Il ruolo della Politica nel trasferimento di Maradona al Napoli

Angelo Forgione Estate 1984: Maradona dal Barcellona al Napoli. La trattativa del secolo, la più impensabile della storia del calcio. Il club azzurro, quantunque sodalizio storico del calcio italiano, non aveva vinto sostanzialmente nulla e aveva appena evitato la retrocessione in Serie B. In pochissimi credettero che il più cristallino dei talenti del calcio mondiale potesse lasciare il ricco Barcellona per calarsi nell’anonimo Napoli di Ferlaino, che fin lì aveva oculatamente badato a tenere in ordine il bilancio sociale.

Quasi tutti attribuiscono erroneamente il merito di quell’operazione impossibile proprio a Corrado Farlaino, che in realtà aveva già scartato Maradona nel 1978, quando Gianni Di Marzio glielo segnalò e gli consigliò di parcheggiarlo in Svizzera in attesa delle riapertura delle frontiere, prevista in Serie A per il 1980. Nell’estate del 1984, Pierpaolo Marino seppe della rottura tra Maradona e il Barcellona e informò Giampiero Boniperti, che, appagato dal rendimento in bianconero di Platini, rispose che Dieguito, con quel fisico, non sarebbe arrivato lontano, e rifiutò di trattare. E allora Marino avvisò i dirigenti partenopei Antonio Juliano e Dino Celentano. Furono loro a credere davvero di riuscire a portare Maradona a Napoli. Ferlaino, invece, non credeva in quel sogno e trattava con l’Atletico Madrid per prendere il messicano Hugo Sanchez, anche perché l’argentino era costosissimo e il Napoli non aveva di certo i soldi richiesti dal Barcellona. Ma i tifosi napoletani, saputo della trattativa, vollero solo Maradona, e lo volle soprattutto la politica nazionale, in un periodo in cui la Campania esprimeva Ciriaco De Mita, Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, Carmelo Conte, Giulio Di Donato, Vincenzo Scotti e altri uomini nei palazzi romani. Nel Consiglio di Amministrazione del Napoli di Ferlaino figuravano i democristiani Clemente Mastella, Alfredo Vito e Guido D’Angelo, rispettivamente in quota De Mita, Gava e Cirino Pomicino; uno per ogni corrente della Democrazia Cristiana.

Juliano e Celentano si piazzarono a Barcellona per due settimane, convincendo Ferlaino a trovare il modo per far uscire in qualche maniera i soldi necessari a pagare Maradona al club catalano. Fu proprio Scotti, da sindaco, sollecitato da Pomicino e Gava, a fare il “miracolo”, ottenendo la copertura finanziaria dell’operazione dal Banco di Napoli, negli ultimi anni di autonomia dell’antichissimo istituto partenopeo, diretto a quel tempo dal potente banchiere di nomina democristiana Ferdinando Ventriglia. Qualcosa uscì anche dal Banco di Roma, del Banco di Santo Spirito e del Monte dei Paschi di Siena. Per la politica romana-napoletana, quel fuoriclasse rappresentava l’occasione di dare il necessario trastullo ai napoletani, piegati dal terremoto, dalla cassa integrazione nelle acciaierie di Bagnoli, dalla disoccupazione e dall’espansione camorristica. Le tensioni sociali erano preoccupanti, e Maradona contribuì enormemente a calmarle.Il Napoli vinse gli scudetti nel momento più critico del secondo Novecento per Napoli. Potere del calcio.

per approfondimenti: Dov’è la Vittoria (A. Forgione – Magenes)

Come i meridionali sono diventati juventini

Angelo Forgione Il calcio è una straordinario termostato sociale, capace di regolare la temperatura del popolo. I potentati economici l’hanno sempre usato, sin dal principio, per ingrandire i loro affari, accrescere il proprio consenso e sedare le proteste operaie. In Italia, il binomio Juventus-Fiat ha sempre rivestisto significati particolari, come, ad esempio, negli anni del “miracolo economico”, quando migliaia di meridionali salirono a Torino per produrre automobili. La storia dei compressori Fiat per frigoriferi con cui fu acquistato Pietro Anastasi, un vero e proprio blitz per strapparlo di forza all’Inter, è solo la punta dell’iceberg di una strategia industriale attuata dalla famiglia Agnelli per far diventare juventini i meridionali.
Con la chiusura delle frontiere dopo la disfatta della Nazionale italiana contro la Corea nel 1966, la Serie A parlò italiano dal 1967 al 1980. La Juventus iniziò a pescare al Sud, da dove provenivano gli operai che ingrossavano la comunità operaia di Torino. Alla fine degli anni Sessanta, il capoluogo piemontese era diventato la terza più grande città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo. I calciatori del Sud divennero allora fondamentali per la strategia di fidelizzazione del tifo.
Furono proprio i meridionali di Torino, quelli che stavano costruendo le fortune economiche degli Agnelli, a iniziare a tifare in massa per la squadra del padrone, trasmettendo la juventinità ai parenti rimasti al Sud, sui quali faceva facilmente presa tutto ciò che gravitava attorno al miraggio della ricchezza e del successo settentrionale. Il Torino divenne la squadra dei torinesi, la Juventus quella dei lavoratori provenienti dal meridione. La squadra bianconera dominò gli anni Settanta, ingrandendo la sua tifoseria con nuove generazioni di fedelissimi immigrati – figli e parenti – che si identificarono con le vittorie della “zebra”, sul cui blocco fu costruita la Nazionale che vinse i Mondiali del 1982. La Juventus si rese così la squadra d’Italia, e il suo nome, che non era quello di una città e non imponeva il cliché del campanile, agevolò il processo di diffusione della sua popolarità.
Oggi, la gran massa di tifosi meridionali che sostiene la Juventus deriva da quell’eredità familiare e dalla fascinazione del potere esercita in tutti gli abitanti delle province del calcio, cui riesce facile
poter dire la propria scudetti alla mano.

Maggiori approfondimenti su Dov’è la Vittoria (Magenes)

10 anni di De Laurentiis, l’uomo giusto per il Napoli

la decade dell’uomo che ha dato solidità e valore al club azzurro

Angelo Forgione La sera del 26 luglio 2004 il “San Paolo” di Napoli era gremito da quarantamila persone in ansia, e non si giocava alcuna partita. Era semplicemente l’adunata di “Orgoglio Partenopeo”, indetta dai tifosi delle curve e cavalcata da Luciano Gaucci per cercare il consenso della gente nella sua scalata all’esanime Società Sportiva Calcio Napoli, finita in tribunale sotto istanza di fallimento per un’ottantina di milioni di euro di debiti. Il 2 agosto la vecchia società si spense per sentenza della settima sezione falimentare del Tribunale Cvile di Napoli, condannata a ripartire dalla Serie C con una nuova proprietà. Alla curatela fallimentare pervenirono sette offerte: dopo quella iniziale della Napoli Sportiva di Gaucci, anche i concreti propositi dell’udinese Pozzo, del napoletano senese Paolo De Luca, dell`Azzurra Calcio capeggiata da Luis Vinicio, del gruppo italo-americano Caretti Family Group, della Napoli Sport e, ultima in ordine di tempo, quella di Aurelio De Laurentiis, già in precedenza interessato, senza successo, all`acquisto del club partenopeo. Offerta vincente e blitz riuscito in extremis. Il 6 settembre 2004, Aurelio De Laurentiis divenne presidente del “Napoli Soccer”, denominazione della nenoata società che in seguito avrebbe riacquistato il nome e i trofei principali.
È banale accostare la decade di De Laurentiis
a un film, anche perché la storia è ancora in divenire e non se ne conosce il finale. Aurelio, intanto, ha stimolato l’appettito ai tifosi, che spesso dimenticano come dieci anni fa il Napoli, pur essendo la quarta società italiana per bacino d’utenza, fosse scomparso dal panorama nazionale, e non per il solo fallimento ma per i risultati delle stagioni precedenti: cinque campionati di Serie B e uno solo mediocre di A. Il declassato sodalizio azzurro, non troppo lontano dai trionfi maradoniani, si era standardizzato in cadetteria. Insomma, Calcio minore. Il Napoli di oggi è invece fedele alle sue potenzialità, è solidamente ai vertici del Football nazionale, è l’unico top-team che non dipende dalle banche, vince qualche trofeo nazionale e si fa onore nell’Europa maggiore in cui l’Italia è marginale. Ma l’appetito annebbia la vista, e il tifoso più affamato vuole lo scudetto, non riesce a vedere il progetto vincente, non arriva a comprendere che negli sport di squadra ciò che fa la differenza sono le capacità manageriali dei dirigenti, le competenze dello staff tecnico, la preparazione dell’equipe medica e, in primo luogo, le risorse economiche a disposizione e la peculiarità dell’area geografica in cui le società sportive sono ubicate.
Aurelio De Laurentiis conosceva bene la realtà in cui andava a misurarsi. Dicevano che non capisse nulla di Calcio, e lo diceva anche lui, ma conosceva l’imprenditoria e sapeva che il Napoli era l’unica squadra della terza città d’Italia, mentre le squadre di Roma, Milano e Torino si dividevano i loro territori. Sapeva anche che a questo vantaggio si opponeva lo svantaggio territoriale di un club ubicato in una città decisamente più povera e disorganizzata delle altre tre, quella Napoli in cui lo stadio era già inadeguato e il centro sportivo era un campo di patate; quella in cui, per sua stessa azzardata ammissione, «funziona solo il Napoli». E infatti nessun imprenditore locale aveva saputo e voluto salvarlo dalla cattiva gestione di Ferlaino, solo portata al baratro dal romagnolo-bresciano Corbelli e da Naldi. Per comprendere l’importanza delle risorse territoriali è sufficiente raffrontare il sistema sportivo all’europea, finalizzato alla vittoria, e quello statunitense, non rivolto all’affermazione massima della performance sportiva, che è solo uno dei mezzi per ottenere il vero obiettivo da conseguire: il profitto aziendale. Le risorse territoriali sono il motivo per cui nei principali campionati nordamericani di Basket, American Football, Baseball e Hockey, là dove il vincolo tra i team e il territorio è molto meno forte che in Europa, capita non raramente che i proprietari decidano il trasferimento delle loro squadre in aree metropolitane diverse, in base a precise opportunità economiche di cui avvantaggiarsi, in primo luogo i bacini d’utenza. Lì vige una sistema differente, in cui non è previsto il meccanismo gerarchico delle categorie sportive regolate da promozioni e retrocessioni. E perciò le squadre nordamericane sono dette “franchigie”, dal termine inglese franchise, col quale si indica l’insieme delle attività commerciali di un’azienda autorizzata a operare in un determinato settore. Nel Calcio europeo non è solo impensabile ma anche impossibile che il Milan si trasferisca a Napoli e viceversa; i club europei sono radicati nel territorio d’origine e non hanno alcuna esclusiva anti-concorrenza, potendone insistere nella stessa città più d’uno a competere nella stessa categoria. Le diverse economie dei territori in cui sono nati e operano è decisiva nei destini della loro vita sportiva, agevolata o penalizzata a seconda che si trovino in una zona opulenta o depressa. Nel campionato italiano la provenienza territoriale è ancor più determinante che negli altri tornei europei, influente nel raffronto espressivo delle economie delle due Italie separate in cui operano i club, i quali restano comunque aziende.
Quando Aurelio De Laurentiis prese il Napoli non masticava Calcio ma sapeva bene che era una squadra con un grosso seguito in un territorio penalizzato. Si mise in testa di equilibrare i pro e i contro, di far quadrare i conti e mettere a frutto un’azienda dalle ottime potenzialità. Non era una missione umanitaria, certo, perché il Napoli gli garantiva visibilità e notorietà, aprendogli altre porte nei palazzi importanti. Da buon imprenditore, aveva la pazienza giusta per ripartire da zero e far crescere lentamente la neonata creatura. La crescita prosegue di anno in anno, quasi impercettibilmente, e Aurelio continua ad avere la stessa pazienza di allora, con operazioni mirate, riequlibri e innesti migliorativi, proprio come fanno i proprietari delle franchigie americane, e senza la frequente schizofrenia europea. Non ha ancora vinto lo scudetto del pallone ma vince da tempo quello dei bilanci, che non è esattamente quello dei fatturati. Juventus soprattutto, ma anche Milan e Inter sono lontane, e lo resteranno. Ai tifosi tutto questo non interessa. «Noi vogliamo vincere», dicono, e il presidente scende anche dall’autovettura per saltare addosso a chi glielo sbatte in faccia. Lui, Aurelio il visionario, si innervosisce perché ha da tempo pronunciato la formula magica per far quadrare tutto, e prima o poi la magia regalerà ciò che la gente desidera, ciò che a Sud, Roma ministeriale a parte, è sceso solo tre volte, dico tre. Anche questo a De Laurentiis non sfuggiva in quell’agosto di dieci anni fa.
A chi scrive, invece, non sfugge che Aurelio e il suo Napoli non sono mai stati implicati nei numerosi scandali che dominano il retropalco oscuro del Calcio italiano. Il popolo sportivo di Napoli, la sera del 26 luglio 2004, si aggrappò ad una “rotonda” figura che annunciò di aver preso casa a Posilllipo e di voler restare per sempre a Napoli, ma di lì a poco si sarebbe rifugiato a Santo Domingo per sfuggire all’arresto per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta del Perugia, poi patteggiando tre anni di pena indultata. Dunque, chi ha occhi per guardar lontano non li chiuda per sognare uno scudetto che non riscatta una città. È così che un popolo sportivo diventa maturo, aiuta se stesso e dà i giusti connotati al vero orgoglio partenopeo.
Auguri Aurelio, Auguri Napoli, grande esempio di managerialità sportiva.

La festa di Carditello, simbolo del riscatto campano

foto Repubblica.it

Angelo Forgione – Centinaia di persone hanno affollato la Real Tenuta di Carditello per l’incontro di festeggiamento dell’acquisto del monumento da parte della Sga, che poi la girerà al MiBAC.
Il ministro Bray si è recato prima presso l’azienda agricola di Tommaso Cestrone, a pochi metri dal sito monumentale, per abbracciare la vedova e i figli. Poi è entrato nei recinti di Carditello e ha annunciato che sarà costituita una fondazione di gestione con gli enti locali e i ministeri dell’Ambiente e dell’Agricoltura e saranno messi presto a disposizione tre milioni di euro per un primissimo restauro. Carditello sarà luogo di bellezza, sarà museo e sarà anche azienda agricola ed osservatorio per la biodiversità, luogo di conservazione di una memoria che tutti devono conoscere.
Alessandro Manna, a nome del forum di tutte le associazioni di Agenda 21, ha ringraziato il ministro Bray, che, travolto e visibilmente impressionato da tanto calore e amore per il territorio, ha ringraziato Tommaso e tutti quelli che si sono battutti per sensibilizzare su un problema che l’Italia non conosceva, lanciando un messaggio di affetto a tutta la Campania: «Il mio sogno è che la vostra terra, la Campania, dia un segnale a tutto il Paese, nonostante la camorra. Tutti insieme dobbiamo dimostrare che vogliamo bene a Carditello, alla Reggia di Caserta, a Pompei. Qui possono venire tantissimi turisti ed è questa la ricchezza del futuro. Così i nostri figli potranno ritrovare le opportunità di lavoro che non ci sono. Insieme ce la possiamo fare».
Carditello è una bella sfida, per la Campania e per l’Italia intera. Dovrà diventerare un simbolo, restituendolo al circuito delle regge borboniche e degli altri siti del Casertano, per poi farne patrimonio dell’Umanità per tutto ciò che significa. Ieri, la Real Tenuta era assolata e bellissima. L’anima non sono riusciti a portargliela via.

nel reportage di Livio TV di F. Spinelli un ricordo finale di Tommaso Cestrone

tratto da Voce per tutti

Massimo Bray e l’intelligenza dei Borbone di Napoli

Angelo Forgione – È stato bollato come il “Re lazzarone” perché non gli piaceva studiare e preferiva cacciare e fare l’amore. Però in città creò il primo museo d’Europa, togliendo la proprietà privata delle collezioni di famiglia (reperti vesuviani e collezione farnesiana) per renderle pubbliche e donarle alla città. E fuori città sfruttò la forza motrice generata dell’Acquedotto Carolino per far fiorire tante iniziative imprenditoriali in tutta l’area casertana, trasformando persino le tenute di caccia di San Leucio e Carditello in luoghi produttivi, regalandoci le sete e la mozzarella di bufala.
Il ministro Bray ha studiato bene la figura di Ferdinando IV, che, ben consigliato da Maria Carolina, fece anche molto altro, e non solo bella vita. E ha studiato tutta la dinastia dei Borbone di Napoli, riconoscendone la “intelligenza”. E si è affezionato alle dimore borboniche, dicendolo a più riprese nei programmi nazionali.
Altro che retrogradi, Signori! Piano piano, il quadro si fa più nitido.

Maradona ammira la Juve? Macchè, la detesta!

frasi di Boniperti manipolate nella forma e nel significato
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Angelo Forgione Nel giorno del venticinquesimo anniversario del primo scudetto del Napoli, il quotidiano torinese Tuttosport ha pubblicato una serie di frasi celebri circa la Juventus. Tra queste se ne legge una lusinghiera che avrebbe pronunciato Diego Armando Maradona: «Forse se fossi finito alla Juventus avrei avuto una carriera più lunga, vincente e tranquilla. Non rimpiango nulla, ma per quel club ho sempre avuto grande ammirazione e rispetto».
Frase mai pronunciata, diciamolo subito. Tutto nasce da una dichiarazione di Giampiero Boniperti, che confessò qualche anno fa quanto, a suo dire, gli aveva confidato “el pibe de oro”, una frase manipolata dal giornalista Guido Vaciago, edulcorata e travisata, ed è facile dimostrarlo.
Era il 3 Luglio 2008 quando, su La Stampa di Torino, fu pubblicata un’intervista all’ex calciatore e presidente della Juventus alla vigilia dei suoi 80 anni in cui questi, tra le altre dichiarazioni, confessava il suo rimpianto di non aver portato Maradona alla Juventus:

«L’avevo preso – disse Boniperti – solo che il presidente della Federazione argentina, Julio Grondona, bloccò il trasferimento. Ordini superiori. Un giorno, molti anni dopo, ho rivisto Diego e sa cosa mi ha confidato? Se fossi venuto alla Juve quando dovevo, magari avrei avuto una vita privata più serena».

Nella primavera del 1980, Boniperti volò in Argentina per prelevare Maradona dall’Argentinos Juniors, segnalatogli da Sivori, ma il presidente della federcalcio argentina Grondona bloccò il trasferimento del diciannovenne astro di casa poiché il ct dell’Argentina Menotti volle trattenere in patria i possibili nazionali per il Mundial del 1982. Non se ne fece niente, la Juve ripiegò su Liam Brady e due anni dopo scelse il suo fantasista, Michel Platini, mentre Maradona si accasò al Barcellona.
La presunta frase maradoniana, editata cinque mesi dopo la confessione di Boniperti nella forma attribuitagli ad arte da Guido Vaciago per vantare un’ammirazione fittizia di Maradona nei confronti della Juventus, non esiste come non esiste l’ammirazione stessa. Mai pronunciata né scritta da Diego. Esiste solo un «se fossi venuto alla Juve quando dovevo, magari avrei avuto una vita privata più serena», riportato da Boniperti e neanche confermato da Maradona. Del resto, non si potrebbe dar torto all’argentino, che ha sempre maledetto la classista Barcellona, dove si trasferì due anni dopo, per averlo condotto nel tunnel della droga nella quale si rifugiò per scappare dalla solitudine e dai catalani che lo chiamavano “sudaca“. Torino avrebbe potuto evitargli Barcellona, vero, ma quella frase, seppur detta, non intaccava affatto il suo matrimonio italiano mai tradito con Napoli, rappresentando una sorta di sliding-doors della sua vita. Il resto della frase, costruita ad arte in quel “per quel club ho sempre avuto grande ammirazione e rispetto”, non esiste neanche nel passaparola di Boniperti. E tantomeno esiste quella “carriera più vincente”.
Il destino portò Diego a Napoli, là dove capì sulla sua pelle che i sudaca esistevano anche in Italia sotto il diverso nome di “terroni”. E di Napoli divenne il condottiero, riconoscendo nella Juventus il simbolo del potere del Nord, la rappresentazione sportiva della questione meridionale applicata al calcio. Diego non avrebbe mai lasciato Napoli per un’altra squadra italiana, lo ha ribadito proprio in questi giorni lanciando un messaggio a Lavezzi.

Diego non ammira affatto la Juventus, non ammira affatto il potere di cui fu ed è antitesi incarnata. E questo è lui stesso a dircelo nel film di Kustorica, non certo la bocca di Boniperti o la penna di Guido Vaciago. La storia del calcio è legata alla maglia del Napoli, e qui non è questione di numeri da ostentare senza neanche averli.

5 Luglio 1984, Maradona sale le scale del San Paolo

Angelo Forgione – Maradona è del Napoli! Queste le quattro parole che fecero il vorticoso giro del mondo il 30 Giugno del 1984.
Fondamentale la volontà politica e l’appoggio del Banco di Napoli, tredici miliardi e mezzo di lire al Barça, combattuto tra il desiderio di trattenere il più grande talento del calcio mondiale e la necessità di liberarsi di un campione ormai troppo ingombrante e piantagrane, insieme al suo folto clan. Tra altalenanti smentite e conferme, il Napoli riuscì a chiudere l’acquisto del grande campione solo pochi minuti prima della chiusura del calciomercato. Quando mancavano ormai solo poche ore al termine ultimo per il trasferimento dei calciatori stranieri, il Presidente del Barcellona, Josep Lluís Núñez, convocò il direttore sportivo azzurro, Antonio Juliano. Maradona non ne voleva proprio più sapere di restare nella gabbia della Catalogna, laddove aveva conosciuto razzismo e droga, e voleva Napoli, il luogo della liberazione. Era fatta! Juliano rintracciò Ferlaino e lo fece precipitare in Spagna. Cinque ore per andare e tornare dall’Italia con un jet privato, firmare il contratto e poi depositarlo in Lega oltre il tempo massimo. Il patron, complice una guardia giurata “amica”, aveva organizzato un gioco di prestigio, consegnando una busta vuota in Lega a Milano, nei termini previsti, per poi sostituirla con quella contenente le firme, apposte direttamente all’aeroporto. Quando Juliano comunicò il buon esito delle operazioni, Maradona si abbandonò ad un pianto di commozione: «Sono un bambino nato da poche ore», disse.
La notizia rimbalzò a Napoli in simultanea, poi in tutto il mondo. Guardavo la tivù, Canale 34, e lessi la notizia in sovraimpressione intorno alle 23:30. Tutte le emittenti campane ne diedero comunicazione ai telespettatori. In poco tempo Napoli si riversò in strada come se la sua squadra avesse vinto il tricolore, il primo. Due dei miei fratelli maggiori trascinarono me i miei 11 anni e 9 mesi nella vecchia Fiat 500 scoperchiabile di mamma. La scoperchiammo e iniziammo ad urlare e sventolare bandiere nel mare del popolo azzurro, dal Vomero al centro. Caroselli di automobili e moto strombazzanti dappertutto, agitazione forsennata e festante di bandiere e sciarpe. Io incredulo, stralunato. Via Toledo intasata da un fiume di corpi, lamiere, urla e colori. Sfociammo lentamente in piazza Trieste e Trento, alla vista dell’assediata fontana “del carciofo”. Mai avevo visto nulla di simile. Solo Pochi mesi prima avevo ricevuto il magico battesimo allo stadio San Paolo: Napoli-Udinese 2-1. Una mediocre squadra aveva evitato la Serie B per un rigore di Ferrario e un goal di Frappampina. Quelli erano i nomi, ma io non conoscevo quello di Maradona. Il calcio era per me l’eleganza di Platini, i gol di Boniek, Paolo Rossi e Altobelli. Avevo visto il numero 10 sulle spalle dello sfortunato Dirceu. All’improvviso, senza averlo mai visto dribblare e incantare, capii chi era e cos’era Diego, e cosa era Napoli.
Chi trascorreva la serata nei cinema, nei teatri e nei luoghi al chiuso, lontano dalle tivù, si ritrovò uscendone in un pandemonio, il primo della storia azzurra. Nessuno capiva cosa stesse accadendo, anche se lo intuiva. «C’ammo accattato a Maradona!», rispondevano gli interpellati ai più scettici, e nessuno rinunciò a tuffarsi tra la folla, ingrossandola a dismisura. Spuntò anche Il Mattino, appena sfornato in tutta fretta da via Chiatamone, sulla cui prima pagina spiccava a caratteri cubitali la grande notizia.
Soli cinque giorni dopo, el Pibe de Oro mise piede per la prima volta sul prato verde del San Paolo. Accorsero a dargli il benvenuto ottantamila persone deliranti e felici. 2000 lire il costo simbolico del biglietto. Un palleggio ed un tiro verso la porta, quella sotto la curva B, e l’entusiasmo azzurro si trasformò in tripudio. Diego salutò il pubblico partenopeo con un semplice: «Buonasera napolitani». Lo stesso saluto riservato al San Paolo il 9 Giugno 2005, l’ultima volta in cui ha messo piede su quel terreno di gioco, in occasione dell’addio al calcio di Ciro Ferrara.
Tre anni dopo il primo delirio di massa la città sarebbe esplosa per il primo Scudetto. Ma in realtà la festa era la seconda.

(immagine: Salvio Capasso)