“Sud come il Nord nel 2020”, si diceva nel 1972

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Angelo ForgioneFa “sorridere” la riesumazione di un articolo del 1972 sul Corriere della Sera che pubblicava la previsione riportata in un rapporto del Ministero del Bilancio circa la chiusura del divario fra Nord e Sud del Paese nel 2020. Era l’Italia da poco uscita dal boom economico, e da allora il divario non solo non è stato minimamente ridotto ma è cresciuto notevolmente. I diplomati ed i laureati continuano ad emigrare; il reddito medio pro-capite al Nord è quasi il doppio di quello del Sud; il tasso di disoccupazione in alcune aree del Mezzogiorno supera il 18%, mentre in tante città settentrionali è meno del 5%.
Quarant’anni dopo la previsione del 1972, nel 2012, la più attendibile Svimez ci ha invece avvisato tra le righe di un suo rapporto che il PIL pro capite del Meridione d’Italia, nella migliore delle ipotesi, non potrà raggiungere i livelli del resto del Paese prima di almeno quattrocento anni.

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Saranno di più, perché il sottosviluppo del Meridione è programmato, è prodotto delle scelte di politica economica fatte dalle classi dirigenti che hanno governato la Nazione dalla sua nascita. Il sistema italiano di potere che lega politica ed alta finanza continua a foraggiare la classe clientelare del Paese attraverso una pressione fiscale altissima che distrugge il tessuto economico nazionale, lasciando al Nord la maggior quota della ricchezza prodotta e le migliori infrastrutture, così tagliando fuori mercato il Sud, scientificamente assistito per diseducarlo alla produttività e strozzarne l’autonomia. Meglio dargli sussidi, più funzionali ad accuse e lamenti, che infrastrutture e fabbriche, più utili alla produzione in concorrenza. Questa realtà è stata fotografata anche della Banca d’Italia, e parla di un modello di sviluppo italiano a trazione settentrionale del tutto fallimentare per via dell’indirizzamento della maggior quota di reddito e occupazione al Nord e dell’ostruzione dello sviluppo del Sud, destinato ad essere un mercato di sbocco per i prodotti delle aziende lombarde, piemontesi, venete ed emiliane, e a rappresentare un bacino elettorale per quelle forze politiche che intendono mantenere il dualismo e che oggi con l’autonomia differenziata vorrebbero addirittura incrementare. Il denaro che dalle aree ricche è trasferito a quelle più povere è una forma di risarcimento, ampiamente recuperabile, per l’impedimento alla competitività generale. Indirettamente, i trasferimenti verso il Sud hanno sostenuto e continuano a sostenere lo sviluppo economico della parte più avanzata del Paese.

Per concludere, ricordo ancora una volta quel che dice l’Articolo 3 della Costituzione italiana, datata 1947:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di condizioni personali e sociali, ed è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Ci troviamo evidentemente di fronte al tradimento di uno dei principi fondamentali della Repubblica italiana, che non ha in alcun modo riparato ai danni del precedente periodo monarchico, e non ha alcuna intenzione di farlo.

Buon 2020, meridionali!

Come i meridionali sono diventati juventini

Angelo Forgione Il calcio è una straordinario termostato sociale, capace di regolare la temperatura del popolo. I potentati economici l’hanno sempre usato, sin dal principio, per ingrandire i loro affari, accrescere il proprio consenso e sedare le proteste operaie. In Italia, il binomio Juventus-Fiat ha sempre rivestisto significati particolari, come, ad esempio, negli anni del “miracolo economico”, quando migliaia di meridionali salirono a Torino per produrre automobili. La storia dei compressori Fiat per frigoriferi con cui fu acquistato Pietro Anastasi, un vero e proprio blitz per strapparlo di forza all’Inter, è solo la punta dell’iceberg di una strategia industriale attuata dalla famiglia Agnelli per far diventare juventini i meridionali.
Con la chiusura delle frontiere dopo la disfatta della Nazionale italiana contro la Corea nel 1966, la Serie A parlò italiano dal 1967 al 1980. La Juventus iniziò a pescare al Sud, da dove provenivano gli operai che ingrossavano la comunità operaia di Torino. Alla fine degli anni Sessanta, il capoluogo piemontese era diventato la terza più grande città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo. I calciatori del Sud divennero allora fondamentali per la strategia di fidelizzazione del tifo.
Furono proprio i meridionali di Torino, quelli che stavano costruendo le fortune economiche degli Agnelli, a iniziare a tifare in massa per la squadra del padrone, trasmettendo la juventinità ai parenti rimasti al Sud, sui quali faceva facilmente presa tutto ciò che gravitava attorno al miraggio della ricchezza e del successo settentrionale. Il Torino divenne la squadra dei torinesi, la Juventus quella dei lavoratori provenienti dal meridione. La squadra bianconera dominò gli anni Settanta, ingrandendo la sua tifoseria con nuove generazioni di fedelissimi immigrati – figli e parenti – che si identificarono con le vittorie della “zebra”, sul cui blocco fu costruita la Nazionale che vinse i Mondiali del 1982. La Juventus si rese così la squadra d’Italia, e il suo nome, che non era quello di una città e non imponeva il cliché del campanile, agevolò il processo di diffusione della sua popolarità.
Oggi, la gran massa di tifosi meridionali che sostiene la Juventus deriva da quell’eredità familiare e dalla fascinazione del potere esercita in tutti gli abitanti delle province del calcio, cui riesce facile
poter dire la propria scudetti alla mano.

Maggiori approfondimenti su Dov’è la Vittoria (Magenes)

Bergoglio: «quest’economia uccide». E Antonio Genovesi ascolta.

Il Papa, contro l’economia imperante, guarda inconsapevolmente a Napoli

Angelo Forgione – Papa Francesco si è espresso sull’attuale sistema economico e capitalistico, ammonendo la politica che  “la violenza nasce dall’esclusione sociale”. Bergoglio ha messo nero su bianco con la sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium in cui ha affrontantato diverse tematiche legate alle questioni politiche, etico-morali e spirituali, e anche economico-sociali, chiedendo un’etica diversa:
“QUESTA ECONOMIA UCCIDE”. – “Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. Oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e della inequità. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. È una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, di un mercato divinizzato dove regnano speculazione finanziaria, corruzione ramificata, evasione fiscale egoista. Il denaro deve servire e non governare”.
Bergoglio, inconsapevolmente, non ha fatto altro che richiedere la riscoperta dell’Economia Civile di Antonio Genovesi, quella che può salvare l’Occidente, e di abbandonare l’Economia Politica di Adam Smith, il paradigma che da più di due secoli ha assoggettato i poteri tradizionali alle banche. L’economia dev’essere civile, cioè considerare il popolo come assegnatario di una parte della ricchezza sociale. Se non fa questo diventa politica, ossia incivile, perché non crea posti di lavoro, non rispetta i lavoratori, non protegge l’ambiente, non migliora i beni e non sviluppa i servizi.
(per approfondimenti sull’argomento, rimando al mio libro Made in Naples)