Salvini, “benvenuto” al Sud

lega_sudAngelo Forgione – Proprio come Napoleone, che fu incoronato Re d’Italia nel Duomo di Milano il 26 maggio del 1805, Salvini si prende la corona politica del Paese il 26 maggio 2019, e lo fa con i crescenti voti del Sud.
Sembrava un film surreale qualche anno fa, e invece la sceneggiatura si sta avverando: Matteo Salvini sta scendendo nel Regno del Sud, che resta al momento feudo pentastellato, sì, ma con meno certezze di prima. Partendo dalla conquista dell’Abruzzo, i consensi meridionali per la Lega (Nord) sono aumentati. Anni di odio e di offese, di cori e di strali, improvvisamente mandati in archivio con una svolta non culturale ma di facciata, finalizzata all’espansione del consenso oltre il recinto padano, perché si sa, i napoletani e i meridionali puzzano ma i voti e i soldi non hanno odore.

Ai meridionali sembra non interessare più di tanto che la conversione leghista non abbia trovato alcuna corrispondenza nell’attività parlamentare. Piuttosto, avanti con i referendum per le autonomie di Lombardia e Veneto, che da soli sarebbero bastati a prendere le distanze. Eppure i meridionali sono cascati nei discorsi alla pancia di Matteo Salvini, e in tanti stanno lentamente voltando le spalle all’ultimo baluardo della protesta, il Movimento 5Stelle, per aprire le porte al nemico padano di ieri, l’ammazza-terroni. Altri elettori pentastellati, delusi dall’accordo di governo giallo-verde, hanno deciso di non decidere, ingrossando il vero primo partito d’Italia, quello dell’astensionismo, che al Sud supera il 50%, con picchi vertiginosi del 62-63% nelle regioni insulari.

Probabilmente quella dei meridionali verso la Lega (Nord) è solo un’infatuazione passeggera, come tante altre negli ultimi decenni seguiti al crollo del populismo cattolico-nazionale della Democrazia Cristiana e alla mancanza di certezze, ma ciò che sembrava impossibile è compiuto.
Di sovrani e conquistatori venuti dal Nord e accolti con entusiasmo dalle genti meridionali sono pieni i secoli andati. È pur sempre il Sud che rifiutò la conquista piemontese, che rimpianse i Borbone dopo aver toccato con mano le promesse tradite dei Savoia, ai quali però restò fedele al referendum del 1946 pur di respingere il “vento del Nord” che voleva decidere per tutti.

Lo scorso anno, alle Politiche, il Mezzogiorno tributò ai 5Stelle un consenso popolare che nemmeno la DC dei tempi migliori. Un mix di protesta e di aspettative portò a un voto contro il potere e per il reddito di cittadinanza, che sta forse diventando un boomerang, poiché la platea degli inclusi è inferiore a quella degli esclusi, quelli che prima nutrivano aspettative e ora risentimenti.

Oggi, per una coincidenza di fattori favorevoli, abbiamo un presidente della repubblica siciliano, un premier pugliese, un vicepremier e un presidente della Camera napoletani. Non accadeva da decenni, ma non cambia la realtà: il Sud non fa opinione politica, e non la fa perché il meridionalismo intellettuale non è più espressione politica come fino al periodo bellico del Novecento, restando esclusivamente espressione culturale che evidentemente non riesce a formare l’idea politica (autenticamente legata agli interessi territoriali) delle classi dirigenti meridionali.

A giudicare dall’aria che tira, il Sud sta imboccando la strada di Salvini. Cosa sta succedendo? Cosa si aspetta dalla Lega (Nord) il meridione che assiste a uno svuotamento senza precedenti? Figli ne nascono persino meno che al Nord, i giovani vanno a studiare o a lavorare altrove, e i genitori si arrendono alla depressione se non decidono di seguirli per accudire i nipoti. Restano gli anziani, i meno istruiti, i migranti e le mafie, che però tarpano le ali allo slancio meridionale e fanno grandi affari con quella settentrionali. Può essere Salvini la soluzione?

La Campania resta la regione meno leghista d’Italia, ma anche qui il consenso per il Carroccio è sensibilmente cresciuto, ed equivale il secondo posto tra i partiti. E #Napoli, l’antica capitale che ne ha subite di tutti i colori dalla Lega (Nord), che conserva la sua identità e non dimentica le offese, resta la provincia meno tollerante verso Salvini, anche se qualcuno che non tira avanti coi sussidi sembra più disposto a chiudere un occhio di quanto non lo fosse in passato.

Intanto il momento politico in Italia sorride alla Lega (Nord), e quello al Sud e da neo-colonizzazione in corso. Una neo-colonizzazione che è tutta nelle parole e nei fatti di Luigi Di Maio. Fu lui a dire in Rai, nel giugno 2017, «io sono del Sud, sono di Napoli, di quella parte d’Italia cui la Lega diceva “lavali col fuoco”, e non ho nessuna intenzione di allearmi con la Lega Nord».
Ha fatto lui per primo quello che sta facendo l’elettorato meridionale, da “mai con Salvini” a “noi con Salvini”.
La dignità calpestata è sempre il principio della fine.

Napoli che votò monarchia nel ’46 cancella Vittorio Emanuele III ma Emanuele Filiberto non ci sta

Angelo Forgione per Napoli freepress È in dirittura d’arrivo il percorso iniziato nel 2015 dalla giunta De Magistris per il cambio toponomastico della strada prospiciente il Castel Nuovo, sottratto a Vittorio Emanuele III e assegnato a Salvatore Morelli, liberale pugliese, massone e avversario di Ferdinando II di Borbone. Un passaggio di consegne non troppo rivoluzionario nei significati politici ma certamente clamoroso per l’importanza del personaggio spodestato, il terzo re dell’Italia unita. In suo soccorso è giunto il discendente Emanuele Filiberto, con una lettera pubblicata sulle pagine de Il Mattino in cui è contenuto il lamento indirizzato al sindaco di Napoli per la decisione, inoltrandosi in un vicolo cieco della storia, una strada senza uscita.
Il principe basa la sua dolente rimostranza sui risultati del referendum istituzionale del Giugno 1946, allorché la monarchia ebbe a Napoli quasi l’ottanta per cento dei consensi, e sul fatto che per circa un decennio, fino ai primi anni Sessanta, un partito dichiaratamente monarchico governò la città. Due furono i motivi di quel coro partenopeo pro-Savoia che ancora oggi fa discutere l’Italia intera.
Primo motivo fu il retaggio storico dei napoletani, storicamente legati alla forma monarchica e poco inclini a quella repubblicana. Ospitare un re in città nutriva ancora l’antico ricordo di una capitale e di un regno ormai scomparsi, un regno che aveva portato il nome della città stessa. Strano a dirsi, ma Vittorio Emanuele III aveva mostrato amore per Napoli, la sua città di nascita. Ne parlava ottimamente il dialetto, e del resto qui era stato messo a mondo l’11 novembre del 1869, e alla Scuola militare “Nunziatella” era stato allevato. Conosceva anche il piemontese ma, ancor più strano a dirsi, non amava troppo il Piemonte. Prima di ereditare il trono d’Italia, era stato il Principe di Napoli, titolo nobiliare affascinante per la gente della città, quantunque fosse subalterno e simbolo di una chiara sudditanza poiché spettante al primogenito del Principe di Piemonte, ovvero dell’erede al trono d’Italia. Quel titolo, sin dall’annessione del Sud al Regno di Sardegna, aveva avuto sempre l’intento di rafforzare fra i napoletani il sentimento patriottico di matrice piemontese.
Un altro fattore, secondario ma non poco incisivo sulla maggioranza bulgara dei monarchici napoletani e del resto del Mezzogiorno, fu rappresentato dalle manipolazioni politiche del ministro dell’Interno, il repubblicano piemontese Giuseppe Romita, che orchestrò le prime elezioni amministrative dopo la dittatura fascista in modo da mettere in secondo piano l’espressione dei meridionali. Quelle consultazioni si svolsero, fatto fondamentale, poco prima del referendum, ma non dappertutto. Le votazioni furono distribuite non in una sola tornata ma, irregolarmente, in due momenti, il primo in primavera e il secondo in autunno, a distanza di mesi, in modo da piazzarvi in mezzo proprio il più importante referendum del 2 e 3 giugno per scegliere tra la monarchica e la repubblicana. Il clima politico di quei mesi lo espresse il socialista Pietro Nenni: «O la repubblica o il caos». Liberata l’Italia dal Nazifascismo e dalla furia distruttiva anglo-americana, bisognava liberarsi anche dei Savoia.

romita

I napoletani e tutti i meridionali, quindi, si videro pure aggirati ed estromessi dalle scelte politiche, tutte ormai dominate dal “vento del Nord”, definizione coniata in quei frangenti per definire la spinta politica settentrionale alla destituzione della monarchia e alla svolta democratica, accusando la strategia del ministro Romita, da lui stesso spiegata in seguito: mettere in minoranza il Sud, storicamente legato alla forma monarchica, facendo votare immediatamente il Nord alle amministrative prima che si votasse per il referendum, il quale si sarebbe svolto con i primi risultati, prevedibilmente filo-repubblicani, delle elezioni amministrative nel Settentrione. Furono mandate molto presto al voto locale le città di tendenza repubblicana, Milano compresa, la più filo-repubblicana, quella che era stata la sede in Alta Italia del Comitato di Liberazione Nazionale e che, a guerra finita, risultava a tutti quale primaria roccaforte del nuovo corso politico repubblicano. I milanesi votarono il 7 aprile, mentre si fecero votare dopo il referendum i napoletani, il 10 di novembre, sette mesi più tardi, come un po’ tutte le città del Sud, tendenzialmente filo-monarchiche, evitando così che un risultato anti-repubblicano potesse condizionare altre città nella consultazione sull’istituzione statale.
Il referendum spazzò via, dopo ottantacinque anni di regno indegno, la Corona sabauda, colpevole negli ultimi venti di aver dato il potere al Fascismo e poi di aver abbandonato la nave fuggendo dalla Capitale. A pesare di più fu proprio la volontà delle regioni settentrionali: in tutte le province a nord di Roma, tranne Cuneo e Padova, prevalsero le preferenze per la repubblica. Nelle restanti a sud, tranne Latina e Trapani, vinsero quelle per la monarchia. Ancora una conferma di quanto fosse nettamente diviso il Paese. Milano si espresse in gran maggioranza, per quasi il settanta per cento, a sostegno della forma repubblicana. Napoli si proclamò la città più monarchica d’Italia, con un risultato record che sfiorò l’ottanta per cento, ma in realtà non tutti i votanti credevano veramente nel Re come rappresentante unitario della nazione. Per alcuni, più che di effettiva affezione ai Savoia, si trattò di dare uno schiaffo alla classe politica settentrionalista che marginalizzava il Sud da ormai ottant’anni e di un’espressione di protesta contro un Nord guidato da Milano che influenzava le scelte e decideva le sorti dell’Italia.
A risultati accertati, tra mille polemiche di brogli, il fronte monarchico del capoluogo campano insorse in via Medina, dove si trovava la sede del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti. Sotto ordine giunto da Roma, la polizia sparò ad altezza d’uomo. In nove persero la vita e undici tra i circa centocinquanta feriti morirono in agonia, senza processo e giustizia. Per placare gli animi e “risarcire” la città, il 28 giugno l’Assemblea Costituente mise a Capo dello Stato un monarchico napoletano, Enrico De Nicola, eletto al primo scrutinio con circa il settantacinque per cento dei suffragi dopo aver votato egli stesso a favore della monarchia, convinto dalla necessità di assicurare un trapasso meno traumatico possibile al nuovo sistema e di proporre ai filo-monarchici meridionali una figura capace di riscuoterne il gradimento.
Nella sua lettera, Emanuele Filiberto scrive anche che “la storia non si affronta a colpi di censura” e che “le rimozioni toponomastiche sono una forma tipica di ogni sistema illiberale che pensa di sviare il dialogo con il proprio passato a colpi di bianchetto”. È esattamente il presupposto per cui condannare la cancellazione della toponomastica borbonica operata dai suoi antenati, a partire dall’elegantissimo corso Maria Teresa in corso Vittorio Emanuele, pure rovinato da un secondo tratto post-unitario verso la Cesarea edificato in spregio alla vista panoramica che i Borbone avevano preservato sul primo, e la differenza la si notare a vista d’occhio. Furono proprio i Savoia a cancellare per primi i nomi di quelle strade che erano intitolate alla dinastia decaduta, abbattendo gli stemmi gigliati e apponendo lapidi e statue per l’edificazione della nazional piemontesizzazione. Il giglio del granducato e il leone di San Marco lo lasciarono in bella vista sui palazzi di Firenze e Venezia, ma a Napoli lo scudo sabaudo lo sostituirono a ogni stemma gigliato delle Due Sicilie, magari coperto, come l’effigie reale borbonica posta sull’arco scenico del Real Teatro di San Carlo, poi riscoperta e ripristinata nel 1980. Impossibile ripristinare il palco reale, marchiato a rilievo dalla croce sabauda, usurpatrice della magnificenza della bellissima tribuna coronata.
Emanuele Filiberto dovrebbe sapere almeno che il suo Vittorio Emanuele III era segretamente legato alla Gran Loggia d’Italia, avvalorata da una comunione nazionale in una Conferenza mondiale dei Supremi Consigli di rito scozzese, e che fu quella loggia ad accreditare Mussolini presso le importanti massonerie britanniche e americane. Ma quando il Duce si oppose alle organizzazioni massoniche, queste gli misero contro il Re d’Italia, il quale ne ordinò l’arresto nel 1943, sostituendolo col massone Pietro Badoglio. E se l’amata Napoli, la città più bombardata d’Italia, fu rasa letteralmente al suolo, con morti e conseguenze sociali ancora oggi drammaticamente vive, fu anche a causa di quel re pupazzo, Vittorio Emanuele III, che concordò e siglò segretamente l’armistizio con gli Alleati anglo-americani a luglio, ma l’accordo fu reso noto solo qualche mese dopo per insistere ancora nella strategia psicologica finalizzata a stimolare la disapprovazione popolare nei confronti di Mussolini per la decisione di seguire la Germania di Hitler in guerra. Il piano, concertato tra Washington e Londra, fu accettato in modo occulto anche dalla Casa Reale a Roma e, soprattutto, dalla Massoneria italiana in cerca di riscatto. Tutti corresponsabili di immotivate vessazioni sulla pelle e sulle vite della popolazione, Vittorio Emanuele III in primis.
Emanuele Filiberto avverte infine che Napoli ha molti problemi più urgenti e prioritari della crociata toponomastica, perché tanti giovani non trovano un lavoro e la criminalità organizzata non accenna a deporre le armi contro lo Stato. Drammaticamente vero, ma tutto ebbe inizio con l’invasione sabauda al Sud, con la cancellazione di Napoli Capitale, con il patto scellerato con l’allora contenibile camorra voluto dell’amico di famiglia Garibaldi, usato e poi licenziato a lavoro ultimato, e con il cagionato inizio dell’emigrazione.
Emanuele Filiberto si accontenti dello scippo del parto della pizza “margherita”, dazio pagato per pubblicizzare la salubrità dell’acqua e dei cibi assicurata dopo il colera del 1884 dal nuovo acquedotto del Serino. Si accontenti dell’efigie marmorea dei Savoia all’ingresso di Palazzo Reale, dove una statua, quella di un suo avo, è l’unica minacciosa con spada sguainata. Si accontenti di ciò che ancora è intitolato alla sua casata, ed è sempre tanto, finché il tempo non lo spazzerà via inesorabilmente, perché per Umberto I, che finì ammazzato al quarto attentato dopo aver seminato malcontento in lungo e in largo, e per il minaccioso Vittorio Emanuele II si potrebbe suonarla come per “sciaboletta”. È verissimo che la storia non si censura, e infatti la si deve raccontare a fondo, soprattutto quando risulta manipolata per processo di edulcorazione.

Napoli tra le 302 del concorso per “7 meraviglie”

Napoli tra le 302 del concorso per le “7 meraviglie”

Vota subito per la città partenopea!

Angelo Forgione – Anche il secondo traguardo è superato. Si era partiti da 1200 città e tra le 302 città dalle quali verranno fuori le “7 città meraviglie del mondoNapoli c’è, tra le primissime del girone “Europa”. Delle 15 italiane arrivate alla seconda fase ne sono rimaste 5: Roma, Napoli, Firenze, Venezia più Bologna, confermando idealmente il quadrilatero delle principali città d’arte italiane mete del “Grand Tour” Settecentesco. Eliminate Milano, Torino, Palermo, Genova, Bari, Catania, Messina, Taranto, Perugia e Mantova.
La terza fase di voto terminerà il 7 Settembre 2013, quando la seconda scrematura fornirà una shortlist di 77 città che secondo predeterminati regolamenti daranno le 28 città candidate ufficiali alla vittoria finale. Il concorso si concluderà il 7 Luglio 2014 quando saranno ufficializzate le 7 città elette.
La strada è lunga e priva di sponsorizzazioni istituzionali e mediatiche; dunque tocca a tutti noi votare più volte (con diversi account di posta elettronica) per superare anche la seconda selezione. Attenzione, scegliendo purtroppo solo Napoli tra le italiane  (per questioni di regolamento) insieme ad altre sei e poi compilando il form. Ovviamente diffondendo e sensibilizzando tutti.

clicca qui per votare

istruzioni di voto:
1) selezionare le 7 città scegliendo tra le varie zone del mondo
2) riempire il form sulla destra inserendo il codice captcha e l’indirizzo email
3) spuntare l’accettazione di “termini e condizioni” e inviare

Spingiamo il Vesuvio tra le 7 meraviglie della natura

Spingiamo il Vesuvio tra le 7 meraviglie della natura
votazioni online, «’a muntagna» ha bisogno di noi

Mobilitiamoci e sosteniamo il Vesuvio nelle votazioni per la designazioni delle nuove 7 meraviglie della natura.
La votazione è in corso al sito: www.new7wonders.com/en/
Già lo scorso anno abbiamo contribuito al superamento delle preselezioni e il vulcano napoletano è entrare tra le 28 finaliste.
Attualmente il Vesuvio è attestato al 18° posto
(guarda la classifica parziale) ed è il momento di aiutarlo a risalire la classifica.
Basta registrarsi al sito (senza fastidiose newsletter), ma i 2 minuti persi sono tutti per noi, ed effettuare un voto intelligente.
Il comitato chiede 7 preferenze, quindi votiamo per il Vesuvio e per altre sei meraviglie della natura sul fondo della classifica.
Bacco amò le colline del Vesuvio più di quelle native e persino Cristo pianse di meraviglia alla vista del Golfo di Napoli. Più meraviglia di così?!
Diamo il senso giusto all’esortazione “FORZA VESUVIO!”