La galleria che Napoli non sa meritarsi

gallerie_milano_napoliAngelo Forgione Confronto tra gallerie urbane più belle d’Italia, quelle di Milano e Napoli. La ‘Vittorio Emanuele II’ e la ‘Umberto I’, eleganti passaggi commerciali del secondo Ottocento sotto forma di camminamento coperto da vetro e ferro. Portano nomi sabaudi per questioni di opportunismo edilizio più che per convinta devozione ai Savoia, in particolar modo a Milano, che di Torino era ed è tuttora rivale. I permessi di espropriazione dei vecchi edifici che sorgevano al posto dei due salotti cittadini erano rilasciabili solo per decreto reale e timbrare ad imperitura memoria piemontese le nuove opere apriva una corsia preferenziale per i regi decreti. Milano accelerò sviolinando all’inviso monarca, primo Re d’Italia. Napoli ne ossequiò il figlio in epoca di Risanamento, bisognoso di simpatie dopo che l’anarchico meridionale Giovanni Passannante, rabbioso per le disillusioni risorgimentali, aveva tentato di ucciderlo in via Toledo. In entrambi i casi l’esigenza pubblica fu quella di riattare delle aree cittadine centrali in pessime condizioni. A Milano sorgeva un complicato, sudicio e insicuro quartiere medievale, al posto del quale si invocava una collegamento diretto tra la piazza del Duomo e il Teatro alla Scala. A Napoli c’era da bonificare l’antico rione tra via Toledo, il Teatro San Carlo e il Maschio Angioino, dove tra il 1835 e il 1883 erano scoppiate ben nove epidemie di colera.
Progetti avveniristici per l’epoca, di respiro internazionale, e pure costosi. La milanese fu progettata in stile neorinascimentale da Giuseppe Mengoni, avviata a costruzione nel 1865, inaugurata nel 1867 e completata nel 1876, ma solo grazie all’imposizione del Re, che obbligò il Comune al completamento dell’opera a proprie spese, dopo che l’impresa privata che ne aveva avuto la concessione era finita in gravissime difficoltà finanziarie. Quella napoletana fu edificata in modo sicuramente più spedito, avviata nel 1887 e inaugurata nel 1890. Il progetto di Emmanuele Rocco si ispirò al modello milanese ma risultò più ricercato e sfarzoso nelle decorazioni in stile Liberty, un vero trionfo dell’architettura tardo-ottocentesca. La maggiore bellezza, però, sarebbe stata umiliata nel tempo dalla presenza dei popolari quartieri a ridosso e da un’amministrazione dissennata dello spazio, divenendo l’emblema della sciatteria napoletana, a partire dal frazionamento della proprietà privata che ancora oggi rende impossibile la gestione organica degli immobili.
Il raffronto è impetoso per Napoli, e non dal punto di vista della bellezza, che appartiene a entrambe, o dell’abbondanza che intercettano, ma del decoro che offrono. Certo, la Galleria ‘Vittorio Emanuele II’ è sede di alberghi di alto livello, tra cui il Seven Stars, un esclusivissimo 7 stelle, con sette suite che affacciano direttamente all’interno. Insomma, un vero salotto del lusso, che nella Napoli di oggi, forse, non avrebbe senso di esistere. E però sul decoro non si discute, quello dovrebbe essere garantito anche nella ‘Umberto I’. Basta raffrontare la cartellonistica commerciale e l’illuminazione dei due luoghi per capire come vengano intesi dalle amministrazioni comunali. A Milano le insegne sono tutte regolamentate, su fondo nero con marchi in oro, e illuminate da lampioni storici lungo le pareti laterali; a Napoli gli spazi appositi, cui gli architetti del tempo pure avevano provveduto, sono completamente ignorati, ognuno fa come gli pare, e l’illuminazione è fornita da fari moderni che, tra l’altro, a chiusura delle attività, consegnano il luogo alla penombra delle lampade sull’altissima copertura, più alta di quella meneghina. Ma a Milano operano anche boutique di grandi marchi (Prada, Luis Vuitton, Versace, Tod’s, Mercedes); a Napoli, attorno al monopolio di un solo lussuoso marchio familiare (Barbaro), peraltro lontano dalla grande tradizione sartoriale napoletana, ruotano esercizi commerciali del tutto normali. A Milano si danno da fare rinomati ristoranti (il Savini), bar d’epoca (Biffi, Camparino, Motta, etc.) e caffè letterari, ognuno con una tettoia rigorosamente uguale all’altra e rispettando gli spazi concessi; a Napoli i normali bar organizzano tavolini senza criterio e ordine.
Il fatto è che se le hai viste entrambe ti accorgi di quanto sia bella e sciatta quella di Napoli. Ti accorgi che quella partenopea è il tempio del liberismo, dove le varie amministrazioni comunali si arrendono alla complessità sociale del centro cittadino, in cui borghesia e popolo minuto convivono come non accade né a Milano né altrove, e non riescono a impedire ai venditori ambulanti di esporre la loro merce sui mosaici e agli scugnizzi dei dirimpettai Quartieri Spagnoli di giocare a pallone, sbeffeggiare i turisti e vandalizzare a piacimento.
Entrambe interessate da recenti restauri. La ‘Vittorio Emanuele II’, grazie all’Expo, in 13 mesi di lavori con un ponteggio semovente che ha limitato al minimo i disagi, ha riscoperto l’originaria bicromia delle facciate e si è rafforzata nel suo già marcato ruolo centrale nella vita commerciale e turistica della città. La ‘Umberto I’, dopo i continui crolli  (ancora in corso) e la morte del povero quattordicenne Salvatore Giordano, è una galleria sfregiata dalle impalcature di un intervento senza fine e ritinteggiata con diversi colori, o non ritinteggiata, a causa di una cervellotica lite tra condomini inadempienti.
Passerà alla storia un sindaco di Napoli che riuscirà a regolamentare il salotto della città e a dargli splendore come fosse quello di casa sua.

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