180 anni fa partiva il primo treno napoletano. Così furono sabotate le “Ferrovie Meridionali”

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Angelo Forgione – Il 3 ottobre 1839 partiva il primo treno della penisola italiana, da Napoli verso Portici. Quattordici anni prima, nel 1825, il nuovo mezzo di locomozione a vapore aveva fatto la sua comparsa in Inghilterra.

Il giovane re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, salito al trono nel 1830, appassionato di meccanica, si dimostrò incline alle novità che il progresso stava producendo e particolarmente attratto dalle nuove macchine locomotive.
Il 25 febbraio del 1836, accolse la richiesta dell’ingegnere francese Armand Joseph Bayard de la Vingtrie per la concessione di una strada ferrata da Napoli a Nocera, verso Salerno. Due anni dopo, il 27 marzo 1838, l’ingegnere Bayard presentò al governo la proposta tecnica ed economica per la tratta da Napoli a Torre del Greco, caratterizzata da alcune opere assai ardite, tra cui un ponte a sei arcate da 7,90 metri in uscita da Torre del Greco e un viadotto a 59 arcate che correva al di sopra della spiaggia di Torre Annunziata e che costituiva il manufatto più spettacolare della linea. Il progetto di Bayard comprendeva anche il tratto verso Nocera dove, all’ambiente marino, si sostituiva la fertile campagna dominata dalla sagoma del Vesuvio. Qui, nei pressi delle rovine romane da poco riscoperte, si trovava la stazione di Pompei. Da qui, la strada ferrata, con un tragitto pianeggiante, attraversava il fiume Sarno presso Scafati, entrando prima in Angri e poi a Pagani per affrontare l’ultimo tratto e raggiungere la stazione di Nocera. La linea comprendeva anche una diramazione per Castellamare che partiva alla fine del viadotto di Torre Annunziata attraversando terreni incolti e valicando il fiume Sarno con un ponte a tre archi di 5,50 metri di luce. I lavori iniziarono ad agosto, e quattordici mesi dopo, il 3 ottobre 1839, fu inaugurato solennemente il primo tratto del percorso, dalla strada dei Fossi di Napoli (oggi corso Garibaldi) al Granatello di Portici. Fu un giorno festoso e di grande orgoglio per la Capitale e per i suoi territori.

Alla prima linea ferroviaria della Penisola seguì, dieci mesi più tardi, la seconda, la Milano-Monza, concessa in appalto a un costruttore austriaco e progettata con tecnologia identica a quella della strada ferrata vesuviana.

Qualcuno ancora oggi racconta che quel treno era un giocattolo del Re, ma la realtà era ben diversa. Il Re inserì la prima strada ferrata in un più ampio progetto che prevedeva la realizzazione di due assi costieri, uno sul Tirreno e uno sull’Adriatico, da congiungere con linee interne, e tre linee in Sicilia. Tutto partiva da Napoli, collegata a Caserta tra il 1840 e il 1843, e poi a Capua due anni dopo, con finanziamento statale.
Lo sviluppo della rete ferroviaria procedette senza particolari ansie, rispettando un programma di risanamento del bilancio statale, gravato dal cosiddetto “debito galleggiante”, il persistente debito contratto con l’Austria e le sue truppe per tenere il trono di Napoli al riparo da ulteriori ribaltamenti dopo il Congresso di Vienna del 1815. Il Regno di Napoli, contando sulle già sviluppate vie del mare e sulla sua importante flotta, aveva già come spostare le merci. Lo sviluppo della rete ferroviaria poté procedere senza particolari ansie, rispettando un programma di risanamento del bilancio statale, gravato dal cosiddetto “debito galleggiante”, il persistente debito contratto con l’Austria e le sue truppe per tenere il trono di Napoli al riparo da ulteriori ribaltamenti dopo il Congresso di Vienna del 1815.

Il Borbone, convinto che il suo trono fosse esclusivamente quello del Sud, non pensò a diventare il Re d’Italia ma a sanare le finanze del suo regno e ad emanciparlo dalle dipendenze straniere, affrancandosi dalla smodata competizione liberista appena abbracciata dei paesi europei e dal perverso indebitamento progressivo presso le banche private che alimentava gli affari dei grandi finanziatori (Rothschild); e intraprese un programma di sviluppo autonomo del tutto svincolato dalla nuova finanza internazionale, che garantì una spesa verificata necessaria a ridurre la crisi del debito. Per dare avvio alla produzione siderurgica interna, estese la produzione di motori a vapore per le navi nel nuovo Real opificio di Pietrarsa, presso Portici, a rotaie, carri-merci e locomotive, tutto made in Naples. Tutto in sinergia con le Reali ferriere di Mongiana, in Calabria, dalle quali uscirono i primi ponti sospesi in ferro d’Italia e le rotaie per le prime tratte ferroviarie. I prodotti erano di qualità eccellente, e nulla avevano da invidiare a quelli francesi e inglesi.
Nel 1860-61 circolavano nella Penisola 75 locomotive made in Italy, di cui 60 erano costruite nelle Due Sicilie. Quattro a uno il rapporto produttivo del treno che alcuni Stati stranieri e lo stesso Piemonte acquistarono dal Regno delle Due Sicilie.

Il risanato Stato napoletano si presentò all’appuntamento con l’Unità del 1861 con il debito pubblico più esiguo d’Europa. Il Regno di Sardegna, al contrario, fortemente indebitato con i banchieri europei anche per l’accelerato sviluppo della propria rete ferroviaria che sopperiva all’assenza di rotte marittime interne, ebbe necessità di invadere il Sud e incamerarne le buone finanze. E allora il piano di sviluppo ferroviario borbonico fu cancellato in corsa e fra i primi provvedimenti del parlamento di Torino vi fu la sospensione dei lavori della ferrovia Tirreno-Adriatica tra Napoli e Brindisi, iniziata nel 1855. Eppure, le gallerie e i ponti erano già stati realizzati, ma a nulla valsero le proteste degli ingegneri convenzionati. Le “Ferrovie Meridionali” furono poi cedute a una compagnia finanziaria privata del banchiere livornese Pietro Bastogi, amico di Cavour e ministro delle Finanze, il quale le subappaltò clandestinamente a un’altra società, ripartendo il capitale tra banche di Milano, Torino e la sua Livorno, per una speculazione sulla costruzione della rete ferroviaria al Sud che coinvolse diversi governi del Regno d’Italia e aprì uno scandalo per il quale Bastogi fu costretto a dimettersi, ma fu “premiato” col titolo di conte da Vittorio Emanuele II. Mentre Pietrarsa e Mongiana venivano cedute a speculatori privati per essere poi smantellate, le Ferrovie Meridionali restarono al palo e quelle settentrionali si svilupparono intensamente con la regia di un’altra guida delle banche del Nord, un altro amico di Cavour, quel Carlo Bombrini che, da comproprietario dell’Ansaldo, coordinò le banche di Torino e Genova nel finanziamento delle imprese settentrionali.

Nacque una narrazione di Napoli e del Mezzogiorno lontana dalla realtà, calunniosa e ingigantita nei problemi che pure affliggevano il Sud pur di convalidarne l’invasione. L’arretratezza meridionale, che equivaleva all’arretratezza settentrionale, fu tradotta in immobilismo, massimo esempio del quale fu resa la sproporzione di estensione delle reti ferroviarie delle due Italie, al netto dei collegamenti marittimi. Falsità smentite dal presidente della Fondazione FS Mauro Moretti, non certo un meridionale e meridionalista, nel suo discorso al pubblico di inaugurazione del Museo nazionale di Pietrarsa del 31 marzo 2017:

«Ferdinando II fu un sovrano illuminato e lungimirante, che volle emancipare le Due Sicilie dalla dipendenza inglese e fece di Pietrarsa la Silicon Valley della tecnologia dell’epoca. I lavoratori di Pietrarsa, consapevoli del patrimonio industriale qui installato e della relativa superiorità tecnologica raggiunta, lottarono contro la delocalizzazione delle attività a vantaggio dell’industria del nord voluta dai sabaudi, fino alla carica dei bersaglieri che causò numerosi morti e feriti gravi».

Distante dai canoni narrativi della storia risorgimentale. Una diversa e più corretta lettura del Re che industrializzò il Regno delle Due Sicilie prima dell’invasione piemontese.

 

per approfondimenti: Made in Naples e Napoli Capitale Morale

Le prime automobili? Ci pensarono i siciliani

Angelo Forgione – Archeologia automobilistica! Nel 1836, a Capodimonte, Napoli, Ferdinando II di Borbone, Re delle Due Sicilie, firmò un accordo “per l’introduzione in Sicilia di una vettura a vapore senza bisogno di rotaje”. Una vettura senza binari cos’era se non l’antenata dell’automobile?
Il documento che lo prova è conservato nella Collezione delle leggi e dei decreti reali del 1836, I semestre, edita presso la reale stamperia di Napoli. Si tratta del decreto n° 3337 con il quale si accorda una privativa (monopolio) di cinque anni ai signori Giuseppe Natale e Tommaso Anselmi per l’introduzione in Sicilia di vetture a vapore senza bisogno di rotaie di ferro. La caldaia motrice sarebbe stata certamente fornita dalla fabbrica pubblica di Pietrarsa inaugurata tre anni prima alle porte di Napoli, tra San Giovanni a Teduccio e Portici, per la lavorazione di motori a vapore per le navi e per le nascenti locomotive ferroviarie.
La concessione, però, venne data con un vincolo stringente: Natale e Anselmi “si intendono decaduti dalla patente se, entro un anno dalla consecuzione della medesima, non sarà messo in esecuzione l’oggetto per il quale è stata accordata la privativa”. Evidentemente, la locomotiva automobile siciliana non fu mai realizzata poiché risultava davvero difficile direzionarla per il peso dell’apparato caldaia.
Fu realizzata invece la prima locomotiva italiana su binari, la Bayard per la Napoli-Portici, inaugurata tre anni dopo.
Poi, nel 1899, a Torino, il meccanico cuneese Giovanni Battista Ceirano ispirò i fondatori della Fiat per la costruzione di vetture a motore a scoppio, azienda di cui si impossessò Giovanni Agnelli con un complesso gioco azionistico-bancario con cui scalzò nel 1906 i fondatori.

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La prima stazione ferroviaria simbolo del passato cancellato

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Angelo Forgione La mattina del 3 ottobre 1839, alla presenza del Re Ferdinando II e delle più alte cariche del Regno delle Due Sicilie, da Napoli partiva il primo treno d’Italia. Si trattava di una locomotiva a vapore costruita nelle officine ‘Londridge e Starbuk’ di Newcastle, mentre le carrozze e il resto dei materiali rotabili erano costruito nel Regno (le rotaie dal Polo siderurgico di Mongiana, in Calabria). C’è da chiedersi perchè la prima stazione ferroviaria della Penisola, quella da cui il convoglio partì per percorrere la prima strada ferrata italiana che conduceva a Portici, sia abbandonata nel degrado più assoluto. È una delle domande più frequenti dei napoletani consapevoli, senza risposta dalle istituzioni. I non consapevoli, invece, non sanno neanche dove si trovi, e quando passano davanti la stazione della Circumvesuviana al Corso Garibaldi non immaginano cosa ci sia nei pressi e cosa sia accaduto in quel posto quel 3 Ottobre di 176 anni fa. La stazione della società Bayard, con la sua prima strada in ferro che passa davanti la storica Villa d’Elboeuf – anch’essa in pietoso stato – per culminare a Pietrarsa, monumento allo sviluppo interrotto, meriterebbe lustro e percorsi turistici. La prima stazione del Paese dovrebbe essere meta di turismo e pellegrinaggio di appassionati. E invece…

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Il 28 Novembre del 2011 fu inaugurata a Roma la nuova stazione Tiburtina dell’Alta Velocità, intitolata a Cavour. Quella stessa sera un servizio del TG1 di Marco Bariletti diffuse le seguenti parole: “la stazione è intitolata al Conte Camillo Benso di Cavour, il primo che pensò alle strade ferrate”. Falso, perchè la prima ferrovia piemontese, la Torino-Moncalieri, fu inaugurata nel 1848. Vi circolavano decine di 
locomotive napoletane che il Piemonte aveva acquistato da Pietrarsa, il cui reparto di produzione locomotive a vapore fu inaugurato nel 1845. Gli acquisti cessarono solo con la fondazione dell’Ansaldo, che poi avrebbe beneficiato, dopo l’Unità, delle commesse della stessa Pietrarsa mandata a chiusura e relegata prima a officina di riparazione e poi a museo. E se è vero che nel 1861 le Due Sicilie contavano circa 130 km di strade ferrate mentre il Piemonte ben 850 circa, è anche vero che altri 130 erano in costruzione o in preparazione al Sud in modalità “sostenibile”, cioè lentamente e senza pesare troppo sulle finanze statali, contando anche sulle sviluppatissime vie del mare che da sempre servivano il trasporto delle merci delle Due Sicilie, mentre Cavour e Vittorio Emanuele II, che non disponevano di trasporti marittimi, si erano indebitati a tal punto per costruire rotaie che neanche i ducati delle Due Sicilie furono sufficienti a ripianare il debito pubblico poi trasformato in “nazionale”. La stessa Napoli-Portici-Nocera fu costruita a spese dell’ingegnere francese Armando Bayard de la Vingtrie in cambio della gestione della linea per 80 anni, una sorta di “project financing” d’avanguardia. Il ruolo di primo grande modernizzatore italiano non spetta a Cavour bensì, di diritto e di fatto, a Ferdinando II. Dopo l’Unità, il piano di sviluppo ferroviario borbonico fu cancellato in corsa e fra i primi provvedimenti del parlamento di Torino ci fu la sospensione dei lavori della ferrovia Tirreno-Adriatica tra Napoli e Brindisi, iniziata nel 1855. Eppure, le gallerie e i ponti erano già stati realizzati, ma a nulla valsero le proteste degli ingegneri convenzionati. Le ferrovie meridionali furono poi cedute dal governo di Torino alla compagnia finanziaria privata torinese di Pietro Bastogi, che le subappaltò vantaggiosamente e clandestinamente, sostituendosi al governo nell’approvare un contratto con destinatari diversi da quelli indicati dal ministero, per una speculazione sulla costruzione della rete ferroviaria al Sud che coinvolse diversi governi del Regno d’Italia. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord, con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Nel 1864, una commissione d’inchiesta indagò sulle grosse speculazioni attorno alla costruzione e all’esercizio delle reti ferroviarie meridionali. I giudici denunciarono la sparizione di importanti documenti comprovanti la colpevolezza degli imputati, e sparirono anche i progetti di collegamento orizzontale tra Tirreno e Adriatico (maggiori dettagli su Made in Naples – Magenes, 2013).
Prima i bombardamenti della guerra e poi il terremoto hanno ridotto la stazione “Bayard” a rudere di cui nessuno si è mai interessato in settant’anni. Eppure nel 1998 il Consiglio Comunale di Napoli discusse l’opportunità di un’integrazione culturale che accogliesse una più ampia valutazione storica nel corso delle celebrazioni del bicentenario del 1799. In sostanza la città decise la rivalutazione di ogni periodo storico, a prescindere che si trattasse di vinti o vincitori, ma ben poco è stato fatto. Nel 2008 Erminio Di Biase, già autore del libro L’Inghilterra contro il Regno delle Due Sicilie, portò sul posto le telecamere di Rai Tre Regione per denunciare le condizioni della struttura. Ovviamente, dopo sette anni e tante parole, nulla è cambiato.

La cancellazione della storia a Castellammare

La cancellazione della storia a Castellammare

Il sindaco di Castellammare Luigi Bobbio avrebbe deciso di sopprimere la tratta ferroviaria Castellammare-Torre Annunziata, linea superstite dell’antico primato borbonico (prima ferrovia italiana del 1839 estesa nell’area nel 1843). Un’intenzione con la quale il sindaco scavalcherebbe le scelte delle Ferrovie dello Stato rendendosi colpevole di una grave cancellazione della memoria storica che lega il territorio stabiese, la Campania e il Sud ai primati che potevano vantare fino all’atto dell’unificazione italiana. La linea in questione, ossia la storia, sarebbe sostituita da una “pista ciclabile” che contribuirebbe a cancellare l’identità e l’orgoglio nel solco dell’operato delle classi dirigenti incapaci di dimostrarsi adeguate al ruolo che ricoprono.

Per inviare osservazioni e proteste al sindaco di Castellammare: sindaco@comune.castellammare-di-stabia.napoli.it