‘La Gioconda’ napoletana d’Aragona? Ancora conferme.

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Angelo Forgione Sempre più storici dell’arte indicano nella napoletana Isabella d’Aragona la vera identità della Monna Lisa. Allo studio della tedesca Maike Vogt-Lüerssen del 2009 segue in questi giorni l’italiano Luca Tomio. Anche per lui la Gioconda è proprio la duchessa di Milano, figlia di Alfonso II, erede al trono di Napoli, da questi data in sposa a Gian Galeazzo Sforza. Per lo studioso, la donna sarebbe vestita a lutto per la morte del duca e consorte nel 1494, e si staglierebbe sullo sfondo lombardo della Valle dell’Adda.
Nessuno degli storici dell’arte, però, porta a supporto della sempre più incalzante e intrigante tesi l’altro celebre dipinto di Leonardo alla corte di Ludovico il Moro, la Dama con l’ermellino, in cui la donna ritratta, Cecilia Gallerani, veste secondo la moda rinascimentale aragonese importata da Napoli a Milano da Isabella, e dove l’animale sottolinea l’ottenimento da parte dello stesso Ludovico di un prestigiosissimo ordine nobiliare napoletano voluto da Ferrante d’Aragona, quello dell’Ermellino, appunto.
Certo è che lo scrittore d’arte Giovanni Paolo Lomazzo, che fu in stretti rapporti con l’allievo di Leonardo Francesco Melzi, definì la GiocondaMona Lisa Napoletana” nel suo Idea del tempio della pittura del 1590.
Tutto, se volete, lo approfondite su Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017).

Il “Maschio Angioino”? È aragonese!

Angelo Forgione È uno dei monumenti simbolo di Napoli. È una delle testimonianze del Rinascimento italiano. È il Castel Nuovo, noto come “Maschio Angioino”, quantunque di angioino abbia davvero poco se non l’origine e qualche testimonianza architettonica, soprattutto interna. La prima edificazione è effettivamente dovuta a Carlo I d’Angiò, che nel 1266, sconfitti gli Svevi, si prese il trono di Sicilia e trasferì la capitale da Palermo a Napoli, all’epoca principale centro della Terra di Lavoro. La residenza della corte cittadina, a quel momento, era il normanno Castel Capuano, giudicato inadeguato alla funzione di corte di una capitale, e il Re decise di edificare un nuovo castello in prossimità del mare. Il Castrum Novum fu innalzato tra il 1279 e il 1282, ma Carlo I non riuscì a insediarvisi, cacciato da Pietro III d’Aragona in seguito alla rivolta dei Vespri Siciliani.
Le forme attuali si devono invece ad Alfonso V d’Aragona, che nel 1442 piegò la resistenza di Renato d’Angiò e trasferì immediatamente la capitale mediterranea dell’impero catalano-aragonese da Barcellona a Napoli. L’iberico si disinteressò della Catalogna e dell’Aragona, assegnate alle cure del fratello Giovanni, e si dedicò completamente al Regno di Napoli per farne un centro culturale di primaria rilevanza in Europa. Il Sovrano, uomo interessato alle lettere e alle arti, e perciò detto “il Magnanimo”, riversò sulla città partenopea fiumi di denaro per realizzare le necessarie opere pubbliche e suggellò il suo impulso urbanistico con il rifacimento dell’antica roccaforte capetingia, irrobustita dagli artisti catalani, guidati dall’architetto Guillem Sagrera. Gli iberici realizzarono cinque resistenti torri cilindriche, quattro in piperno e una in tufo, curiosamente somiglianti a quelle del forte provenzale di Saint-André a Villeneuve-lès-Avignon, al posto delle precedenti quattro squadrate. Furono invece dei maestri italiani della scultura ad impreziosire la facciata con un insigne arco trionfale di celebrazione del nuovo regno, esempio fondamentale della storia dell’arte rinascimentale italiana, ispirato alle antiche architetture romane. Per la realizzazione del portale marmoreo d’ingresso, re Alfonso avrebbe voluto Donatello a Napoli, ma il celebre fiorentino, impegnato a Padova nella fattura del monumento equestre al Gattamelata, dovette rifiutare l’incarico. La direzione dei complessi lavori fu quindi trasferita al milanese Pietro di Martino, che produsse un singolare arco doppio, uno sull’altro. In quello superiore avrebbe dovuto trovare posto un monumento equestre in bronzo dedicato a re Alfonso, sul modello di quello per il Gattamelata, iniziato da Donatello lontano da Napoli, ma limitato alla testa del cavallo per la morte dell’artista. Il fornice alto dell’arco rimase quindi vuoto, come lo si vede da sempre. La testa equina, in seguito, fu donata a Diomede Carafa, principale rappresentante della corte napoletana e amico di Lorenzo de’ Medici, che la installò nel cortile del suo palazzo di famiglia a San Biagio de’ Librai, dove restò fino al 1806, quando fu ri-donata al Real Museo (oggi Museo Archeologico Nazionale) e sostituita con una copia.
Il Castel Nuovo ospitò da subito una foltissima corte, tale da competere con quella fiorentina e degna dell’immagine che Alfonso voleva dar di sé in quanto Re di Napoli. Frequentarono la roccaforte reale i migliori uomini di cultura filosofica e letteraria del tempo, accolti da un sovrano che vi allestì una ricca biblioteca con opere di grande interesse e che diede vita, nel 1447, all’Accademia Alfonsina, la più antica delle accademie italiane. Per decreto, il Re sostituì il latino nei documenti e nelle assemblee con l’idioma napoletano antico, elevato a rango di lingua ufficiale del Regno, mentre lo contaminavano diversi termini catalani e castigliani pronunciati dai tanti iberici al seguito. Grazie a “Il Magnanimo” era nata la grande Cultura universale di Napoli, era nato l’Umanesimo e Rinascimento napoletano, diverso da quello fiorentino nei suoi aspetti, ma ugualmente fondamentale. Non celebrato sui libri di storia italiana di oggi perché stimolato da un sovrano di origine spagnola, la cui volontà di sentirsi napoletano è stata celata dietro l’italianità dei Medici di Firenze.
Il Castel Nuovo, bombardato dagli Alleati durante la Seconda guerra mondiale e ricomposto filologicamente nelle forme del Quattrocento, lo si continuerà pure a chiamare comunemente (e impropriamente) “Maschio Angioino”, ma fa bene all’identità napoletana sapere che in realtà, per come si mostra a noi, è un Maschio Aragonese.

Nella ‘Dama con l’ermellino’ un simbolo del prestigio rinascimentale di Napoli

Angelo Forgione L’unione tra Napoli e Milano del secondo Quattrocento, cioè tra gli aragonesi e gli Sforza, fruttò a Ludovico il Moro la nomina a duca di Bari per volontà di Ferrante Re di Napoli, il quale poté beneficiare dell’appoggio milanese per arginare la congiura dei più influenti baroni del suo regno, intenzionati ad arrestare l’opera di modernizzazione anti-feudale dello Stato napoletano. Il sostegno ricevuto dall’alleato lombardo fu premiato con il conferimento a Ludovico del prestigioso collare dell’Ordine dell’Ermellino, altissima onorificenza nobiliare napoletana istituita proprio da Ferrante alcuni anni prima. Il Moro ambiva a quella decorazione, già assegnata in passato a importanti uomini di corona, perché desideroso di essere riconosciuto Duca di Milano al posto del nipote, Gian Galezzo Sforza, il legittimo Dux Mediolani. Per celebrare la prestigiosa nobilitazione, il Moro commissionò a Leonardo da Vinci il dipinto della Dama con l’ermellino, raffigurante probabilmente la nobildonna milanese Cecilia Gallerani, sua amante, col selvatico animale in grembo, pure simbolo di purezza.
In nome del legame politico Napoli-Milano, a Gian Galezzo Sforza fu data in sposa Isabella d’Aragona, nipote di Ferrante (e presunta Gioconda secondo la storica tedesca Maike Vogt-Lüerssen). Ma quando la giovane napoletana si trasferì a Milano trovò l’autoritario Ludovico a usurpare il ruolo ducale di Gian Galeazzo, costringendo la coppia a trasferirsi a Pavia e pregiudicando l’alleanza tra Napoli e Milano. Isabella richiese l’intervento di nonno Ferrante, che finì col revocare il collare dell’Ordine dell’Ermellino e a rompere l’unione col ducato lombardo.

Nell’immagine: a sinistra il dipinto di Leonardo esposto al castello del Wawel di Cracovia; a destra il busto di Ferrante con il collare dell’Ordine dell’Ermellino, esposto al Museo di Capodimonte di Napoli.

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‘La Gioconda’ era la napoletana Isabella d’Aragona?

Angelo Forgione Un recente studio della storica tedesca tedesca Maike Vogt-Lüerssen, confermato da un altro del Centro Studi Glinni di Acerenza e da altri approfondimenti scientifici sulla grafia di Leonardo da Vinci, sostiene un legame sentimentale tra il genio toscano e la napoletana Isabella D’Aragona, figlia dell’erede al trono di Napoli Alfonso II e di Maria Ippolita Sforza. E sarebbe proprio lei la Gioconda, l’enigmatica donna ritratta nel celeberrimo quadro, e non Lisa Gherardini, sposa del mercante fiorentino Francesco del Giocondo. Ulteriore indizio lo fornisce Giovanni Paolo Lomazzo, scrittore d’arte che fu in stretti rapporti con l’allievo di Leonardo Francesco Melzi, il quale definì la GiocondaMona Lisa Napoletana” nel suo Idea del tempio della pittura del 1590.
Isabella d’Aragona, nata a Napoli nel 1470, fu data in sposa a Gian Galeazzo Sforza, e si trasferì a Milano nel 1488. Lì strinse un intenso legame affettivo con Leonardo, esponente di spicco delle élites toscane in Lombardia stimolate dal mecenate Ludovico Sforza, detto “il Moro”. Presto vedova, Isabella sarebbe stata addirittura sposa segreta di Leonardo, il che spiegherebbe perché l’artista abbia gelosamente tenuto con sé il dipinto per tutta la sua vita. Dall’unione sarebbero nati cinque figli, due dei quali riposerebbero accanto alle spoglie della madre nella sagrestia del Convento di San Domenico Maggiore a Napoli, dove, secondo le indagini di Maike Vogt-Lüerssen, si troverebbero anche alcuni resti dello stesso Leonardo, in realtà mai sepolto ad Amboise in quella tomba che venne successivamente profanata.
La soluzione del mistero starebbe nella riesumazione e negli esami del DNA, in modo da smentire o confermare quello che la studiosa ha ricostruito principalmente sulla base di fonti storiche dell’epoca. Attraverso le analisi ed il confronto con i figli di Isabella d’Aragona si potrebbe trovare la risposta all’interrogativo. Certamente eccezionale è la somiglianza tra la Gioconda e il ritratto di Isabella d’Aragona di Raffello, esposto presso il Palazzo Doria di Roma. Monna Lisa altro non sarebbe che L’Isa-bella D’Aragona? Suggestiva ipotesi.

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Napoli mette in mostra un simbolo del suo Rinascimento

Angelo Forgione Dopo la testa di sfinge al Nilo, a Napoli un’altra testa è stata messa a posto. La “Protome Carafa” di Donatello, da ieri, accoglie i visitatori del Museo Archeologico Nazionale.
È innegabile che Napoli viva negli ultimi anni un interessante risveglio culturale e continui a riscoprire le sue antiche vicende. I siti museali del territorio fanno registrare interessanti aumenti di afflussi. Fioccano libri sull’identità napoletana. Nascono nuovi percorsi turistici. Vanno in scena sempre più eventi, nei grandi palazzi e nelle strade. Di contro, sembrano esplodere episodi di marcescenza adolescenziale, che ritengo frutto della recente (e di successo) spettacolarizzazione della malavita.
Insomma, Napoli continua a mostrare il suo eterno dualismo. Più si scrolla di dosso il suo torpore e più sprigiona forze oscure di opposizione alla Luce. Ma il problema è anche e ancora lì, nel mondo dei grandi media. Se accanto alla narrazione delle indegne stese giovanili, ostentazione di protervia in erba, si raccontasse anche di una testa di Donatello messa in mostra, forse qualcuno ben informato svelerebbe di un Rinascimento nato prima a Napoli che nella celebrata Firenze medicea. Racconterebbe di Alfonso d’Aragona, del Beccadelli, del Pontano e della grande stagione umanistica napoletana. Ma “il Magnanimo” era straniero, e nulla fa che spostò la capitale dell’impero catalano-aragonese da Barcellona a Napoli, mentre “il Magnifico” era italiano. Meglio continuare a parlar di Napoli a senso unico, il peggiore, e produrre orgogliosi sceneggiati e dvd sui Medici di Firenze. Non sia che si racconti di un Lorenzo che inviava regali alla Corte di Napoli, e che vi si recò per implorare il ritiro delle milizie napoletane dalla Toscana ed evitare la sua caduta, salvando diplomaticamente la patria fiorentina.
A proposito, il direttore del MANN, Paolo Giulierini, artefice della lodevole operazione “Cavallo Carafa”, è toscano, residente a Firenze.

Alfonso d’Aragona perde anche l’anulare. Pallonata o restauro?

alfonso_aragonaAngelo Forgione – Un altro dito, di quelli che già furono riattaccati in passato, è stato di nuovo staccato dalla mano della statua di Alfonso d’Aragona sulla facciata del Palazzo Reale di Napoli (nella foto di Antonio Cangiano), e non si sa se sia accaduto per l’ennesima pallonata o per metterlo in sicurezza in vista del prossimo restauro. Nel settembre 2011, infatti, la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per Napoli e Provincia, con il protocollo n. 21923, mi comunicò che le altre due dita mancanti erano in possesso dei restauratori e che, nell’ambito del restauro della facciata di Palazzo Reale, era previsto il ripristino dell’opera e il recupero di tutte le otto statue. La Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania ha formalizzato l’assegnazione del bando di gara lo scorso febbraio ed è quindi plausibile che i tecnici abbiano verificato la precarietà del pezzo e l’abbiamo riposto in laboratorio. È importante sapere se sia così, e in ogni caso è necessario intavolare già da ora un serio dibattito sulla conservazione dei luoghi, visto che la dirimpettaia basilica di San Francesco di Paola è già oggetto di deturpazioni dei marmi in corso di restauro.

Alfonso d’Aragona, le dita saranno riattaccate

Alfonso d’Aragona, le dita saranno riattaccate
la Soprintendenza rassicura sulla custodia dei frammenti

Dopo solleciti e carteggi vari, finalmente la Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per Napoli e Provincia comunica con il protocollo n. 21923 del 12 Settembre 2011 che il particolare danneggiato della statua di Alfonso d’Aragona sulla facciata di Palazzo Reale è in possesso dei restauratori e che nell’ambito del prossimo restauro della stessa facciata è previsto il ripristino dell’opera e il recupero di tutte le statue.

Lo scorso Giugno, va ricordato, sono stati stanziati dal Ministero 2,5 milioni di euro per gli interventi generali alla reggia di Piazza Plebiscito.

 

Statua di Alfonso d’Aragona, continuano telenovela e danni

Alfonso d’Aragona, continuano telenovela e danni
nuova comunicazione mentre salta un altro dito

Proprio mentre le condizioni della statua di Alfonso d’Aragona peggiorano, riceviamo un nuovo protocollo della Soprintendenza Speciale per il patrimonio di Napoli firmato dalla Dott. Lorenza Mochi Onori (clicca per ingrandire) che ci comunica che ad essa spetta il compito dell’alta sorveglianza e della vigilanza sugli adempimenti mentre le competenze sui beni artistici appartenenti al Palazzo Reale afferiscono alla Soprintendenza alla Soprintendenza per i BAP.
E mentre il carteggio insiste, la statua peggiora: dopo il dito medio, è saltato ora anche l’indice.

Guglia dell’Immacolata, monumento a rischio crollo

Guglia dell’Immacolata, monumento a rischio crollo
mentre è boom di restauri risorgimentali in città

di Angelo Forgione per napoli.com

S.O.S. monumenti, prosegue l’emergenza patrimonio nel centro storico UNESCO di Napoli. Opere d’arte e capolavori che perdono i pezzi, come la guglia dell’Immacolata in Piazza del Gesù, transennata a Novembre per distacco di frammenti di marmo e da poco liberata dal catafalco dopo un intervento tampone di messa in sicurezza; non si è trattato, come in molti credevano, di un restauro di cui il prezioso monumento settecentesco necessita ma di un’operazione di emergenza per un manufatto di valore inestimabile i cui elementi sono in via di progressivo distacco. «Il monumento è esposto alle intemperie e non c’è stata alcuna manutenzione dall’ultimo restauro degli anni novanta – afferma un preoccupatissimo Massimiliano Sampaolesi, Direttore Tecnico della Giovanna Izzo Restauri che si è occupata dell’intervento – e il Comune non ha soldi. Ci siamo dovuti limitare ad arginare il distacco dei gruppi scultorei per poi smontare i ponteggi, sperando che presto si possano recuperare i fondi necessari per il restauro che è fondamentale».
Per evitare che perdesse i pezzi, l’obelisco barocco è stato completamente fasciato di reti di contenimento che garantiscono la trasparenza e la visione delle sculture ma allo stesso tempo evidenziano un problema che si è aggravato fortemente. Le casse comunali sono a secco, e dunque non resta che sperare in uno stanziamento del Governo o magari di fondi Europei per assicurare i 400mila euro necessari.
Criticità spalmate su tutta la preziosa antichità di un centro storico unico al mondo, e la causa è la medesima: mancanza di manutenzione e abbandono che favoriscono la formazione di vegetazioni selvagge e radici che invadono le intersezioni col risultato che marmi e pietre si fratturano prima e distaccano poi. Dalla guglia dell’Immacolata al campanile di Sant’Agostino alla Zecca, solo due tappe di un lungo percorso turistico del crollo che non è certo una novità. Basti pensare alla Galleria Umberto I, tra pavimentazione rovinata e fregi scultorei che cadono dalla volta d’ingresso di Via Toledo laddove un telo verde evita dalla Pasqua del 2009 che lo scempio si aggravi e che qualcuno di sotto ci rimetta la pelle. Prima dell’imbragatura, l’aquila decorativa ora nascosta dal telo aveva perso un’ala che pare sia finita in discarica e non in sovrintendenza.
Bisognerebbe far presto, ma senza soldi si farà tardi, forse troppo. L’immenso patrimonio monumentale di Napoli crolla: chiese, palazzi, statue e fontane perdono pezzi silenziosamente; una crisi strisciante, meno chiassosa di quella dei rifiuti ma sicuramente più dannosa in prospettiva.
Eppure un rubinetto privilegiato di stanziamenti è stato aperto nel corso dell’ultimo anno, soldi però non utilizzabili per le vere emergenze. Napoli ha visto infatti l’avvio di diversi restauri di statue cittadine quanti non se ne erano visti nell’ultimo decennio. Busti che versavano nel degrado assoluto e che per anni non avevano beneficiato di alcun intervento. Il primo in ordine cronologico, peraltro già terminato, è quello che ha visto finalmente ripulito il monumento a Paolo Emilio Imbriani in Piazza Mazzini. Subito dopo è partita la lavorazione alla statua di Dante Alighieri nell’omonima piazza, e poi ancora alla Colonna dei Martiri, ai busti di Nicola Amore e di Giovanni Nicotera in Piazza Vittoria, di Carlo Poerio in Piazza San Pasquale e di Giuseppe Garibaldi alla stazione ferroviaria, senza dimenticate la pulizia al monumento equestre a Vittorio Emanuele II collocato nella riqualificata Piazza Bovio.
Un filo conduttore unisce tutte queste statue e rende l’idea di una benefica ondata di restauri non casuali, avviati tutti nello stesso periodo, quello delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. I personaggi immortalati sono tutte figure e simboli risorgimentali, “sommo poeta” del Rinascimento compreso, la cui statua fu realizzata proprio durante il mandato di sindaco del patriota Paolo Emilio Imbriani e sul cui basamento è incisa l’epigrafe “All’unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri”. La ricorrenza ha dunque aperto un canale preferenziale di fondi, anche se le statue di Imbriani e Dante erano fuori lotto e hanno goduto dell’intervento di sponsor privati a completo supporto del Comune e delle Municipalità di competenza. Il resto è promosso e finanziato da “Italia 150”, ossia dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, coordinato dalla Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania.
I restauri, come si legge dalla nota del Ministero, rientrano nell’obiettivo di contribuire alla riqualificazione dell’immagine della città e alla sensibilizzazione dei cittadini affinché proteggano la loro storia e la memoria. Tutto giusto, o quasi, perché si parla di “loro storia” e viene da chiedersi allora perché le statue risorgimentali che riguardano la storia patria d’Italia vadano ripulite mentre quelle che comunicano l’autentica storia identitaria di Napoli debbano invece restare relegate al degrado assoluto.
Storia identitaria dunque, quella che passa per Piazza Sannazaro dov’è la fontana della bianca Sirena Partenope, pregevole scultura ottocentesca del marcianisano Onofrio Buccini spodestata dallo scuro monumento di Garibaldi nell’omonima Piazza. E mentre il “dittatore delle Due Sicilie” si rifà il trucco, la sinuosa sirena perde le dita e i pezzi, ma anche l’acqua che non sgorga più a causa di una tubatura otturata da mesi che l’Arin non sostituisce.
A Piazza del Plebiscito, la storia di Napoli è di casa forse più che altrove. E li, le statue non se la passano per nulla bene. Quelle equestri di Carlo e Ferdinando di Borbone, i cui basamenti sono ricoperti da scritte spray mentre il bronzo di cui sono fatte è totalmente degradato dalle intemperie e da escrementi di uccelli. Eppur si tratta di sculture preziosissime del Canova (con il contributo dell’allievo Antonio Calì), massimo scultore del neoclassicismo che è corrente artistica nata a Napoli e diffusa in tutta l’Europa ottocentesca di cui la basilica di San Francesco di Paola è straordinaria testimonianza esposta ad ogni vandalismo. Di fronte, sulla faccia di palazzo Reale, soffre soprattutto Alfonso d’Aragona la cui mano non trova pace; e nel frattempo il Ministero e la Sovrintendenza si scambiano incartamenti e solleciti perché gli si riattacchino le dita.
Vorrà dire che in futuro ammireremo Nicola Amore e magari, chissà, lo faremo a Piazza del Gesù dove potrebbe essere spostato in luogo della guglia dell’Immacolata una volta crollata del tutto.