Whirlpool in rosso taglia l’eccellenza napoletana

Angelo Forgione Gli stabilimenti in Italia del gruppo statunitense Whirlpool sono quasi tutti sotto la capacità produttiva. L’azienda ha perso quote di mercato e i conti sono in rosso.
Via alle cessioni, e si comincia da Napoli, dove vengono realizzate le lavatrici di fascia alta. Una fabbrica di eccellenza, premiata nel 2012 come la migliore tra le 66 del gruppo disseminate nel mondo per coinvolgimento delle risorse umane e capacità manageriale di trasferire ai dipendenti la strategia dell’azienda.

Dunque, si inizia a tagliare dall’eccellenza, non certo da un sito che produce male. Si comincia a dismettere da Sud, come sempre, ma poi vedrete che toccherà anche agli altri siti del gruppo. Perché gli statunitensi sono abituati a operare secondo le logiche del mercato internazionale, e se ne fregano degli accordi presi recentemente col governo italiano se gli obiettivi non sono stati raggiunti.

Ormai non c’è più la possibilità che certi elettrodomestici vengano prodotti in Europa occidentale, e men che meno in Italia, neanche se si tratta di produzione di alta gamma come quella di Napoli che garantisce margini di guadagno molto maggiori di quelli degli elettrodomestici destinati al mercato di massa.
È un problema di costi e di concorrenza cinese e, in generale, di altri mercati competivi. Ormai l’ovest europeo non è più concorrenziale, e i governi stanno abituando lentamente i loro operai a salari sempre più bassi e flessibilità per non soccombere alla produzione a basso costo dell’est. La domanda occidentale di prodotti di gamma alta è più bassa delle capacità produttive, e Napoli è esattamente il paradigma del problema.

La produzione delle migliori lavatrici Whirlpool, quelle made in Naples, sarà spostata in Polonia, che negli ultimi venti anni è diventata il centro della produzione di grandi elettrodomestici come lavatrici, frigoriferi, freezer e lavastoviglie, un po’ come la Cina lo è diventata per quelli più piccoli come ferri da stiro e forni a microonde. La manodopera polacca, quantunque cresciuta in quanto a costi rispetto a qualche anno fa, resta inferiore a quella italiana, così come il costo dell’energia, passando per la più bassa tassazione rispetto all’eccessiva pressione italiana ricca di balzelli.
La Polonia, insomma, favorisce lo sviluppo e l’occupazione, mentre l’Italia la ostacola. E non è un caso che quello polacco sia uno dei paesi più capaci di aggiudicarsi l’accesso ai fondi europei, mentre l’Italia è tra gli ultimi.

C’è da dismettere e si comincia dal sempre più desertificato Mezzogiorno, che sta tornando ai drammatici livelli del dopoguerra, quello delle valigie di cartone chiuse con lo spago. Fu allora che il varesino Giovanni Borghi scese a Napoli dalla Lombardia per un viaggio di lavoro, avvertendo il padre che sarebbe stato via per qualche giorno. Si innamorò della città e della sua umanità, e iniziò così la storia della fabbrica napoletana Ignis, rilevata nel 1991 dagli americani di Whirlpool.

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I deliri di Saviano sugli immigrati

Caro Saviano, trasalisco alle tue parole. Tu che sostieni che «l’Italia ha bisogno degli immigrati per crescere socialmente, economicamente, culturalmente», perché «siamo un paese con una crisi demografica immensa». Fammi capire… la disoccupazione giovanile è oltre il 40%, i giovani non possono fare famiglia, la pressione fiscale è al 42% e tu davvero pensi di risolvere la nostra drammatica condizione sociale portando in Italia milioni di disperati senza alcuna formazione dai paesi sottosviluppati del terzo mondo? Davvero pensi di risolvere garantendo alle cooperative il business della gestione dei migranti? Davvero pensi di risolvere, nella migliore delle ipotesi, riempiendo le baraccopoli del Sud Italia di braccianti schiavizzati, così da alimentare il caporalato e i business della malavita?
Caro Roberto Saviano, siamo al paradosso che sono gli anziani a sostenere i giovani con le loro pensioni, e tra vent’anni, quando quelli non ci saranno più, saremo al collasso. Per crescere socialmente, economicamente e culturalmente, l’Italia deve ridurre il debito pubblico, abbassare la pressione fiscale, creare lavoro e maggiore benessere, non sommare disoccupazione straniera a disoccupazione italiana, e al costo esorbitante di circa 5 miliardi l’anno di debito pubblico.
Ti prego, Roberto, finiscila di imbonire gli italiani con bugie ben raccontate col tuo volto torvo. Dici che non è vero che l’Europa ci ha abbandonato, che non è vero che siamo soli, e vuoi convincere di ciò informando che «solo negli ultimi 6 anni l’Italia ha ricevuto circa 800 milioni di euro». Lo sai che cifra è? Si tratta di poco più di 133 milioni all’anno, a fronte di 3.827 milioni di spesa sostenuta dall’Italia per la crisi migranti nel 2017, al netto dei contributi UE e del resto delle spese accessorie (stima Def)… 3.827 milioni contro 133, il contributo UE è di 1 a 30, caro Roberto! Una cifra che definire esigua è già tanto, e infatti tu stesso, ben sapendo che lo è, tiri fuori l’apporto più corposo che l’Europa dà all’Italia indirettamente, ovvero la concessione di scorporare dal bilancio i soldi spesi per l’accoglienza. E sostieni che, grazie alla benevola “concessione” dell’UE, questa spesa non grava sul rapporto deficit-pil e non pesa nelle tasche degli italiani. Circa 5 miliardi l’anno di debito pubblico in più sulle spalle delle generazioni future, che nessuno estinguerà, e tu dici che non gravano. Dici che ci stanno mentendo. Sei tu che menti a chi crede in te. Perché lo fai? Ti prego, Roberto, smettila!

Sindaco di Trieste tra i rifiuti: «Noi non siamo a Napoli!». Ed è polemica con De Magistris.

Angelo Forgione Inciampo del sindaco di Trieste Dipiazza, che, avendo verificato un problema nella rimozione di alcuni rifiuti nella sua città, ha pubblicato un video su facebook in cui afferma  «qui non siamo a Napoli, siamo a Trieste».

Replica del sindaco di Napoli De Magistris, chiamato in causa dal vibrato sdegno:

È davvero un peccato che una bellissima città come Trieste sia guidata da un Sindaco che cede ai luoghi comuni più banali e beceri su Napoli. Sono certo che i cittadini triestini sono molto più seri di un’Amministrazione che, a quanto pare, non è in grado neanche di gestire il problema della spazzatura in una città che è grande quanto un quartiere di Napoli.
Dal 2011, da quando c’è questa Amministrazione, le immagini dei rifiuti a Napoli sono solo un pallido ricordo. Napoli è la città italiana che cresce di più in termini culturali e turistici, e capisco bene che ad alcune realtà politiche e territoriali del Nord questa cosa possa dare grande fastidio. Ma noi siamo un popolo accogliente per natura, per cui voglio solo rivolgere un invito caloroso a tutti i cittadini triestini di venire a visitare la nostra bellissima città. Nonostante tutti i suoi problemi, che nessuno mai ha negato, tornerete a casa carichi di una bellezza e di una meraviglia che non ha eguali al mondo.

Ma Dipiazza non ci pensa proprio a porgere le scuse e, sempre tramite un post su facebook, rispedisce al mittente le accuse e rincara la dose, mostrando di nutrire certe idee guardando le incursioni di Luca Abete di Striscia:

Vorrei ricordare al sindaco di Napoli che dal 2001 al 2011 quando ho amministrato questa città per due mandati, Trieste si è classificata prima a livello nazionale per qualità della vita sia nel 2005 che nel 2009 (classifica Sole 24 Ore). Adesso, in questo terzo mandato, sto lavorando per riportarla a quei livelli. Il Sindaco de Magistris, invece di fare tali dichiarazioni, farebbe solo bene ad imparare da questa amministrazione come si raggiungono questi risultati, e magari guardare i servizi televisivi, come quelli di Striscia la Notizia, che riguardano la sua città e che purtroppo non trasmettono un’immagine di efficienza.
Fortunatamente conosco Napoli e con i napoletani ho trascorso momenti bellissimi, e queste polemiche, per una battuta di impeto, mi sembrano fuori luogo.

Le scuse, si sà, sono dei galantuomini.

Napoli sospesa tra opinione e diffamazione

Angelo Forgione C’è una sostanziale differenza tra opinione e diffamazione. Il vocabolario della lingua italiana è chiarissimo: l’opinione è un giudizio individuale, un punto di vista soggettivo, che talvolta può diventare collettivo, mentre la diffamazione è pur sempre un giudizio individuale, che però reca un danno morale e si converte in offesa. Stabilire l’esatto confine tra opinione e diffamazione non è facile, ma esiste, e a ben vedere è netto.
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione: lo dice la Costituzione, ed è un principio sancito da tutti i moderni Stati democratici. Tuttavia l’opinione espressa non può mai ledere l’altrui reputazione. La legge e la giurisprudenza ritengono lecito esprimere un’opinione personale o una critica utilizzando un linguaggio garbato seppur deciso, non denigratorio o insinuante e, soprattutto, senza la volontà e la consapevolezza di offendere. Se ci si attiene a tali regole non si deve temere alcuna azione penale, in quanto si esercita la propria libertà di espressione e di critica. Ciò che bisogna evitare è l’uso di espressioni e argomenti offensivi, denigratori o anche dubitativi, insinuanti, allusivi, che in sostanza trascendano in attacchi diretti a colpire gratuitamente la sfera morale e privata altrui.
È tutta qui la differenza tra il verbo transitivo “sabotare” usato da Erri De Luca nella vicenda della Tav piemontese, passato in giudicato con assoluzione dell’imputato (gli avvocati della società querelante hanno dichiarato di non volerne fare “una battaglia campale”), e il verbo intransitivo “puzzare” usato da Filippo Facci per descrivere Napoli. È opinione quella dello scrittore napoletano, forte nei toni, certo, ma pur sempre opinione, secondo cui la Tav va sabotata perché dannosa per la Val di Susa. Allo stesso modo è opinione quella di Massimo Giletti, secondo cui Napoli sarebbe indecorosa per colpa dei suoi amministratori, che andrebbero cacciati (il Comune di Napoli, sentendosi diffamato, ha ritenuto di presentare una denuncia, per diffamazione dell’ente comunale, non dell’intera comunità partenopea). Non è più solo opinione ma diffamazione il giudizio di Filippo Facci, secondo cui Napoli puzza. Il fatto è che Napoli non puzza, e un giudizio lesivo basato su una falsità diffusa tramite mezzi di comunicazione di massa è ampiamente meritevole di azione penale.
Erri De Luca è stato additato da qualcuno di essere interprete di un paradosso per essersi schierato col sindaco di Napoli Luigi De Magistris, dichiarando che «la querela serve a moderare i termini di quelli che si allargano su Napoli, per la quale le accuse che vengono da fuori sono stonate». Riferendosi a Giletti, autore di un’accusa, la difesa di De Luca può chiaramente apparire contraddittoria. Ma se ci si sposta sul campo delle offese di Facci, la difesa è più che condivisibile.
Filippo Facci, che di Erri De Luca è notoriamente “nemico” (ma lo è un po’ di tutti i veri intellettuali), ha fatto peggio di Giampiero Amandola, il giornalista della sede Rai di Torino che si divertì coi tifosi della Juventus, all’esterno dello stadio bianconero, a capire come questi distinguevano i rivali napoletani. «Li riconoscete dalla puzza», disse il giornalista, e fu licenziato in tronco dopo un polverone alzato proprio da questo blog, con tanto di scuse della redazione Rai Piemonte ai cittadini di Napoli e a tutti gli italianiFacci non si è espresso sul campo del Calcio, che genera terremoti mediatici di magnitudo impareggiabili, ma andrebbe rimosso dal direttore del giornale (Libero) per cui scrive, se quel direttore non avesse evidentemente la stessa opinione e si indignasse per quanto scritto e pubblicato. E invece quel quotidiano puntella il pensiero di Facci. È evidente che per certi operatori della (mala)informazione scrivere e dire che Napoli puzza, come fanno ormai impunemente gli ultras negli stadi, è prassi, come è prassi spendersi per strumentalizzare criticità del passato e renderle croniche, persistenti, eterne, in modo da dare in pasto all’opinione pubblica settentrionale, e non solo, un’immagine di Napoli oltremodo distorta.
eco_bgUn altro esempio? Martedì 10, veniva pubblicato sull’edizione online de L’Eco di Bergamo un articolo di Giorgio Gondola che analizzava il caso Giletti-Napoli e il presunto paradosso-De Luca. La fotografia utilizzata a corredo era un’immagine di via Toledo, altezza Ponte di Tappia, deturpata da un gran cumulo di rifiuti, in piena crisi; uno scatto del 2010, se non precedente, allorché le discariche erano sature e le cricche del Nord ricattavano l’amministrazione comunale (secondo la Procura di Napoli i veneti Gavioli e alcuni collaboratori tentarono in quel periodo da incubo “di mettere all’angolo l’amministrazione napoletana attraverso il grave ricatto di lasciare la città affogare nei rifiuti strumentalizzando la situazione emergenziale e la protesta dei lavoratori del settore per costringerla a cedere a infondate e inusitate pretese economiche”). Dopo le nostre “precisazioni” alla redazione online del quotidiano orobico, l’immagine veniva immediatamente sostituita, e spuntava come per incanto una suggestiva veduta del Vomero. Con un semplice click cambiava la “immagine” di Napoli, almeno sui computer, perché non sappiamo se il pezzo era stato pubblicato anche sul cartaceo. Ecco spiegato, anche visivamente, il sottile confine tra opinione e diffamazione, tra analisi e strumentalizzazione. Quella Napoli non c’è più! Ora bisogna dibattere seriamente sull’inefficienza del servizio di rimozione dei rifiuti e sullo spazzamento carente delle strade di Napoli, che non può certamente adagiarsi su un’emergenza lontana; ma continuare a proporre a chi è lontano l’immagine di una spaventosa crisi ormai datata è operazione di manipolazione che offende la dignità dei napoletani e arreca danno al flusso turistico, che non è più solo morale. Chi osserva certe foto datate è indotto a evitare una magnifica città, in tutte le sue contraddizioni, anche a proprio danno. Sì, perché Napoli non puzza ma, al contrario, profuma, di mare, di cibo, di vita e anche di storia. Chi dice il contrario dichiara scientemente il falso e merita di essere punito moralmente per il reato non scritto di ignoranza. Altroché!

Roma nei rifiuti “come Napoli”. Sbagliato! Il problema ora è della Capitale.

Angelo ForgioneLa capitale d’Italia sommersa dai rifiuti. Una nuova figuraccia per l’immagine del Paese in affanno. “Stiamo diventando come Napoli”, dicono nella capitale. Il paragone è facile, visto quel che si è visto qualche anno fa nel capoluogo campano. Nessuno può dimenticare le dolorose immagini di Napoli, città amata anche oltre oceano, invase dall’immondizia; quelle del lungomare, quelle del Parco Nazionale del Vesuvio pattumiera, quelle dei monumenti deturpati da sacchetti che in foto lasciavano immaginare l’olezzo. I napoletani non dimenticano la mortificazione d’esser stati additati come l’esempio massimo del degrado civile, mentre le cricche del Nord lucravano sulla gestione dei rifiuti all’ombra del Vesuvio ricattando l’amministrazione di Palazzo San Giacomo.
Ma mentre le discariche di Roma esplodono – e non da oggi – e le soluzioni sono ancora lontane, i cumuli di rifuti napoletani abbandonati per giorni attorno ai cassonetti sono un brutto ricordo. Da anni Napoli ha dato la svolta grazie a una seppur lenta ripartenza nella differenziata (con stanziamenti decisamente inferiori a quelli destinati a Roma) e all’invio di parte dei propri rifiuti in Olanda su navi, un sistema meno costoso dei trasporti su gomma (cari alla malavita) e su treno. Certo, le estreme periferie restano trascurate e pure le strade centrali mostrano una carente nettezza causata da un servizio municipale inefficiente, soprattutto dopo la chiusura dei negozi. La dotazione degli impianti è ancora insufficiente e i napoletani sanno che, nonostante la svolta, potrebbe bastare un intoppo nell’ingranaggio per riaprire vecchie ferite. Ma quel che si vede oggi a Roma non si vede più a Napoli, e l’immagine dei rifiuti associata ai napoletani è niente più che uno stereotipo come troppi.
Il problema, da qualunque punto di vista lo si osservi, è sempre politico, e a pagare sono i cittadini, talvolta con la loro dignità. Quattro anni fa era il PD romano ad ammonire che la capitale stava facendo la fine di Napoli, lo stesso partito che oggi governa in Campidoglio e si difende dagli attacchi dell’opposizione. Dunque, non è Roma che è diventata come la Napoli di qualche anno fa ma è Napoli che, nella storia unitaria del Paese, è stata resa città-simbolo delle inefficienze italiane… che non sono mai state una sua esclusiva.

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L’Economia Civile napoletana può salvare l’Occidente

Angelo Forgione – Sono passati trecento anni dalla nascita di Antonio Genovesi, grande economista napolitano nativo di Salerno, il primo della storia. In occasione di questa ricorrenza silenziosa in corso, si è tenuto a Roma un convegno dal nome “Ragioni e sentimenti civili per un’economia ed una politica dal volto umano. La lezione di Antonio Genovesi”, un’occasione per confrontarsi sulle problematiche attuali dell’Economia occidentale e per proporre soluzioni per superare la crisi economico-finanziaria e valoriale, che da sei anni frena sviluppo e occupazione.
In sostanza, sta partendo una rivalutazione dell’Economia Civile di matrice napoletana, dopo che questa è stata dimenticata per tre secoli ed eclissata dall’Economia Politica di stampo britannico formulata dallo scozzese Adam Smith. È infatti necessario, oggi più che mai, ripensare le relazioni economiche secondo un paradigma diverso, quello appunto dell’Economia Civile, fondata sulla reciprocità e sulla creazione di legami di ­fiducia tra le varie parti sociali.
Nel mio saggio Made in Naples ho dedicato un capitolo/”mattone”, il più corposo, proprio al confronto tra le due dottrine economiche, quella napoletana e quella britannica, con un vero e proprio trattato di Economia in cui ho appunto illustrato come quella formulata da Smith ha piegato l’Europa e l’Occidente, imponendo un capitalismo sfrenato, e ho riportando sotto i riflettori l’Economia di Genovesi in quanto primo e vero sistema di relazioni economiche, da riscoprire per superare la crisi in atto. Ora gli economisti iniziano ad avanzare proprio questa soluzione, alla ricerca di un “volto umano”.
“L’Economia dev’essere civile, altrimenti non crea posti di lavoro, non rispetta i lavoratori, non protegge l’ambiente, non migliora i beni e non sviluppa i servizi… proprio come l’Economia incivile, cioè politica, imperante attualmente. […] Il paradosso, dunque, è che l’Italia lasci inaridire le radici napoletane dell’Economia, pur essendo detentrice del modello economico più valido e moderno. Il delitto è che non lo rivaluti, tenendo in vita quello straniero che l’ha inginocchiata”. Questo è solo un passo di ciò che ho scritto nel libro. Non sono un economista ma conosco la civilizzazione napoletana e l’universalità della cultura partenopea, quella che i poteri forti hanno voluto sottomettere perché troppo pericolosa e capace di creare una civiltà migliore. Non a caso, l’economista riminese Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna e presidente dell’Agenzia per il terzo settore (le Onlus) e grande sostenitore della dottrina napoletana, ha dichiarato di essersi imbattuto nel lavoro di Genovesi «per puro caso» nonostante avesse frequentato le maggiori università d’Europa. «Nessuno mi aveva mai parlato di Antonio Genovesi», dice nel video l’economista che ha iniziato una battaglia per rivalutare l’Economia Civile. Ma cosa si studia oggi nelle scuole e negli atenei?

La questione meridionale nella crisi internazionale

Nola dimostra che il Sud cresce se non ci sono infiltrazioni mafiose

La crisi internazionale sembra aver fatto dimenticare il principale problema italiano: la questione meridionale. In pochi ne parlano, ormai sempre più fuori dall’agenda politica. La redazione di Rai Parlamento ha analizzato proprio la questione meridionale nell’ambito della recessione continentale. Invitati a parlarne, Adriano Giannola (presidente Svimez – associazione degli economisti per lo sviluppo del Mezzogiorno), Nicola Morra (Movimento 5 Stelle) e Mario Marazziti (Scelta Civica per l’Italia). Tutti con toni meridionalisti fortemente avversi alle politiche dello Stato dall’Unità ad oggi. Infine, un viaggio nell’eccellenza del Distretto di Nola, dimostrazione di un Sud virtuoso che, messosi autonomamente in condizione di non essere divorato dalla criminalità organizzata, è stato capace di decollare e primeggiare. Ecco perché, se prima lo Stato non farà il suo dovere, non ci sarà mai un Sud competitivo. Altro che piagnistei.

Napoli risorsa per l’umanità

pizza “a ogge a otto” e caffè sospeso” contro la recessione

Era il 1734 quando nacque la pizza Marinara. Quatto anni dopo, partendo da Port’Alba, ai Decumani si diffuse la nobile abitudine di vendere pizze cotte a legna e fritte, soprattutto ai passanti, col sistema di pagamento “a ogge a otto” che permetteva di saldare il debito fino a otto giorni dal consumo. Il successo fu enorme e le strade di Napoli divennero, negli anni, un andirivieni di consumatori e venditori ambulanti di ogni genere alimentare. Un boom che decretò l’inizio della grande storia della pizza napoletana. In tempo di crisi economica come quello attuale, l’antica tradizione torna esempio sociale. A rilanciarla è il pizzaiolo Gino Sorbillo a Via Tribunali.
Rinvigorito è anche il “caffè sospeso”, partendo dallo storico Caffè Gambrinus di Antonio e Arturo Sergio. Una ritualità che scalda più il cuore che il palato, una volta sicuramente più viva. Una grande lezione di solidarietà che suggerisce il pagamento anticipato di una tazzina a beneficio di ignoti indigenti che arriveranno a consumarla. Recentemente adottata anche a Milano e un po’ dappertutto, persino all’estero.
Napoli, ancora una volta, riscopre sé stessa e dà fondo alla sua tradizione storica per combattere la modernità che non corrisponde a progresso sociale, divenendo modello anticonformista ad ogni latitudine.

Rifiuti: l’UE incoraggia la Campania e boccia il Lazio

Angelo Forgione – Le condizioni di inquinamento da rifiuti tossici del territorio campano restano critiche, e solo qualche giorno fa è stato sigillato dalla Forestale un campo di veleni a Caivano, destinato alla coltivazione e contaminato da metalli pesanti.
E mentre Napoli, la Campania e il Sud votano (e non votano) la politica nazionale che non mette in agenda il Mezzogiorno, l’Unione Europea incoraggia la Regione Campania e il Comune di Napoli a mettere in pratica i piani di gestione dei rifiuti presentati alla commissione dall’assessore regionale all’Ambiente, Giovanni Romano, e dal Sindaco De Magistris nel 2011. “Le autorità regionali campane hanno finalmente sviluppato una strategia per i rifiuti più coerente e pratica per la regione”, si legge nel rapporto UE. “La privatizzazione ha contribuito alla spirale discendente della gestione dei rifiuti che ha portato a conseguenze disastrose per la popolazione locale, andando unicamente a beneficio di bande della criminalità organizzata. Un ritorno della gestione dei rifiuti in ambito pubblico, con un piano finalmente realistico, coerente e pratico, ha finalmente portato una normalizzazione dell’emergenza”. La crisi è ben lungi dall’essere risolta ma la valutazione positiva dei piani campani agevolerà lo sblocco dei fondi europei per l’estensione della raccolta porta a porta, mentre resta il nodo dei rifiuti nocivi sotterrati nelle campagne tra Napoli e Caserta, con conseguenze tremende sulla salute delle popolazioni limitrofe.
Va detto che nel rapporto della Commissione Europea, mentre si da il via libera ai progetti campani, viene rimandato il Lazio, che in alcune zone presenta situazioni più critiche della regione vicina: “È chiaro ai membri della delegazione – si legge nel rapporto UE – che il ruolo e l’autorità del commissario straordinario è del tutto inadatto ai reali problemi che affronta la popolazione, visti i livelli spaventosi della cattiva amministrazione di lungo corso. Inoltre, i poteri di emergenza sono chiaramente controproducenti, oltre che in flagrante violazione di molti aspetti della legislazione dell’UE in materia di rifiuti”.

Banco Napoli, la grande manovra politico-finanziaria d’Italia

Acquistato per 60 miliardi di lire, rivenduto per 6000. Così si salvò la BNL.

Angelo Forgione per napoli.com Mentre divampa la polemica sull’utilizzo del gettito IMU per salvare il Monte dei Paschi, strumentale o giustificata che sia, è indubbio che sia importante il ruolo dello Stato nella vicenda di una banca trascinata in operazioni suicide che l’hanno messa praticamente in ginocchio, come l’acquisizione di Antonveneta a prezzo folle. Il Montepaschi sarà salvato in qualche modo e non accadrà quello che è toccato all’antichissimo Banco di Napoli, ciò che una volta era un colosso e che poi, dopo continui colpi subiti lungo tutto l’arco della storia dell’Italia unita, ha finito per essere ghigliottinato per salvare un altro istituto: la Banca Nazionale del Lavoro. Vale la pena ricordare questa triste vicenda che ha dato un’ulteriore mazzata all’economia meridionale.
I problemi iniziarono con la crisi scoppiata nel 1992, che bloccò tutti i meccanismi che regolavano l’economia del Mezzogiorno, facendo saltare tutte le banche meridionali. Non si salvò neanche l’istituto più prestigioso, nonostante fosse stato in quegli anni il primo a trasformarsi in Società per Azioni.
Tra il 1994 e il ’96, migliaia di miliardi di finanziamenti erogati agli imprenditori del Sud, non più solvibili, rimasero scoperti. Le consistenti perdite emerse nei bilanci resero indispensabili interventi straordinari. Entrò in scena il Governo con uno stanziamento di 2.000 miliardi e un piano di salvataggio. Tramite la legge Dini, fu decretato l’ingresso del Ministero del Tesoro in qualità di azionista di maggioranza fino alla privatizzazione. Il Tesoro formalizzò prima una ricapitalizzazione pari a 2283 miliardi e poi azzerò il Capitale Sociale, rendendo l’istituto una banca senza valore da mettere all’asta. Se l’aggiudicò la cordata INA-BNL con circa 60 miliardi per il 60% del pacchetto azionario. Una cifra molto bassa, inadeguata al reale valore di un istituto che vantava 750 sportelli circa lungo la Penisola. Cifra per di più sborsata, particolare da non tralasciare, da una cordata di cui faceva parte un’altra banca in crisi, la BNL, di cui in quel momento si auspicava la privatizzazione e la fusione, in seguito alla scoperta, fatta nell’agosto 1989, di operazioni irregolari compiute dalla filiale statunitense di Atlanta che aveva prestato a clienti iracheni più di 2 miliardi di dollari senza autorizzazioni della sede centrale e violando le leggi statunitensi.
Seguirono proteste dei dipendenti del Banco di Napoli, e da più parti, anche nella stessa finanza, si gridò alla svendita ingiustificata. Carlo Azeglio Ciampi, l’allora ministero del Tesoro, gettò acqua sul fuoco, avvertendo che l’offerta era stata giudicata congrua da Rothschild, l’advisor incaricato di valutare le proposte di acquisto. Ma il colpo di scena doveva ancora venire: dopo soli due anni di una strana paralisi gestionale, ancor più penalizzante, la cordata INA-BNL rivendette il Banco di Napoli per 6.000 miliardi al SanPaolo IMI. Proprio così, comprato per 60 miliardi e rivenduto per 6000!
L’operazione Banco di Napoli fu la più grande manovra politico-finanziaria del Novecento, costruita a tavolino. Il gruppo realizzò una delle plusvalenze più grosse della storia. Plusvalenza che consentì il salvataggio della BNL sulla pelle del Banco di Napoli, da quel momento una banca pluriregionale e nulla più, una semplice “banca retail” con limitazione della sua operatività alla raccolta ed al credito alle famiglie ed ai piccoli operatori economici. Il Banco di Napoli morì, la BNL di Roma sopravvisse e il SanPaolo di Torino, su sollecitazione della Banca d’Italia, proseguì la creazione di un grande gruppo bancario nazionale con forte presenza e radicamento sull’intero territorio.
Una banca è volano di sviluppo del territorio nel quale opera e se la piattaforma viene meno è tutto il territorio a risentirne. Cancellando il Banco di Napoli si è cancellata la funzione di guida e supporto per la già provata economia del Mezzogiorno. Il prestigio che dava l’appartenenza all’azienda ne aveva fatto luogo di formazione della classe dirigente meridionale. Il personale fu drasticamente ridimensionato, con ripetute operazioni di “pulizia etnica” operate con esodi incentivati. L’istituto napoletano fu completamente colonizzato nel silenzio generale.
La crisi del Banco di Napoli, non irreversibile, fu causata da una fallimentare politica creditizia nel Sud. Gli alti tassi d’interesse pagati dagli imprenditori meridionali, che contribuirono in larga misura alla crisi del sistema industriale del Mezzogiorno, furono anche la conseguenza di un dissennato indebitamento pubblico.
A compimento dell’operazione, i finanziamenti erogati dal Banco di Napoli agli imprenditori napoletani insolventi, quelli che fecero scattare l’intervento del Ministero del Tesoro, furono recuperati quasi per intero da una società di recupero crediti.