Capodanno dei cinesi: i primi in Europa, a Napoli

Angelo Forgione — Si festeggia oggi il Capodanno cinese, la più importante festività in Cina, paragonabile alle festività natalizie dei paesi occidentali. Si entra nell’anno del coniglio, e a celebrare con eventi dedicati è anche Napoli, la città che ha accolto il primo insediamento di cinesi all’estero.

Era il 1724, e il sacerdote ebolitano Matteo Ripa, di ritorno a Napoli da più di un decennio trascorso alla corte imperiale di Pechino, portò con sé cinque cinesi: quattro giovani e un maestro di lingua e scrittura mandarinica. Con loro, avviò un congrega, detta “della Sacra Famiglia di Gesù Cristo” per l’educazione degli orientali ai valori della Cristianità da diffondere poi nel loro paese, con annesso un collegio per la formazione di interpreti per le relazioni con i popoli d’Oriente. Nacque così il Collegio dei Cinesi, primo nucleo di quello che è oggi l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, il più antico istituto di sinologia e orientalistica d’Europa, nel cui logo figura proprio l’immagine di Ripa tratta da un dipinto conservato all’Archivio Storico Diocesano.


Quel collegio fu insediato in un monastero extra moenia situato in una zona conosciuta a quel tempo come “la Montagnola”, lungo una strada ripida e impervia che, dal centro di Napoli, conduceva alla collina di Capodimonte, attualmente contraddistinta dal pertinente odonimo di “salita dei Cinesi”, nel rione Sanità.
Il Collegio iniziò a operare in sordina, ed ebbe approvazione papale solo nel 1732, allorché vi fu realizzata e inaugurata di fianco una chiesa, detta “della Sacra Famiglia dei Cinesi”.
In epoca borbonica, l’istituzione formativa ottenne sempre maggiore prestigio, accreditandosi come un serio istituto linguistico dove trovavano posto non solo Cinesi ma anche soggetti provenienti dai Balcani, dal mondo arabo e dall’Oriente in genere.

Il Settecento fu definito per l’Europa il “secolo cinese”, e Napoli recitò una parte da protagonista, diventando faro europeo della lavorazione della seta e della porcellana, fiori all’occhiello della produzione artistica borbonica.
Il ponte culturale con la Cina fu attivato proprio da Carlo di Borbone e dalla moglie Maria Amalia, ella proveniente da quella Sassonia in cui, nel 1709, era stato scoperto il procedimento per la fabbricazione della porcellana, fin lì esclusiva cinese. La Sovrana fu vera artefice dell’avvio della Real Fabbrica di Capodimonte delle porcellane declinate alla napoletana, cioè “a pasta tenera”, e non per caso nella Reggia di Portici fu realizzata la “Sala Cinese” (oggi Aula Magna universitaria), espressione del gusto crescente per le “chinoiserie”, importato proprio attraverso le porcellane orientali.
Ma il vero capolavoro del Real Palazzo porticese è, unico in Europa, il Salottino di porcellana, fatto realizzare nel 1757 da Carlo di Borbone per sua moglie in una piccola stanza rivestita da migliaia di mattonelle di porcellana decorate con pappagalli, dragoni, ghirlande, ventagli, scimmie, scene di vita cinese, cestini di frutta e ideogrammi chiaramente decifrabili. Nel 1866, in epoca unitaria, fu smontato e rimontato nella Reggia di Capodimonte, dove oggi fa bella mostra di sé nel percorso museale.

Lo sguardo alla Cina lo volse anche Ferdinando di Borbone, fondatore della manifattura della seta e di un certo sogno di élite operaia nella Colonia casertana di San Leucio, ma pure sua moglie, l’austriaca Maria Carolina. Costretti nel 1799 a riparare a Palermo per l’invasione giacobina a Napoli, i due sovrani presero dimora in un palazzo in stile cinese acquistato da un barone locale, e lo fecero abbellire e ingrandire calcando ancor di più l’impronta orientale ma mescolandolo con elementi giapponesi, islamici, ottomani, arabi e, per rimarcare la napoletanità dello stile Neoclassico ormai imperante, pompeiani. Nacque la Palazzina Cinese, primo esempio in Europa di “stile eclettico”, napoletano anch’esso perché, con quel primo esperimento di stili misti, la coppia reale intese volgere lo sguardo all’Oriente per dare le spalle a Parigi, patria degli invasori di Napoli e degli assassini di Maria Antonietta, decapitata sorella di Maria Carolina.
Napoli chiudeva così, a modo suo, il “secolo cinese” in Europa, ma non affezionandosi troppo al thè e al riso. Quella era roba da inglesi e francesi. Meglio il caffè e la pasta.


Da Napoli la speranza per l’Italia in ginocchio

Angelo Forgione La prima cosa da fare quando un’emergenza sanitaria già esplosa altrove colpisce una comunità è consultare i medici che la stessa emergenza l’hanno già affrontata, perché la collaborazione internazionale è fondamentale per mettere a punto armi mediche efficaci. È quello che non è avvenuto in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, dove il focolaio dei contagi da Coronavirus ha messo in ginocchio i reparti di terapia intensiva. È quello che, una volta cresciuta l’emergenza anche in Campania, hanno fatto opportunamente e immediatamente i medici napoletani della task force Cotugno-Pascale, che hanno intuito il potenziale dei farmaci anti-interleuchina 6 nella lotta alle complicanze respiratorie nei malati di Covid-19. Quella categoria di farmaci hanno infatti la funzione di neutralizzazione dell’interleuchina 6, la proteina che è il principale vettore dell’infiammazione polmonare prodotta dal virus di origine cinese. E allora i ricercatori partenopei hanno contattato i colleghi del First Affiliated Hospital of University of Science and Technology of China, stabilendo un vero e proprio ponte della ricerca tra Napoli e la Cina, grazie al quale si è potuto comprendere quali medicinali i medici cinesi avevano somministrato ai loro malati. In particolare, 20 pazienti su 21 trattati con il Tocilizumab, un farmaco anti-artrite appartenente proprio agli anti-interleuchina 6, avevano mostrato un miglioramento veloce delle condizioni.

Gli studi dei ricercatori napoletani si sono concentrati su quel preparato e hanno evidenziato che, curando l’infezione polmonare, ha la capacità di scongiurare la morte nei pazienti affetti da Coronavirus. Così lo hanno fatto somministrare ad alcuni pazienti campani con grave insufficienza respiratoria. Gli esiti sono stati soddisfacenti in 24 ore, e uno dei malati che presentava un quadro clinico più severo dovrebbe essere estubato domattina, liberando così un preziosissimo posto in terapia intensiva. In assenza di vaccino, facile comprendere cosa significherebbe tutto questo.
Il direttore scientifico del Pascale, Paolo Ascierto, ha chiesto un veloce protocollo nazionale per la cura sperimentata a Napoli, che è intanto iniziata anche allo Spallanzani di Roma, al Sacco di Milano e al Giovanni XXIII di Bergamo.

Attendiamo speranzosi la conferma definitiva della validità della cura, che varrebbe anche quale conferma dell’eccellenza della ricerca medica napoletana e meridionale, operante in regime di sperequazione tra Nord e Sud del paese.

La malaunità agroalimentare

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Angelo Forgione – Di seguito l’elenco dei 26 prodotti italiani IGP e DOP protetti dal recentissimo mutuo riconoscimento tra Unione Europea e Cina contro la contraffazione agroalimentare. Solo 2 sono del Sud:

Aceto balsamico di Modena
Asiago
Asti
Barbaresco
Bardolino Superiore
Barolo
Brachetto d’Acqui
Bresaola della Valtellina
Brunello di Montalcino
Chianti
Conegliano-Valdobbiadene – Prosecco
Dolcetto d’Alba
Franciacorta
Gorgonzola
Grana Padano
Grappa
Montepulciano d’Abruzzo
Mozzarella di bufala
Parmigiano Reggiano
Pecorino Romano
Prosciutto di Parma
Prosciutto di San Daniele
Soave
Taleggio
Toscano/a
Vino nobile di Montepulciano

Niente pomodoro San Marzano, uno dei più imitati e contraffatti al mondo. Niente Pomodorino del Piennolo del Vesuvio e Pachino. Nessun vino campano, siciliano, pugliese, lucano o calabrese. Niente Pasta di Gragnano o Melannurca campana. Niente cipolla di Tropea e Nduja di Spilinga. Niente lenticchie di Altamura o Arance di Sicilia. Per la macroregione del Mezzogiorno, solo il Montepulciano d’Abruzzo e la Mozzarella di bufala (tra l’altro anche prodotta indiscriminatamente al Nord, basta che non abbia il marchio del consorzio “Campania DOP”), che ha quote trascurabili nel mercato cinese per la storica avversione, da quelle parti, al latte e ai suoi derivati.

E questi sono invece i 32 prodotti inseriti nel CETA, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada, di cui solo 5 del Sud:

Aceto Balsamico di Modena
Arancia rossa di Sicilia
Asiago
Bresaola della Valtellina
Cappero di Pantelleria
Cotechino di Modena
Culatello di Zibello
Fontina
Gorgonzola
Grana Padano
Kiwi Latina
Lardo di Colonnata
Lenticchia di Castelluccio di Norcia
Mela Alto Adige
Mortadella di Bologna
Mozzarella di bufala campana
Parmigiano Reggiano
Pecorino Romano
Pecorino Sardo
Pecorino Toscano
Pesca e Nettarine di Bologna
Pomodoro di Pachino
Prosciutto Modena
Prosciutto di Parma
Prosciutto San Daniele
Prosciutto Toscano
Provolone Valpadana
Ricciarelli di Siena
Radicchio rosso di Treviso
Riso nero Vialone Veronese
Speck Alto Adige
Taleggio

E anche qui niente pomodoro San Marzano. Il pomodoro italiano più famoso nel mondo non solo non è protetto dalla contraffazione in Cina ma non è neanche promosso in Canada.

Così, mentre la trasmissione Report smaschera i furti di Stato alle città del Sud e il Rapporto Svimez 2019 “avverte” ancora una volta che lo Stato italiano ha abbandonato il Mezzogiorno, appare chiaro che anche l’Unione Europea da un lato richiama l’Italia alla mancata distribuzione dei fondi strutturali europei destinati al Sud e dall’altro approva quanto proposto dalla politica italiana, finendo per supportare accordi commerciali internazionali che rispecchiano la malaunità italiana e penalizzano fortemente il prodotto del Sud Italia.

Whirlpool in rosso taglia l’eccellenza napoletana

Angelo Forgione Gli stabilimenti in Italia del gruppo statunitense Whirlpool sono quasi tutti sotto la capacità produttiva. L’azienda ha perso quote di mercato e i conti sono in rosso.
Via alle cessioni, e si comincia da Napoli, dove vengono realizzate le lavatrici di fascia alta. Una fabbrica di eccellenza, premiata nel 2012 come la migliore tra le 66 del gruppo disseminate nel mondo per coinvolgimento delle risorse umane e capacità manageriale di trasferire ai dipendenti la strategia dell’azienda.

Dunque, si inizia a tagliare dall’eccellenza, non certo da un sito che produce male. Si comincia a dismettere da Sud, come sempre, ma poi vedrete che toccherà anche agli altri siti del gruppo. Perché gli statunitensi sono abituati a operare secondo le logiche del mercato internazionale, e se ne fregano degli accordi presi recentemente col governo italiano se gli obiettivi non sono stati raggiunti.

Ormai non c’è più la possibilità che certi elettrodomestici vengano prodotti in Europa occidentale, e men che meno in Italia, neanche se si tratta di produzione di alta gamma come quella di Napoli che garantisce margini di guadagno molto maggiori di quelli degli elettrodomestici destinati al mercato di massa.
È un problema di costi e di concorrenza cinese e, in generale, di altri mercati competivi. Ormai l’ovest europeo non è più concorrenziale, e i governi stanno abituando lentamente i loro operai a salari sempre più bassi e flessibilità per non soccombere alla produzione a basso costo dell’est. La domanda occidentale di prodotti di gamma alta è più bassa delle capacità produttive, e Napoli è esattamente il paradigma del problema.

La produzione delle migliori lavatrici Whirlpool, quelle made in Naples, sarà spostata in Polonia, che negli ultimi venti anni è diventata il centro della produzione di grandi elettrodomestici come lavatrici, frigoriferi, freezer e lavastoviglie, un po’ come la Cina lo è diventata per quelli più piccoli come ferri da stiro e forni a microonde. La manodopera polacca, quantunque cresciuta in quanto a costi rispetto a qualche anno fa, resta inferiore a quella italiana, così come il costo dell’energia, passando per la più bassa tassazione rispetto all’eccessiva pressione italiana ricca di balzelli.
La Polonia, insomma, favorisce lo sviluppo e l’occupazione, mentre l’Italia la ostacola. E non è un caso che quello polacco sia uno dei paesi più capaci di aggiudicarsi l’accesso ai fondi europei, mentre l’Italia è tra gli ultimi.

C’è da dismettere e si comincia dal sempre più desertificato Mezzogiorno, che sta tornando ai drammatici livelli del dopoguerra, quello delle valigie di cartone chiuse con lo spago. Fu allora che il varesino Giovanni Borghi scese a Napoli dalla Lombardia per un viaggio di lavoro, avvertendo il padre che sarebbe stato via per qualche giorno. Si innamorò della città e della sua umanità, e iniziò così la storia della fabbrica napoletana Ignis, rilevata nel 1991 dagli americani di Whirlpool.

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Arrivederci, capitano silenzioso

Angelo Forgione – Non sarai Maradona, il più forte fuoriclasse della storia azzurra. Non sarai neanche Cavani, il più prolifico. Ognuno ti collochi pure al posto che crede nel proprio cuore di tifoso, ma da quello della militanza non ti smuova nessuno. Quello è tuo!
Vai via in silenzio, forse troppo per essere uno dei Carpazi che si porta via Napoli letteralmente tatuata sulla pelle, un soprannome che parla di Napoli e tre figli napoletani. Ma tu sei così, hai gestito sempre tutto in rigoroso silenzio. Le sostituzioni, i record, i rinnovi, gli screzi con gli avversari, e poi il matrimonio, la famiglia, tutto… senza mai metterti in prima pagina e senza mai montare una polemica che sia una. Basso profilo, insomma, che è un paradosso per uno con un profilo come il tuo. Sì, ti sei fatto notare solo per quella cresta alla Mohawk che ti ha alzato in testa il tuo barbiere, e tanto che ti è piaciuta che non l’hai più abbassata. Il calciatore con la testa più a posto che si conosca con la testa più punk che si sia mai vista.
Ora ti tocca un altro mondo e l’ultimo contratto importante della tua carriera, una carriera contraddistinta dall’azzurro. Quello dello Slovan Bratislava, del Brescia, del Napoli e ora del Dalian. Ce l’avevi nel destino, anzi, ce l’hai proprio nel nome, in fondo. Noi, invece, ti abbiamo nel cuore, che pure è azzurro.
Arrivederci, capitano silenzioso.

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Storia del pomodoro e della sua diffusione nel mondo

Angelo Forgione Il pomodoro è uno degli alimenti-ingredienti più conosciuti nel mondo, grazie alla sua versatilità e alla capacità di associarsi a numerosi altri generi commestibili e a una grande varietà di erbe aromatiche. Ma per arrivare a questa diffusione ci sono voluti secoli e processi storici tra l’America del Sud, l’Europa occidentale e il Sud dell’Italia, che però non sono del tutto chiari ai più. Qual è la prima zona americana d’origine? Chi l’ha portato nel Vecchio Continente? Come si è diffuso? Domande apparentemente facili, alle quali si associano risposte spesso grossolane.

Il pomodoro è un frutto nativo del Sudamerica, della costa occidentale tra Ecuador, Perù e Cile, poi diffusosi in America centrale. Gli Aztechi lo chiamavano xitomatl, mentre il termine tomatl indicava i frutti in genere sugosi. La salsa di xitomatl divenne parte integrante dell’antichissima cucina azteca.

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zona nativa del pormodoro

El xitomatl azteco aveva due colorazioni: o rosso o tra il verde e il giallo. La data del suo arrivo in Europa è il 1540, e non per mano di Cristoforo Colombo, come molti pensano. Nei prodotti che il navigatore italiano presentò ai regnanti di Spagna, secondo la testimonianza di Lopez de Gomora, il pomodoro non figurò. Il vero “corriere” fu lo spagnolo Hernán Cortés, conquistatore del Messico nel 1519, che rientrò in patria e portò con se anche un carico di xitomatl aztechi.

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Hernán Cortés

Per gli spagnoli, la novità delle terre messicane divenne el tomate, ma non fu troppo apprezzata. Confusa con una variante di melanzana, altra introduzione del periodo, venne considerata un cibo dannoso e di poco nutrimento dai medici del ‘500 e del ‘600 e addirittura velenoso nella credenza popolare, sicché, nell’Europa barocca, restò confinato a lungo negli orti botanici e, come pianta ornamentale, nei giardini principeschi.
Il pomodoro giunse in Italia da Siviglia, centro principale di scambio internazionale coi possedimenti spagnoli, e fu proprio la varietà giallastra a dargli il nome italiano. Il medico toscano Pietro Andrea Mattioli, nella prima edizione del suo commento a Dioscoride (1574), parlò di sola qualità gialla. Di qui il termine da lui usato “mela aurea” o “pomi d’oro”, con riferimento alle mele d’oro che crescevano da un albero del leggendario Giardino delle Esperidi.

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un “pomo d’oro”

Nella seconda versione dello scritto del Mattioli, dieci anni più tardi, fu contemplata anche la qualità rossa: «in alcune piante rosse come sangue, in altre di color giallo d’oro».
Il medico umbro Castor Durante, nel suo Herbario nuovo (1585), scrisse delle specie gialle e rosse, e pur sapendo che “i pomi d’oro mangiansi nel medesimo modo che le melanzane con pepe, sale e olio”, aggiunse che “danno poco o cattivo nutrimento”.
S
olo più tardi, trovando condizioni climatiche favorevoli nel Sud Italia, più simili a quelle del Sud America, se ne diffuse la coltivazione. La prima significativa presenza in un ricettario fu firmata dal cuoco marchigiano Antonio Latini, scalco (capocuoco) al servizio del reggente spagnolo del viceregno di Napoli Esteban Carillo y Salsedo. Nel suo Scalco alla moderna, o vero l’arte di ben disporre i conviti, pubblicato a Napoli in due parti, tra il 1692 e il 1694, comparve una salsa di pomodoro “alla spagnuola”, fatta con cipolle, timo, sale, olio, aceto, peperoncino e pomodoro:

Piglierai una mezza dozzina di pomadore, che sieno mature; le porrai sopra le brage, a brustolare, e dopò che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il coltello, e v’aggiungerai cipolle tritate minute, a discrezione, peparolo [peperoncino] pure tritato minuto, serpollo in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l’accommoderai con un po’ di sale, oglio e aceto, che sarà una salsa molto gustosa, per bollito, ò per altro.

Grande impulso all’uso del pomodoro venne sempre da Napoli, nel secondo Settecento, sotto il regno indipendente di Ferdinando di Borbone e nel segno dell’incredibile rivoluzione agricola che fu da questi stimolata attorno alla capitale.

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Ferdinando di Borbone

Nel 1770, l’appena maggiorenne Re, raggiunta la maturità per governare, fu omaggiato di simbolici e preziosi doni dal viceré del Perù. Quel territorio era a quel tempo una colonia borbonica di Spagna, governata da Manuel de Amat, militare catalano che aveva partecipato nel 1734 alla liberazione di Napoli dagli austriaci nelle file dell’esercito di Carlo di Borbone, padre di Ferdinando e Re di Spagna da undici anni. Si trattò di un gesto di cordialità tra territori lontani, ma riconducibili a legami fortissimi.

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Manuel de Amat

Tra i vari doni vi erano anche dei semi di tomate, che Ferdinando, ben consigliato, fece piantare nelle terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico e il clima adatto produssero nel tempo, con varie azioni di selezione, la saporitissima varietà San Marzano.

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Pomodoro San Marzano DOP

A Napoli si diffuse anche l’uso della pasta, che ampliò l’offerta alimentare e garantì un prodotto di più lento deperimento rispetto alle tantissime verdure di cui facevano uso “i mangiafoglia” – così erano detti i napoletani, il cui piatto tradizionale era la minestra maritata – ma che non bastavano più a soddisfare l’esigenza di un popolo che cresceva enormemente in una città tra le più affollate d’Europa, insieme a Londra e Parigi. I napoletani divennero per tutti “i mangiamaccheroni”, ma il condimento non era il pomodoro, bensì, secondo la prima tradizione, con formaggio e spezie. Goethe, nel 1787 a Napoli, scrisse proprio di aver visto mangiare gustosi maccheroni in bianco con solo formaggio grattugiato.

«i maccheroni… si trovano da per tutto e per pochi soldi. Si cuociono per lo più nell’acqua pura, e vi si grattugia sopra del formaggio, che serve a un tempo di grasso e di condimento»

La salsa di pomodoro restò per lungo tempo il complemento di carne e pesce, e il pomodoro, come ingrediente, di minestre e stufati, di carni o di verdure, anche se già nel 1773 il cuoco pugliese Vincenzo Corrado, nel suo trattato culinario Il Cuoco galante, aveva accennato alla preparazione dei pomidoro.

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Il Cuoco Galante di Vincenzo Corrado

Il pomodoro non tardò molto a diventare lo sfondo di ogni sviluppo in cucina, a cambiare la pasta e anche la pizza, da bianca a rossa, colorandola come la conosciamo oggi. Va evidenziato che dal 1734 era già famosa a Napoli la ‘marinara’, ma diversa da quella attuale: acciughe, capperi, origano, olive nere di Gaeta e olio. Tutto cambiò nella prima metà dell’Ottocento, quando il pomodoro napoletano lungo fece irruzione in ogni parte del Regno. Ad esempio, venne aggiunto alla gricia, un guazzetto fatto coi pezzi di pecorino, pepe nero, guanciale e strutto che mettevano insieme i pastori abruzzesi di Amatrice, nella provincia dell’Abruzzo Ulteriore II del Regno. Nacque così la salsa all’Amatriciana, che si prese ad abbinare agli spaghetti napoletani (non ai bucatini; ndr), come da ricetta ancora in uso.
Nel 1839 fu stampato il trattato di Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, nella cui appendice Cucina casareccia in dialetto napoletano si lesse la prima ricetta dei viermicielli co le pommadoro, ma anche di “sugo di stufato” sui maccheroni, in seguito definito “brodo rosso”, e ancora “sugo di carne ovvero brodo di ragù, terminologia napoletanizzata della parola francese ragoût (risvegliare il gusto, l’appetito) per descrivere la celebre salsa partenopea che iniziò ad arricchire il sapore della pasta.

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Cucina Teorico-Pratica di Ippolito Cavalcanti

La tradizione di condire con sugo di pomodoro la pasta si era ormai costituita, ma non era ancora prevalente. A metà Ottocento, i calendari napoletani indicavano le paste con sugo di anguilla, con le vongole, con sugo di carne o di pesce, e la stessa pizza tricolore, che si preparava ben prima dell’omaggio fatto alla regina Margherita di Savoia, era una sporadica opzione estiva.
Dopo l’Unità d’Italia, il piemontese Francesco Cirio, che aveva aperto la strada della conservazione degli alimenti, non perse l’occasione per recuperare vaste aree agricole abbandonate dai contadini meridionali, e aprì alcuni stabilimenti nei dintorni di Napoli, impegnandosi personalmente nel recupero della produzione nelle campagne vesuviane. Nacque così, nel 1875, il mito dei pomodori pelati Cirio.

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Francesco Cirio

Il Primo Ministro Agostino Depretis, socio di Cirio, favorì tra mille polemiche la “legge Cirio”, in sostanza un contratto agevolato anti-concorrenza con la Società Ferrovie Alta Italia per la spedizione di migliaia di vagoni di alimenti all’estero a tariffe di gran favore.

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immagine pubblicitaria dei pomodori in scatola Cirio

Iniziò così l’esportazione in Europa e poi nel mondo delle conserve di pomodoro San Marzano. Da Napoli, attraverso l’inaugurazione dell’export, le immagini pubblicitarie e gli scritti che decantavano la bontà del massiccio uso partenopeo del pomodoro, partì la diffusione delle colture, che oggi, nelle varie tipologie, producono in quantità massicce un po’ ovunque, a partire da Cina, Stati Uniti, India, Turchia, Egitto e Marocco. L’Italia è dietro, ma primeggia per qualità e sapore di diverse tipologie. Provino gli altri a eguagliare il sapore di uno spaghetto al pomodorino “piennolo” DOP del Vesuvio.

un articolo che celebra il matrimonio tra gli aztechi e i napoletani

«Ganso al Napoli? Non bastano i soldi della camorra». Parole di chi vide sfilarsi Careca.

il presidente del club di San Paolo “dimentica” il PPC ma non l’estate 1987

Angelo Forgione – Inqualificabile uscita di Carlos Miguel Cástex Aidar, presidente del club di San Paulo, per commentare ai microfoni di Radio Jovem Pan la voce di calciomercato che vorrebbe il Napoli sul calciatore paulista Ganso: «Non bastano neanche tutti i soldi della Camorra per portarcelo via. Il Napoli non ha forza economica per garantirci i 25.000.000 di euro necessari per l’acquisto: la Camorra non ha più tutto questo potere.»
Veramente un galantuomo il numero uno paulista, uno dei tanti del mondo del calcio, che di organizzazioni criminali se ne intende. Lui, che è avvocato basiliano, conosce benissimo le gesta del pericolosissimo PCC, il Primeiro Comando da Capital, la mafia di San Paolo, che, secondo i rapporti del governo brasiliano, è la più grande organizzazione criminale del Brasile, con ramificazioni in Paraguay e Bolivia, alleanze con la Yakuza giapponesemafia cinese, e un’adesione di circa 13.000 soci, 6.000 dei quali in carcere.
Ma un motivo per tanto sprezzo nei confronti di Napoli Aidar lo serba probabilmente dall’inverno del 1987. A quell’epoca, per un primo mandato, era già stato presidente del San Paolo e andò su tutte le furie quando il Napoli gli strappò Antonio Careca con un accordo privato e in tempi strettissimi. Il grande attaccante, ambito da mezzo mondo, si mise in testa di giocare a tutti i costi con Maradona e decise fermamente la sua destinazione, forte di una scrittura privata che gli permise di svincolarsi a circa due milioni di dollari. Il Napoli versò fulmineamente due miliardi e 600 milioni di lire. Aidar trattò con un club spagnolo, sapeva di poterne avere molti di più, almeno il doppio, per un fuoriclasse di quel genere, che passò al club partenopeo a prezzo “stracciato” e senza una trattativa con la società di appartenenza. Lo scontro con Ferlaino fu durissimo ma i tentativi di far saltare l’accordo non sortirono alcun effetto. Careca firmò a maggio e si unì a Maradona nel matrimonio più bello che il San Paolo, lo stadio, abbia mai celebrato. Aidar dovette arrendersi, e non bastò l’incasso di un’amichevole Napoli-San Paolo (foto) a placare la sua ira. Dopo ventisette anni, Aidar non ha ancora dimenticato. Lo stile, a prescindere, non si compra e non si vende.

Al “San Carlo” l’oscar della lirica

Premio “Abbiati” dopo il grande successo di Hong Kong

Angelo Forgione per napoli.com È stato assegnato al Real Teatro di San Carlo il prestigiosissimo premio della critica musicale “Franco Abbiati”, il sesto della storia del glorioso Massimo napoletano, considerato “l’oscar della lirica italiana”. L’Associazione nazionale dei critici musicali ha premiato l’allestimento di Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni  firmato da Sergio Tramonti, andato in scena nella scorsa stagione con la regia di Pippo Delbono. La cerimonia di consegna si terrà mercoledì 27 maggio al teatro Donizetti di Bergamo.
La sovrintendente Rosanna Purchia può gioire dopo il successo strepitoso di una tournèe tenuta a marzo al prestigioso Hong Kong Arts Festival. Nell’ex colonia britannica, tredici minuti cronometrati di applausi per la Traviata di Ozpetek, pienone in tutte le rappresentazioni e merchandising con il marchio del Massimo partenopeo andato letteralmente a ruba. Il San Carlo continua a propagare la sua energia anche all’estero, ed è un’ottima notizia per l’eccellenza e la cultura napoletana.