendo di chiudere qui quello che di fatto è stato il dibattito dell’ultimo decennio, tra sostenitori dell’epopea risorgimentale e più energici revisionisti in cerca di verità.

Dieci anni fa, ed è questa la ricorrenza più significativa, la vera novità delle celebrazioni per il 150esimo anniversario tricolore fu il sorgere di tesi critiche sulle modalità unitarie e sulla politica filosettentrionale che ne conseguì. Fiorirono pubblicazioni e narrazioni meridionaliste più profonde sulla storia d’italia e sulla “questione meridionale”, e i lettori più curiosi, stanchi di retorica e di piattezza di analisi, ne sancirono un successo tuttora vivissimo.

Oggi è più nitida la descrizione di un Risorgimento che non fu quel necessario processo democratico a beneficio di una comune identità di diversi popoli, ognuno con la propria da rispettare, ma fu purtroppo costruzione politica fondata sulla prepotenza, sulla violenza e sull’arte della diplomazia e condotta da un’élite che, per dirlo alla Salvemini, fece la “rivoluzione dei ricchi” mettendo il Nord contro il Sud, non con il Sud.

La sete di conoscenza non si è esaurita, e ciò ha infastidito i detentori del sapere ufficiale, cattedratici e storici patentati sempre più incalzati ma mai disposti al confronto e al contraddittorio, piuttosto impegnati anch’essi in un nuovo filone pubblicistico, quello del revisionismo accademico delle tesi dei revisionisti.

Il risultato è la richiesta di oblio, lo stesso che si è operato per 150 anni per quell’operazione di ingegneria sociale voluta dalla Massoneria, dieci anni fa definitivamente fallita. Oblio, si chiede, perché la memoria divide invece di unire, e questo la dice lunga su quanto non fu unità ma annessione. Quel che stato è stato, si chiede, e pazienza se la questione meridionale italiana è un unicum nel panorama internazionale per durata e proporzioni della sperequazione che l’alimenta. È problema nostro, e lo sarà ancora per molto se i danari del Recovery Fund non risolveranno quel che devono risolvere espressamente: il divario Nord-Sud nato nel secondo Ottocento.

In un certo senso, l’oblio appare opportuno, perché è ormai dimostrato che celebrare la storia dell’unificazione d’Italia con la stantia retorica è perdente e non serve a un paese che deve ancora capire il grande valore dell’unità. E dunque, meglio dimenticare e non celebrare niente che celebrare male e con superficialità.

Il Gran Caffè Gambrinus compie 160 anni

Angelo ForgioneIl 12 maggio del 1860, al piano terra del palazzo della Foresteria di Napoli, lato di piazza San Ferdinando, l’impreditore Vincenzo Apuzzo inaugurava il Gran Caffè. Il giorno prima Garibaldi era sbarcato a Marsala e quattro mesi dopo avrebbe preso Napoli. Quel nuovo locale divenne velocemente un salotto del bel mondo cittadino, tanto da ottenere il raro e prestigioso riconoscimento di “Fornitore della Real Casa” per la bontà dei suoi prodotti.
Ad Apuzzo successe Mario Vacca, colui che nel 1890, in piena Belle Èpoque, fece ristrutturare i locali, incaricando l’architetto Antonio Curri, da poco reduce dalle decorazioni della nuovissima Galleria Umberto I. Quaranta tra artigiani e artisti per la nuova veste in stile liberty del Gran Caffè, ribattezzato Gambrinus in nome del leggendario Re delle Fiandre e patrono laico della birra, colui che, secondo il poeta tedesco del Cinquecento Burkart Waldis, apprese l’arte della birra da Iside. Ma perché il Re della birra se Napoli era la città del caffè? In piena Unità d’Italia, l’intenzione fu quella di mettere insieme la classica bevanda fredda e chiara del nord con quella bollente e scura ormai tipicamente napoletana. Il nuovo Gran Caffè Gambrinus si consacrò come avamposto dell’élite intellettuale napoletana, italiana ed oltre, dove ritrovarsi per fare politica, letteratura e arte, rendendosi uno dei più riusciti esempi in Italia di caffè letterario di ispirazione europea.
Nell’agosto del 1938, in pieno Fascismo, il Gran Caffè Gambrinus venne chiuso perché accusato di essere luogo di ritrovo antifascista, mentre era in realtà solo un affollato caffè proprio sotto l’abitazione del Prefetto e Signora, infastiditi dai rumori. I locali furono assegnati a un’agenzia del Banco di Napoli fino al 1952, quando l’ala su via Chiaia fu restituita alla precedente funzione e gestita dall’imprenditore Michele Sergio, i cui figli, dopo una battaglia con il Banco, riuscirono a riappropriarsi anche del resto degli sfarzosi saloni, a fare del Gambrinus uno dei locali storici d’Italia. Ed eccolo tagliare il traguardo dei suoi primi 160 anni.

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Carla Fracci dice no alla Scala e festeggia gli 80 al San Carlo

Angelo Forgione Carla Fracci dice no alla Scala e diserta la “festa” da non protagonista per i suoi 80 anni del 4 ottobre, in occasione della prima di ‘Giselle’. L’étoile festeggerà al San Carlo, da protagonista, il 26 e 27, con due serate in un cui sarà omaggiata da ospiti internazionali.
I milanesi prevedevano di farla sedere in platea. «Non ci sarò. Mi sarebbe piaciuto un gala che ripercorresse in una serata speciale la mia carriera – ha detto la ballerina – come un abbraccio affettuoso. A Milano ho dato molto, ma Milano è cambiata. Peccato. Napoli è stata molto più generosa: mi festeggerà con due serate di gala il 26 e 27 ottobre».
Dispiacerà alla Signora della Danza non avere la grancassa dei media, perché così funziona quando non si tratta della Scala, ma non si preoccupi più di tanto, lei che è ballerina e sa certamente che la prima Scuola di Ballo è sancarliana (1812) e che il San Carlo è la miglior cornice possibile per un tributo all’arte.

Auguri SSC Napoli, ma nascondi l’età

Angelo Forgione 1 agosto, giorno di festeggiamenti per il Napoli, l’unico club del Sud capace di misurarsi contro il ricco Nord del calcio. Una ricorrenza che però è inventata di sana pianta, perché in realtà la SSC Napoli di anni ne ha quattro in più di quelli che ci suggerisce la storia mal narrata, e se c’è un giorno di agosto da celebrare, quello è semmai il 25, non l’1. Faccio chiarezza, dopo aver già divulgato nel mio libro Dov’è la Vittoria (Magenes) e in diverse altre occasioni, anche allo stesso presidente Aurelio De Laurentiis in una mia conferenza sulla storia del caffè al Mostra Agroalimentare Napoletana M.A.G.N.A.

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Inganna tutti la data del 1926, che non è la data di fondazione del club ma quella del cambio di denominazione per motivi politici. Dal nome inglese a quello italiano, dettato dall’applicazione della Carta di Viareggio, uno statuto ufficializzato proprio nell’agosto 1926 dal commissario straordinario della FIGC e presidente del CONI Lando Ferretti per mettere letteralmente il movimento calcistico italiano nelle mani del Fascismo e ricondurre il Calcio al processo di “nazionalizzazione” mussoliniana.

Il Napoli era già nato nell’ottobre del 1922, allorché si era realizzata la fusione tra Naples Foot-Ball Club e l’U.S. Internazionale Napoli, e si era costituito l’Internaples Foot-Ball Club, che aveva eletto come presidente Emilio Reale (patron anche della vecchia U.S. Internazionale) e scelto il colore azzurro. Quella squadra, il primo Napoli, militava nella Lega Sud della Prima Divisione Nazionale, divisa in due competizioni distinte del Nord e del Sud.

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Dal 1898, infatti, anno di fondazione della Federazione Italiana Foot-Ball, poi FIGC, il Nord-Italia monopolizzava il campionato italiano, rendendolo espressione del “triangolo industriale” appena nato e relegando le squadre centro-meridionali al ruolo di comprimarie, prima escludendole dai tornei che assegnavano il titolo di campione d’Italia e poi fingendo, nel 1912, di ascoltarne le proteste con la concessione di una finalissima tra le squadre vincitrici di un Girone Nord (con Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto) e di un Girone Sud (con Toscana, Lazio e Campania). Finali pro forma, perché tutti, compresa la FIGC, erano ben consci del divario creato tra i due movimenti calcistici – uno in cui i soldi delle zone industrializzate avevano condotto al semiprofessionismo e l’altro ancora fermo al totale dilettantismo – e sapevano che le finalissime non avrebbero espresso alcun significato tecnico-agonistico.

Nel 1925, la precaria situazione finanziaria dell’Internaples aveva convinto Emilio Reale a cedere il club al facoltoso commerciante Giorgio Ascarelli, più adatto a garantire sicurezza al club. Il nuovo presidente, il secondo della storia del club (non il primo come si racconta), aveva ingaggiato l’allenatore lombardo Carlo Carcano, già calciatore della Nazionale, e la giovane promessa piemontese Giovanni Ferrari. Dalle giovanili era stato promosso in prima squadra un certo Attila Sallustro. Quella compagine era poi arrivata a giocarsi, con esito infelice, la finale di Lega Sud contro l’Alba Roma, valevole per l’accesso all’inutile finalissima nazionale per lo scudetto.
A quel punto irruppe il regime fascista, impegnato nel processo di “nazionalizzazione” del Regno d’Italia. Mussolini, non consentendo che il Calcio italiano restasse spaccato tra Nord e Sud e mostrasse disgregazione sociale, impose d’ufficio alla FIGC, tramite il CONI, l’unificazione delle due leghe territoriali in un’unica ‘Divisione Nazionale’, articolata in 20 squadre, di cui 17 sarebbero state del Nord e 3 del Sud, e più precisamente: le prime 16 squadre della Lega Nord; la diciassettesima dello stesso campionato da designare con un torneo tra le retrocesse (vinse l’Alessandria, ndr); le restanti tre dalla ex Lega Sud, ossia le due finaliste dell’ultimo torneo, Alba Roma e Internaples, più la Fortitudo Roma, quest’ultima ammessa perché presieduta da Italo Foschi, uno degli ideatori della riforma fascista del Calcio. I sodalizi del Nord protestarono per le decisioni superiori, riunendosi più volte a Genova, Torino e Milano, ritenendo le tre squadre di Napoli e Roma inadeguate alla competizione e usurpatrici di posti spettanti al Calcio settentrionale. L’ostracismo, però, dovette piegarsi alla volontà politica. A Napoli, a quel punto, si pose un problema serio. Mussolini detestava gli inglesismi, e pur italianizzando il nome Internaples ne veniva fuori la “Internazionale”, che ricordava l’Internazionale comunista, avversaria politica del Fascismo. Il presidente Ascarelli, di origine ebraica, suggerì allora la più opportuna adozione del semplice nome italiano della città. Un articolo de Il Mezzogiorno del 12-13 agosto annunciò che una riunione sociale presso la sede di piazza della Carità avrebbe probabilmente stabilito il “nome migliore da dare alla Società”.

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Una nuova assemblea dei soci si tenne il 25 agosto, riportata da Il Mezzogiorno del 25-26 agosto, per formalizzare il cambio di denominazione di una società che era stata fondata nel 1922: da Internaples Foot-Ball Club ad Associazione Calcio Napoli.

Una data, quella del 25 agosto, erroneamente tradotta dalle cronache successive come 1 agosto, giorno in cui non accade di fatto nulla. Il giorno 2 agosto, la Commissione di Riforma dell’Ordinamento della Federazione aveva emanato ufficialmente la Carta di Viareggio, con cui era nato finalmente il campionato unito. Il 3 agosto l’Internaples aveva ottenuto l’affiliazione alla nuova Lega Nazionale.

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L’8 agosto, il settimanale Tutti gli Sport aveva pubblicato un articolo in cui si leggeva di “interessamento benevolo del Governo nella questione che non si sarebbe risolta se non fra molti anni di umiliazioni, di abile politica del Sud verso i papaveri del Nord“, di “eguaglianza dei diritti e dei doveri di tutte le società italiane”, di “sacrificio iniziale” delle “società di testa in favore di quelle finora ingiustamente trascurate”, di “legittima aspirazione a progredire” della squadre e dei calciatori del Sud.

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L’A.C. Napoli si presentò con un nuovo stemma: il Corsiero del Sole, un cavallo sfrenato, emblema della città capitale dal XIII secolo, simbolo dell’indomito popolo partenopeo. A conferma che non si trattò di fondazione ma di semplice cambio di denominazione, nella nuova rosa figurarono otto elementi della stagione precedente, compreso quell’Attila Sallustro che sarebbe diventato in seguito l’idolo dei tifosi. I risultati della stagione (solo 1 punto in classifica), disastrosi nell’impatto col “Calcio industriale”, trasformarono, per tradizione orale, il cavallo rampante in un ciuccio malandato. Il Regime non si arrese e ripescò più volte le retrocesse pur di supportare il processo di unificazione tra Nord e Sud del Calcio italiano. Anzi, nel 1927 si verificò la fusione delle due squadre romane, anch’esse a fondo classifica, e nacque l’attuale AS Roma, ammessa alla Prima Divisione.
L’A.C. Napoli cessò le attività nel 1943 a causa delle difficoltà incontrate durante lo svolgersi della guerra. A tenere vivo il calcio napoletano fu la neonata Associazione Polisportiva Napoli, che nel 1947 assunse la storica denominazione di Associazione Calcio Napoli. Il 25 giugno del 1964, tra sali e scendi dalla A alla B, la società, soffocata dai debiti, cambiò ancora denominazione in Società Sportiva Calcio Napoli, sodalizio decretato fallito il 2 agosto 2004 e poi rilevato il successivo 6 settembre, attraverso l’acquisto del titolo sportivo da parte di Aurelio De Laurentiis, che scelse la provvisoria denominazione Napoli Soccer. La precedente denominazione fu ripristinata il 24 maggio 2006, con l’acquisizione del marchio e dei trofei più importanti della storia azzurra. Insomma, si tratta di una società nata nel 1922 e rinominata cinque volte nel corso degli anni (1926, 1945, 1964, 2004, 2006). E non é perché nei suoi primi quattro anni di attività non le era consentito misurarsi direttamente con i club del Nord che bisogna considerarla più giovane di quanto non sia. Così le si sottraggono quattro anni di discriminazione settentrionale e il primissimo periodo di vita.

contributo video concesso da Giammarino Editore

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Higuain sposa il potere, nessun pianga! Arrivederci e ringraziamenti reciproci.

Angelo Forgione Finisce la storia tra Higuain e il Napoli. Poco male. Giusto il tempo del pianto dei tifosi e metabolizzare il lutto, ma poi sarà bene guardare avanti. Stiamo parlando di un calciatore di levatura internazionale, e in quanto tale è macchina da soldi gestita da un procuratore. Non è mica un console che deve lasciare in maniera coatta un posto di cui si è innamorato per scadenza del mandato. L’amore, in questo Calcio, è un sentimento che appartiene solo agli appassionati, che non partecipano al giro d’affari dello show-business ma sono proprio quelli che lo alimentano con la loro passione planetaria, ovvero il vero motivo per cui sponsor e imprenditori ci mettono quei soldoni che fanno la felicità dei calciatori. E a loro, ai tifosi, del Napoli in questo caso, vulnerabili nei sentimenti, è stata sottratta la chiarezza. Sarebbe il caso di restituirla e spiegare la verità degli eventi delle ultime settimane. De Laurentiis, Higuain e pure Marotta, lo dicano che erano d’accordo da qualche giorno, e che hanno messo in piedi il giuoco delle parti quando Gonzalo ha accettato il trasferimento a Torino. Non c’è nulla di male, perché a 90 milioni di euro un calciatore si saluta volentieri, soprattutto se ha 28 anni e 7 mesi. È un affarone irrinunciabile, e bisogna dirlo ad alta voce, altrimenti va a finire che i tifosi, che vivono d’amore, continuano a credere che nel presunto sport vi sia spazio per sentimenti profondi e romantiche rinunce. I soggetti interessati lo dicano alla gente che il calciatore aveva da tempo un accordo con la Juventus e che il Napoli ne era al corrente e ha dovuto subirlo. Certo, fino a qualche settimana fa ci voleva la zingara per scrutarlo nella sfera di cristallo. Poi, a fine giugno, con ancora negli occhi la rovesciata del record del Pipita, tuona il fulmine a ciel sereno di Nicolas Higuain a squarciale il ciel sereno, azzurro, informandoci che il fratello non vede un futuro napoletano. Il lavoro sporco lo deve fare il procuratore di famiglia; anche per lui c’è un’appetitosa fetta di torta da tagliare e divorare. Col senno di poi, sembra un copione scritto. De Laurentiis, che può provare ad allungare il contratto nell’estate 2015, dopo una stagione  infelice dell’attaccante argentino, si fa forte dell’esorbitante clausola rescissoria, che se la fissi è perché sai che a quel prezzo, semmai qualcuno arriverà a pagartelo, ti converrà perderlo. Bisogna però rimettere a lucido il calciatore per esporlo in vetrina, ma solo la zingara, che con il patron deve avere un certo feeling, sa che Sarri, il nuovo che avanza, farà il miracolo. Rivalutata l’intera rosa, Higuain come Koulibaly, e per la punta iniziano a fioccare i goal. Alla fine sono 36 in campionato, in 35 partite, record storico in Italia, roba da pazzi. A Napoli, a quel punto, c’è un tesoro che è quarto per valore solo a quello di San Gennaro, alla Collezione Farnese e ai dipinti di Caravaggio. Ma quelli sono inalienabili. Non lo è Higuain, che mentre dice ai tifosi di stare tranquilli manda il fratello a domandare offerte in giro. Spunta la Juventus, che nella sua vetrina ha Pogba ed è disponibile a convertire il suo oro nero in pepite argentine. E qui inizia la sceneggiata. Le voci si susseguono, e Gonzalo tace. Il silenzio è parola d’ordine fino al compimento delle vicende. Strategia diversa per l’argentino, che al momento di lasciare Madrid aveva detto a chiare lettere di volerlo fare. Ma lì non era idolo, e non tramava con i rivali del Barcellona. Qui c’è una città ai suoi piedi e la rivale storica acquattata dietro l’angolo, e c’è da camminare sulle uova. Non tace De Laurentiis, che licenzia definitivamente la zingara e sbandiera ai quattro venti, dallo scranno della Lega Calcio, che la Juve non è disposta a pagare la clausola rescissoria, e che non lo farà comunque perché è società di galantuomini, così sottintendendo che l’argentino e i bianconeri hanno già un’intesa preliminare. Vero è che tra Aurelio e Andreino corre buon sangue, e allora il bianconero Marotta sorride e sta al gioco: «Col Napoli non si tratta. Storia chiusa, per ora». Già, per ora. Stupido a quel punto chi non capisce. Il patron azzurro si sposta a Dimaro e da lì lancia un messaggio che apparentemente sembra indirizzato al Pipita lontano ma che è invece un nuovo indizio per il plotone disarmato della stampa e per i tifosi che pendono dalle sue labbra: «Higuain, vuoi tu davvero sposare la Juve e tradire la curva sotto la quale andavi a cantare e saltare?». Gatta ci cova. I tifosi. poverini, si illudono, e credono che il presidente stia sventando il grande sgarbo. In realtà c’è poco da sventare, perché tutto serve a pubblicare che Higuain e la Juve sono d’accordo, e che tocca solo ai torinesi decidere se pagare o no. Il copione è studiato nei minimi particolari e, trascorso qualche giorno, qualcuno diffonde la foto di un certificato sanitario spagnolo. Higuain ha già fatto le visite mediche a Madrid alla presenza di Marotta, l’uomo del “per ora”. Per ora Higuain è abile e arruolabile in bianconero e la proprietà juventina deve solo pagare. Può rinunciare, ma il sì del calciatore è cosa nota. Higuain ha tradito, in ogni caso. Lo spiffero serve a rendere sempre più concreta la prospettiva che può traumatizzare i tifosi, a sdoganare una verità perché la gente inizi a prenderne atto, nel silenzio delle due società interessate. Ormai il dado è tratto.
Giusto prendersi il bottino della clausola rescissoria, una cifra fuori mercato per un calciatore alla soglia dei ventinove, e puntare su un attaccante da valorizzare, magari più giovane, e incastonarlo in quello che è il vero segreto del Napoli di oggi, ovvero il suo sistema di gioco, che produce palle-goal in quantità industriale per l’uomo d’area di rigore. Sarà pure il tempo di ben reinvestire i soldi, tanti, che il Napoli incasserà, perché il patron De Laurentiis è sempre più nell’occhio del ciclone e non bastano gli alti standard raggiunti per farsi apprezzare da una piazza esigente, spaccata tra pro e contro l’uomo della rinascita, complessivamente refrattaria a comprendere i limiti oggettivi di una società che ottiene comunque risultati in una depressione territoriale che allontana gli imprenditori delle nuove frontiere dell’oro.
Il vero dolore, in tutta questa vicenda, è tutto per i tifosi, che vedono Higuain passare alla concorrenza. Passerà, perché Higuain, diciamolo, non è un leader, non lo è mai stato e mai lo sarà; e mai è stato bandiera e portavoce di proclami di battaglia. Higuain è cuore River Plate, la squadra dell’aristocrazia di Buenos Aires, la Juventus d’Argentina, contrapposta al proletariato del Boca di Maradona, colui che detestò Barcellona e giurò eterna avversione al potere calcistico-industriale del settentrione d’Italia. Higuain, a Napoli, ci è finito per sbaglio e per fortuna, e ora ripara. Sarebbe andato volentieri a Torino già tre anni fa, quando il Napoli fece un’offerta migliore al Real Madrid e se lo portò a casa. Credeva di poter vincere il bomber, ma non aveva fatto i conti coi poteri forti d’Italia. Non li conosceva. Li ha verificati, toccati con mano, e ha capito che a Napoli è difficilissimo trionfare. Solo uno ci è riuscito, ma quella è tutt’altra storia. Presto Gonzalo dirà, c’è da scommeterci, di essere felice di approdare nella squadra che gli dà la possibilità di farlo. Ed è proprio qui il nocciolo della questione: ovvio che Gonzalo lasci Napoli per un bel po’ di soldi in più, e in tal senso una maglia vale più dell’altra se ti fa gonfia il conto in banca e non il petto, ma va a Torino perché si sente un perdente di successo e la Juventus gli dà la chance per dimostrare di non esserlo. Se lui a Napoli ci è finito per sbaglio e per fortuna, Diego ci è finito per destino, e ci è rimasto per amore, rinunciando a un mucchio di soldi e al suo desiderio più grande: una villa con giardino e piscina dove invitare amici e parenti, che Ferlaino gli promise nel 1984 e non gli concesse mai. Berlusconi lo colpì nel punto debole, la privacy dorata, ma in fondo el pibe poteva farne a meno, poteva restarsene nel suo appartamento posillipino di via Scipione Capece e andarsene in giro di notte pur di non dare un dolore alla sua gente. Gli restava il panorama del Golfo e la voglia di vincere per sovvertire le gerarchie, non poco per un rivoluzionario con la propensione al ribaltamento degli ordini precostituiti. Non gli occorreva cambiare squadra perché sapeva che era lui a far vincere una società, non il potere di una società a dargli la chance per farlo. Riuscì nell’impresa di ribaltare gli squilibri, e il Napoli pagò in seguito lo storico sforzo.
Higuain che passa dall’azzurro al bianconero è
una storia tipica di un calcio imperniato su interessi economici talmente grandi perché i protagonisti dello show si possano preoccupare dell’identità e della moralità. Higuain avrebbe potuto rifiutare di avvalersi della clausola e annullare così la volontà juventina, se fosse stata solo tale. De Laurentiis avrebbe potuto accontentarsi di una cifra minore dall’Atletico Madrid o dall’Arsenal pur di non lasciarlo ai rivali juventini, i quali, a loro volta, non ci hanno pensato su più di tanto a portare in bianconero il capocannoniere della Serie A. Tutti d’accordo, sulla pelle dei tifosi che oggi brucia per le ferita, vittime del Calcio degli avidi legionari, delle volgari clausole e dei disonorevoli scandali, da cancellare azzerando la concorrenza e la competizione. Quella della Juventus, a dieci anni da Calciopoli, è una dispotica manifestazione di potere che nasconde una volgare sete di rivalsa sul Calcio italiano. Tornata a dominare e piegate le rilavi storiche, c’è da strappare alle più immediate concorrenti italiane del momento i pezzi pregiati (Higuain e Pjanic) e provare a lasciar loro solo la lotta per le briciole. È il progetto di Andrea Agnelli che sta diventando realtà: una Juve incontrastabile che infili sei scudetti consecutivi almeno, per essere il presidente dell’unica società italiana ad esservi riuscita e sottomettere non solo la storia dell’Inter e del Milan ma anche quella di nonno Edoardo, zio Gianni e papà Umberto. E provare a mettere sulla torta la ciliegiona della Champions League. Sarebbe uno spot internazionale per Fiat-FCA, in difficoltà nella gestione sportiva della Ferrari affidata, con pochi risultati, nientepopodimeno che a Marchionne. C’è in ballo il prestigio familiare nel precario equilibrio tra gli Agnelli, che gestiscono la Juve, e gli Elkann, che gestiscono la Ferrari, rami ereditari della monarchia di Villar Perosa. Higuain ha dato il suo assenso a partecipare a tal progetto, ma la scelta non addolori nessuno. In fin dei conti, restando in Italia ha deciso di venire a giocare al San Paolo da avversario. Sarà un bel giorno. Per il Napoli, sia chiaro, è un grande affare, e gli affari fanno la fortuna dei club moderni. A patto che li si faccia fruttare a dovere, e il club partenopeo sa farlo. Chi invece ancora crede al Calcio dei sentimenti inizi a ripensare al suo modo di viverlo, e non si strappi i capelli ma lasci che sia. E lasci perdere gli idoli a pagamento, li ignori pure in strada, esattamente come loro ignorano la gente. Passano e vanno, mentre il Napoli è sempre lì, da 94 anni, di cui i 90 che erroneamente si appresta a festeggiare sono quelli in cui si è potuto battere contro i poteri forti. Se una buona volta capissimo perché la data del 1926 è un falso storico capiremmo come gira il mondo del Calcio italiano, oggi come allora.

80 volte auguri a Lino Banfi, da Canosa a Roma passando per Napoli

Pasquale Zagaria, in arte Lino Banfi, spegne 80 candeline, dopo oltre cinquanta di carriera nel mondo dello spettacolo. Un viaggio cominciato con l’abbandono del seminario nella natìa Puglia e l’approdo a Napoli, all’avanspettacolo con il nome d’arte di Lino Zaga, prontamente modificato su consiglio di Totò. Furono anni di durissima gavetta, di povertà profonda ma anche di conoscenza con la solidarietà partenopea, che l’attore ricorda così:

“Il mio nome d’arte lo devo soprattutto a Totò. Andai a trovarlo e mi chiese come mi chiamassi. «Lino Zaga, principe. Lino diminitivo del mio nome, Pasquale, e Zaga diminutivo del mio cognome, Zagaria». Lui mi disse di cambiare perché il diminutivo del cognome portava male. Andai dal mio impresario a dirglielo e questi, che faceva anche l’insegnante di scuola, aprì un registro di classe che aveva a portata di mano e prese il primo cognome che gli capitò sotto gli occhi: Aureliano Banfi. Lino Banfi… suonava bene.
Napoli è una città alla quale sono legati tanti miei ricordi di gioventù. Lì ebbi le prime scritture con la compagnia di Arturo Vetrani, che conobbi quando passò per Canosa e con cui partii per muovere i miei primi passi nel mondo del varietà. Ricordo la Galleria Umberto I, ritrovo di musicisti e attori alla continua ricerca di scritture quando andava bene e di pranzi e cene a scrocco in periodi di magra. Giorni bellissimi, a ricordarli adesso, ma pieni di difficoltà a viverli allora. Non ho mai dimenticato quel posteggiatore abusivo che una sera di Natale, vedendomi ciondolare senza meta attorno alla Galleria, indeciso se utilizzare i pochi spicci che avevo per mangiare o per dormire, che non bastavano, mi portò a casa sua, mi fece mangiare con la sua numerosa famiglia, mi fece dormire e la mattina dopo mi diede anche un po’ di soldi per tornare a casa. A quell’uomo, come ad altri che, nel corso dei difficili anni all’inizio della mia carriera, mi hanno aiutato senza avere niente in cambio, va senz’altro la mia riconoscenza e il merito di avermi insegnato il valore della solidarietà.
A Napoli è legata anche la mia iniziazione sessuale. Il giorno in cui compii 18 anni, alle nove del mattino, mi recai alla storica “casa” di via Sergente Maggiore, finalmente in regola con l’età per usufruire dei “servizi” delle gentili signorine che l’abitavano. Era troppo presto e la casa chiusa era, appunto, chiusa e, quando suonai, una signora mi disse di tornare più tardi. Io rimasi lì, deciso ad attendere l’orario di apertura. La signora si accorse che ero rimasto e mi chiese perché.
«Voglio entrare – dissi – perché oggi sono diventato maggiorenne». La donna mi fece entrare fuori orario e cominciò a chiamare «Maria… Giovanna… Carmela… Venite! Ce sta ‘nu guaglione che fa 18 anni oggi». Mi festeggiarono come volevo, tutte, e non mi fecero pagare!”

video di Marco Rossano al Napoli Film festival del 2011 (Castel Sant’Elmo)

105 anni di Alfa Romeo, cuore sportivo e cervello napoletano

Angelo Forgione – Era il 24 giugno 1910 e a Milano nasceva l’A.L.F.A., acronimo di “Anonima Lombarda Fabbrica Automobili”. Sono trascorsi 105 anni da quel giorno, anche se in realtà gli stabilimenti erano sorti nel 1906 sotto l’insegna della Società Anonima Italiana Darracq (SAID), sede produttiva italiana della casa francese di Alexandre Darracq. L’imprenditore transalpino aveva scelto Napoli come primo insediamento ma uno dei soci italiani, il milanese Ugo Stella, impose Portello, alle porte di Milano, in prossimità dei potenziali clienti e nel “triangolo industriale”, più vicino alla Francia, là dove si erano iniziate a concentrare l’offerta di lavoro e la conseguente immigrazione dalle altre zone del Paese. Nel 1909, Stella e i suoi consoci italiani fondarono una nuova società denominata A.L.F.A., inizialmente ancora in collaborazione con Darracq, estromesso un anno dopo, allorché iniziò la produzione del primo modello tutto milanese, la 24 HP. Ma l’azienda lombarda non avrebbe avuto lunga vita se non fosse intervenuto l’ingegnere napoletano Nicola Romeo da Sant’Antimo a salvarla dal fallimento nel 1915, quando ne fu nominato direttore dalla nuova proprietà, la Banca Italiana di Sconto, per poi diventare azionista nel 1918. Così l’A.L.F.A. divenne l’Alfa Romeo (clicca qui).
A 23 anni il giovane Nicola, classe 1876, si era laureato in ingegneria meccanica al Politecnico di Napoli (oggi Ignegneria), e se ne era andato a Liegi, in Belgio, per laurearsi anche in ingegneria elettromeccanica. Era rientrato che ne aveva 26, iniziando l’attività di rappresentanza per l’azienda britannica Blackwell, specializzata nella realizzazione di tranvie elettriche, introducendo in Italia dei sistemi all’avanguardia d’importazione. Nel 1906 si era messo in proprio e nel 1911 aveva fondato a Milano la società “Ing. Nicola Romeo & C.” per la produzione di macchinari per attività estrattiva e commercializzazione di materiali ferroviari provenienti dal Regno Unito e dagli USA. Grazie ai suoi contatti con l’estero, aveva ottenuto la licenza per la costruzione di camioncini di trasporto truppe militari dai vecchi “inquilini” di Portello della Darracq. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, l’ingegnere aveva offerto allo Stato italiano i mezzi militari francesi a un prezzo davvero vantaggioso ma gli fu era stato detto che l’esercito acquistava solo prodotto nazionale, dove per nazionale si intendeva ovviamente del Nord-Italia, quello dell’industria assistita e privilegiata dalle scelte della nazione unita. Fiat e Ansaldo prosperavano grazie alle commesse e agli aiuti pubblici mentre al Sud l’apparato esistente vedeva il precoce tramonto. Per questo il geniale ingegnere napoletano aveva accettato di rilevare la fallimentare A.L.F.A., incapace di convertire la produzione per scopi militari.
Finita la guerra, le difficoltà dovute alla riconversione per la produzione civile furono superate con l’aiuto del “Consorzio sovvenzioni sui valori industriali” e la prima vera produzione in serie di automobili col marchio Alfa Romeo fu nel 1919, in concorrenza con la Fiat. La qualità era decisamente alta, apprezzata pure da Henry Ford, l’inventore della catena di montaggio, il quale, per esternare la sua ammirazione, dichiarò: «Quando vedo un’Alfa Romeo mi tolgo il cappello».
pomiglianoIl temerario ingegner Romeo cercò di fare impresa anche nel suo territorio di origine e nel 1926, a Pomigliano d’Arco, mise su la O.F.M., Officine Ferroviarie Meridionali, una fabbrica dove avviò la produzione di trattori, locomotive, aeroplani e idrovolanti militari e civili. Ma il crollo di Wall Street e la conseguente recessione mondiale portarono all’accumulo di debiti enormi sia per la O.F.M. (la Circumvesuviana ordinò stranamente grandi quantitativi alle officine di Reggio Emilia invece che a quelle di Pomigliano, come avvenuto in passato) che per l’Alfa Romeo, azienda senza una rete di concessionari che vendeva auto in un’italia senza autostrade e con la forte concorrenza della privilegiata Fiat. In soccorso delle aziende e delle banche a esse vincolate accorse Benito Mussolini, che, per proteggere l’economia del Nord Italia, aprì un paracadute statale con la nuova Sezione speciale autonoma del Consorzio per Sovvenzioni sui Valori Industriali, con cui, per la prima volta, un ente pubblico rilevò azioni delle imprese industriali in difficoltà, tra cui l’Alfa Romeo, colpita dal tracollo della Banca Italiana di Sconto e rilevata dalla Banca Nazionale di Credito. Nicola Romeo fu affiancato da Pasquale Gallo, uomo di fiducia della nuova maggioranza, con cui entrò in conflitto, per essere poi estromesso nel 1928 e costretto a dedicarsi, negli ultimi anni della sua vita, allo sviluppo di alcune piccole linee ferroviarie nel Meridione di sua proprietà.
Nel 1933 il regime fascista creò l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, col compito di finanziare il rilancio e di acquistare dagli istituti di credito le azioni delle imprese in difficoltà. Fu fatto a prezzi decisamente più alti dei valori effettivi, in modo da dare ossigeno sia alle banche che alle aziende. Lo Stato si accollò la crisi generale e la stessa Alfa Romeo diventò statale, cessando di rappresentare un serio pericolo per la Fiat. Nicola Romeo perse la sua creatura e morì logorato nel 1938 a Magreglio, sul lago di Como. Nonostante le sue automobili dal carattere sportivo fossero preferite alle più “semplici” Fiat dal Duce, gli interessi allacciati dal Regime fascista e da Giovanni Agnelli Senior erano talmente grandi che l’azienda milanese, anche se ormai di proprietà dello Stato, fu spodestata in alcune grandi forniture statali a beneficio dell’azienda torinese. Dopo la Seconda guerra mondiale l’indebitamento dell’Alfa Romeo divenne sempre più grave. Negli anni Ottanta fu consegnata proprio alla Fiat dal Governo Craxi e dall’IRI, guidato da Romano Prodi, il quale, tra le polemiche, ne impedì l’acquisto da parte della Ford, auspicato dagli operai meridionali ma tanto temuto da Gianni Agnelli junior (clicca qui). Storia dell’industria italiana, storia d’Italia.

Succo d’arancia nella Fanta. E Napoli creò l’aranciata

Angelo Forgione – Sbirciando su Instagram mi è capitato di vedere una simpatica immagine pubblicitaria in cui una Sprite, una Coca-Cola Zero e una Coca-Cola classica festeggiano una Fanta. Tanti auguri a Fanta Aranciata. Che bello festeggiare con gli amici di sempre”, si legge nella descrizione del visual. La più famosa delle aranciate nel mondo festeggia un anniversario la cui origine ci catapulta nella Napoli del dopoguerra, al culmine di una bizzarra genesi della bevanda frizzante, che nacque proprio in piena Seconda Guerra Mondiale, quando la Germania di Hitler vietò l’importazione della Coca-Cola made in USA. Era il 1941, e Max Keith, direttore della principale società di imbottigliamento tedesco della bevanda nera a base di caffeina, trovò l’alternativa con quello che riuscì a rimediare per una nuova formula da realizzare sul territorio e salvare così la fetta di mercato che si era conquistato. Sottoprodotti della produzione del formaggio, del sidro di mela, della marmellata e quel poco di frutta che si riusciva a reperire in Italia. Ne venne fuori uno strano gusto e il nome Fanta, abbreviazione della parola tedesca fantasie. Ci voleva infatti molta immaginazione per sentire il sapore della frutta in quella bevanda frizzante “al gusto arancia”, molto vago, completamente diverso da quello che conosciamo.
Finita la guerra, il partito comunista italiano spinse per lanciare sul mercato italiano la Fanta, in modo da ostacolare la Coke americana. L’imposta di consumo al 25% per la Coca e al 10% per tutte le altre bevande gassate andava proprio in quella direzione. Negli stabilimenti napoletani della SNIBEG (Società Napoletana Imbottigliamento Bevande Gassate, oggi a Marcianise – CE) fu avviata la produzione della Fanta in versione tedesca, che però non piacque troppo agli italiani. Perciò, il conte napoletano Ermelino Matarazzo, impresario dalla Società, sperimentò una formula fornitagli dalla Marchesa Bosurigi, sua amica e titolare di una industria di succhi di frutta a Catania. All’ombra del Vesuvio fu sperimentato l’uso del succo naturale di arancia, dando la spinta definitiva all’affermazione nel mondo della bevanda, ora “aranciata” e non più semplice bevanda al “fantasioso” gusto arancia. A tal punto che nel 1958 proprio The Coca-Cola Company ne acquistò i diritti, decidendo di puntarvi per trainare la Coca-Cola sul mercato europeo.
Ed è proprio la versione napoletana, quella definitiva, ad essere festeggiata in questi giorni. 29 aprile 1955, questa la data del primo imbottigliamento. 60 anni di una leggendaria bevanda “made in Naples”, anche se il nome nacque una quindicina di anni prima.

Forgione – Borrelli, vivace contraddittorio sulla “margherita”

fiordimargherita_8Angelo Forgione – La pizzeria Sorbillo ha festeggiato 125 anni della pizza “margherita”, una ricorrenza lanciata da Coldiretti, la quale ha voluto richiamare l’attenzione sulla sofisticazione dell’alimento più famoso al mondo, la pizza, simbolo del made in Italy a tavola, servita in due terzi delle pizzerie italiane con prodotti stranieri.
A la Radiazza, la popolare trasmissione radiofonica di Gianni Simioli sulle frequenze di Radio Marte, ho contestato a Francesco Borrelli, collega giornalista, la compartecipazione al falso storico sull’età della “margherita”, su fonti storiche documentali e normative continuamente ignorate. La lettera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, che nel 1889 convocò il cuoco Raffaele Esposito al Real Palazzo di Capodimonte perché preparasse per Sua Maestà la Regina Margherita le sue famose pizze, sancisce l’italianizzazione della pizza “margherita”, che si faceva già da tempo a Napoli, e fu offerta alla sovrana sabauda per i suoi colori. L’operazione “margherita” di Raffaele Esposito servì a sdoganare l’alimento pizza in Italia prima e nel mondo poi, ma il parto della pizza con mozzarella, pomodoro e basilico è lontano già due secoli.

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