Il dolce della resurrezione con l’iniziale di Cristo da Napoli all’Italia

Angelo Forgione I greci ortodossi, per celebrare i defunti, preparano un dolce con ingredienti ricchi di simbologia e a base di grano, che è metafora della resurrezione. Si chiama Kolliva, ed è mangiar sacro, esattamente come la Pastiera napoletana, anch’essa altamente simbolica e granosa.
Greca è Napoli, e nei conventi di quella che era stata l’antica Neapolis, nel Cinquecento, prese vita il dolce della resurrezione con la Croce di Cristo, la lettera greca ‘χ’, che si legge kh, incipit di “Khristòs”.
Sono passati secoli, e i notiziari nazionali avvertono: la Pastiera napoletana ha definitivamente conquistato l’Italia.
Già la più ricercata delle ricette italiane su Google nel 2018 era stata quella della tonda e profumata torta partenopea di grano, ormai il ritocco dolce più desiderato della Pasqua. Niente di industriale, tutta bontà che esplode nelle case e nelle pasticcerie, a Napoli da secoli, pure in versione rustica, e ora anche altrove.
È un’eruzione artigianale di bontà. È una resurrezione sacra di Primavera. È un altro dono di un popolo che non invade ma conquista, elargendo e deliziando.
Buona rinascita a tutti.

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Il Parmigiano nella Pastiera napoletana

Angelo Forgione – Negli ultimi mesi, per scrivere il mio nuovo libro, ho letto i più importanti ricettari storici dal Seicento all’Ottocento, a partire dal più famoso tra i primi libri di cucina all’italiana, Lo scalco alla moderna, del marchigiano Antonio Latini, scritto e pubblicato nel 1693 a Napoli, dove l’autore lavorò per un periodo al servizio di Esteban Carillo y Salsedo, primo ministro del viceré Francisco de Bonavides. E così ho appreso che nella Pastiera napoletana, in quel secolo in cui ne aveva parlato anche Giambattista Basile nella fiaba de La Gatta Cenerentola, si metteva anche una bella quantità di formaggio Parmigiano, oltre a pepe, sale, pistacchi in acqua rosa muschiata, latte di pistacchi, pasta di marzapane e ambra, quest’ultima raccolta sin da tempi antichissimi sulle spiagge dell’Atlantico e impiegata come fissante in profumeria e in gastronomia.

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Dunque, una torta rustica più che di una dolce. Una conferma ce la dà Ippolito Cavalcanti nel 1837, scrivendo nella Cucina teorica-pratica una ricetta già rispondente al dolce che mangiamo oggi, ma offrendo l’opportunità di farla “rusteca”, con provola grattata. Cavalcanti era napoletano, mentre Latini, pur lavorando a Napoli, era pur sempre marchigiano, e magari il cuoco forestiero, nella sua ricetta di circa centocinquant’anni prima, aveva preferito scrivere di Parmigiano piuttosto che di provola.

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Save Rummo, eccellenza produttiva del Meridione che intercettò il Saragolla

Angelo Forgione Agrisemi Minicozzi, Metalplex e Rummo. Tre ta le aziende messe in ginocchio dal nubifragio che ha colpito Benevento nella notte fra mercoledì 14 e giovedì 15 ottobre. Subito partita la “campagna social” #saverummo per il più famoso tra i marchi, il pastificio Rummo, una delle più note realtà del beneventano, legata alla storia della pasta di grano duro e dell’industria meridionale. Non solo produttrice della prestigiosa linea propria ma anche fornitore di Coop Italia, Conad, Auchan SMA, Despar, Selex e altri gruppi internazionali della grande distribuzione.
Era il 1846 quando l’azienda familiare, con Antonio Rummo, iniziò a produrre la pasta, che si affermava come eccellenza industriale del Regno delle Due Sicilie. Il primo pastificio industriale era stato inaugurato da Ferdinando II di Borbone nel 1833, e la produzione della pasta si era ormai radicata a Portici, Torre del Greco, Torre Annunziata e Gragnano, zone dove il clima favoriva l’essiccazione naturale. L’impulso era dato dalle forniture di pregiato grano duro Taganrog che giungevano a Napoli dalle zone cerealicole del Mar Nero, nell’ambito degli scambi commerciali tra il Regno delle Due Sicilie e l’Impero Russo, sanciti proprio da Ferdinando II e dallo zar Nicola I. Il Taganrog veniva miscelato col grano Saragolla delle Puglie per ottenere durezza, sapore e colore. Le forniture pugliesi partivano dalla Capitanata, l’odierna provincia di Foggia, e transitavano per il Principato Ultra, ossia il Beneventano, zona strategica per i commercianti dell’epoca ma anche per i nuovi pastai locali, che ne approfittavano dell’abbondante presenza d’acqua per trasformarlo in semola di altissima qualità. Così iniziò la storia di Rummo, uno dei marchi che continuano a fare la storia dell’eccellenza produttiva del Meridione, il più famoso della valle del Sannio. Un marchio che ha ora bisogno di aiuto.

La pastiera di Verona, una vecchia storia

Riesplode oggi un caso vecchio (già trattato nel 2011)

Angelo Forgione – Aprile 2014: tutti a parlare della pastiera industriale di Verona, la “deliziosa torta con grano saraceno” che di vera pastiera non ha nulla. Questo prodotto non solo non è fresco ma non è neanche nuovo. È infatti sul mercato da molti anni, e ne accennai già nel dicembre 2011 nel videoclip “Nord palla al piede” (al minuto 12:37) con cui evidenziai le interdipendenze economiche tra Settentrione e Meridione e smontai la propaganda leghista, e non solo leghista, che ha fulcro nella “fiaba” del Sud-zavorra. Un videoclip che, tra l’altro, ebbe la “benedizione” dell’ex-dirigente RAI Enrico Giardino, scomparso lo scorso ottobre, ricercatore di soluzioni ed alternative rispetto agli schemi dominanti, impegnato nella battaglia per la libertà di informazione, nella demistificazione delle menzogne mediatiche e delle ipocrisie della politica nazionale ed internazionale, che in un suo articolo scrisse: “I nostri governanti lasciano fare e assecondano l’arbitrio padronale. Desertificando e immiserendo il Sud produttivo, ci vengono a dire, mentendo, che il Sud è la “la palla al piede dell’Italia”. E’ una spudorata menzogna, come dimostra con i numeri e con un video illuminante il blog di Angelo Forgione”.
Il prodotto veronese è il simbolo della flessione del mercato dei dolci industriali che invadono piccola e grande distribuzione nelle festività religiose (e non solo). Una flessione che neanche la forte riduzione dei prezzi ha arginato. E le aziende hanno dovuto spingere sull’innovazione e sulla comunicazione. Su queste direttrici anche Melegatti ha premuto l’acceleratore con una serie di investimenti mirati e ha ampliato la sua offerta per supplire ai classici prodotti che non tirano più. E così sono nate le novità, “scippando” anche i nomi delle tradizioni forti e lontane, quelle che rievocano qualità e bontà.
Il dibattito è scoppiato quando il direttore del Corriere del Mezzogiorno Antonio Polito ha scritto un editoriale in cui ha definito questa storia “una semplificazione perfetta dei problemi del Mezzogiorno” e ha puntato il dito sullo scarso senso d’impresa del Meridione. Il suddetto videoclip di approfondimento è già sufficiente per andare più a fondo rispetto al problema (ne consiglio la visione). Polito ha scritto che “nessuno qui da noi, con capitale del Mezzogiorno, con lavoratori napoletani, producendo reddito che resta al Sud, abbia avuto la stessa semplicissima idea della Melegatti o abbia trovato i mezzi per metterla in pratica: trasformando cioè l’artigianato in industria e la tradizione in marketing”. Ed è qui che si sviluppa il nuovo dibattito. Un dolce del genere, per gli ingredienti richiesti, non può diventare un prodotto industriale, e neanche potrebbe mai essere messo sul mercato da un’azienda napoletana e – credo – neanche meridionale. Il rispetto della tradizione è qualcosa che impone delle strategie a chi si propone al pubblico, che deve mettere mano al portafogli solo quando convinto di ciò che acquista. La soluzione della questione, che vale anche per indebolire le convinzioni di Polito, la offre la D’Amico, con sede legale a Napoli e stabilimenti a Pontecagnano Faiano, nel Salernitano, che un prodotto-pastiera industriale l’ha messo sul mercato, ma non ha umiliato nome, preparazione e tradizione, realizzando un kit in scatola in cui sono racchiusi i prodotti essenziali per la facile preparazione di una vera pastiera napoletana: grano già cotto, aroma millefiori, zucchero a velo e, in più, un ricettario tradizionale. Tutta un’altra storia!
Diciamolo serenamente che lo spirito imprenditoriale al Sud ha ampi margini di crescita così come problemi endemici da risolvere, ma è comunque vivo. Il vero problema non è l’innovazione e neanche la minore produzione ma la distribuzione, in gran parte in mano al Nord, autentico ostacolo allo sdoganamento dei prodotti industriali del Sud. Quanti kit pastiera di D’Amico arrivano a Verona?

La pasta di Gragnano ufficialmente IGP

La pasta di Gragnano, discendente diretta del polo pastaio sorto tra fine Settecento e inizio Ottocento tra Napoli, Portici, Ercolano e Torre Annunziata, regalando al mondo la Pasta di Grano Duro (su Made in Naples), diventa ufficialmente IGP dopo l’attribuzione formale del 2010.
La civilizzazione napoletana continua.