––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione–Spuntano striscioni spinti contro Aurelio De Laurentiis in varie zone di Napoli e sale la contestazione di quella parte di tifoseria avversa al patron azzurro. La traversata in apnea di Higuain in direzione della sponda nemica, quella bianconera, ha sconquassato la piazza e dato fiato ai contestatori, in sordina tra ottobre e giugno scorsi. La verità è che si tratta di sindrome di Toto Cutugno, nel senso che i tifosi napoletani, come tutti i tifosi delle squadre al vertice, vogliono vincere e parte di questi non sopportano di vedersi precedere dalla Juventus. È un’ossessione bianconera, reale quanto insensata. A certa parte di tifosi azzurri, il Napoli costantemente al vertice non basta. Non basta che sia la squadra che abbia vinto di più (tre coppe nazionali) dopo la schiacciante Juventus dell’ultimo lustro, alla quale ha tolto due trofei sul campo e sotto al naso. Non basta che, dopo la Juventus, sia il Napoli la squadra che abbia fatto più punti di tutte nelle ultime cinque stagioni. Non bastano i secondi posti, la tre qualificazioni dirette alla Champions League, il record italiano in fieri di partecipazioni alle competizione europee (7), la finale UEFA scippata dagli arbitri, il prestigioso ranking UEFA (pos. 17) secondo in Italia solo alla Juve, i conti in ordine di una società che è tra le prime 30 nel mondo per solidità finanziaria. Insomma, il vero problema del Napoli non è De Laurentiis ma la Juventus. Oggi gli azzurri rappresentano l’alternativa più autorevole ai bianconeri perchè da diverse stagioni sempre al vertice, seppur con fortune alterne. Ma, paradossalmente, questo ruolo crea tensioni e aspettative soverchie.
Per certi tifosi napoletani, il Napoli deve vincere, ma non si comprende per chissà quale elezione divina debba farlo. «Siamo il Napoli!», dicono, come se si trattasse del Real Madrid o del Barcellona. Insomma, il tifoso napoletano sovradimensiona le potenzialità della squadra del cuore commisurandole al bacino d’utenza, il quarto d’Italia, ma ignorando beatamente la storia. Eppure non ci vuole un matematico per contare quanti trofei importanti abbia messo il Napoli in bacheca. 10, solo 10 in novanta anni di competizione nazionale, più quattro di emarginazione meridionale. I tre più importanti (2 scudetti e 1 Coppa Uefa) strappati al potere da Sua Maestà El Diez dopo oltre sessant’anni di vita del sodalizio azzurro. 5 trofei griffati Maradona, anche se oggi vengono stranamente attribuiti a Corrado Ferlaino, che Maradona se lo ritrovò in pacco regalo dalla politica democristiana nel bel mezzo delle tensioni sociali post-sisma irpino e dovette assecondarne le aspirazioni, incassando 20 miliardi stagionali e spendendone 35 solo per gli ingaggi dei calciatori che l’argentino pretese vicino per vincere. E infatti l’ingegnere, nei precedenti diciotto anni di presidenza, aveva vinto solo una Coppa Italia. Consumato il lungo e profondo effetto sportivo e sociale prodotto da Maradona, il suo Napoli piombò nuovamente nell’anonimato, zavorrato dai debiti prodotti negli anni dei trionfi, e non solo non vinse più nulla ma finì estinto dal tribunale fallimentare dopo una lunga agonia più che decennale. Eppure oggi alcuni dicono che baratterebbero uno scudetto con gli anni dell’oblio, con un fallimento, forse perché hanno dimenticato cosa significò, o forse non l’hanno vissuto. Troppi se ne infischiano di una società che si è assestata solidamente al vertice del calcio italiano e fa pronunciare il suo nome, e quello della città, nell’Europa che conta. Eppure oggi sembra che ci si sia dimenticati degli striscioni e delle scritte disseminate sui muri della città per anni, alcune ancora leggibili, quei “Ferlaino vattene” urlati anche allo stadio, le molotov lanciate nella sua villa tra via Tasso e il corso Vittorio Emanuele, le auto incendiate nel suo giardino. Perché è così che funziona a Napoli, quando assapori la vittoria, o magari la annusi, e poi le cose non vanno nel verso sperato. Se non vinci, a Napoli, finisci nel mirino della contestazione, e che la squadra sia seconda o ultima poco cambia. Tuttavia, oggi Ferlaino è persino rivalutato da qualcuno perché il suo Napoli, quello maradoniano, ha vinto, e lui stesso va in tivù a pontificare, a dire che De Laurentiis deve rischiare, ben sapendo che lui non lo avrebbe mai fatto se non fosse stato costretto dal sicuro linciaggio all’eventualità della cessione di Maradona, e perciò, per trattenerlo a Napoli, dovette creare i presupposti per le successive tragedie sportive.
La mia posizione è netta e coerente da tempo, perché so bene cosa gira dietro le quinte del Calcio italiano, avendone studiata la storia e la struttura. Incasso spesso le ormai classiche volgari accuse che toccano a chi cerca di elevare il ragionamento sulla condizione e sulla conduzione del Napoli. Non amo certi modi di Aurelio De Laurentiis, ma è questione caratteriale che lede evidentemente la sua persona. Di errori gestionali ne commette, ma, al netto delle evidenti carenze di una conduzione di tipo familiare, è persona che ha garantito un percorso sportivo stabile e di alto livello. Inutile continuare a sperare che piova dal cielo uno sceicco e venga a prendersi una società il cui limite reale non è l’assenza di impianti propri e di un settore giovanile strutturato. Quelli, chi ha vagonate di soldi da investire, li tira su quando e come vuole, se vuole. Il vero limite – lo ribadisco ancora una volta – è territoriale; è l’assenza nel territorio napoletano, tra i più depressi d’Europa, di quelle reali opportunità che i grandi investitori cercano quando acquistano un club europeo, quelle opportunità di investimenti con regimi fiscali agevolati, ma anche opportunità certe di accredito presso la grande finanza internazionale, che da Napoli è decisamente distante. Ed è per i suoi limiti territoriali che il grande Napoli, in un calcio nato e dominato al Nord, ha vinto poco nella sua storia. Pertanto sarebbe bene disilludersi, e pure di smetterla di soffrire la forza indigena della Juventus, che è un’egemonia superiore, un potere che, nel 2000, è stato capace di portare nella propria orbita il Torino e di farlo fallire pur di prendersi l’area contesa del vecchio stadio Delle Alpi per costruirvi lo Stadium di proprietà. Non si tratta di pensare in piccolo ma di mettere a fuoco la realtà italiana e capire che gli eredi Agnelli, Andrea e il cugino John Elkann, sedati i contrasti dinastici nel 2010, dopo la morte dei due patriarchi Gianni e Umberto, hanno assunto l’uno la gestione della Juventus e l’altro quello della Fiat, con giurisdizione sportiva sulla Ferrari. Andrea ha deciso da allora che il club bianconero dovesse tornare a dominare dopo lo schiaffo di Calciopoli, annullando totalmente la concorrenza interna. Ha puntato tutto sul record consecutivo di scudetti nazionali, per spazzare via l’impresa d’epoca fascista del nonno Edoardo. Nei suoi sogni c’era e c’è anche la Champions League, e dopo averla accarezzata a Berlino prova ora a giocarsela a suon di clausole milionarie e ingaggi top, e a dare una strombazzata internazionale proprio mentre la Ferrari di Marchionne sta fallendo la sua annunciata rinascita. Ci sono in ballo le gerarchie di una famiglia sdoppiata e in evoluzione dei suoi delicati equilibri. I due giovani discendenti stanno gareggiando a chi consegue più risultati e lustro nelle loro aziende, e non c’è niente di più efficace che incassare credito dimostrando la propria leadership al mondo attraverso i risultati nel ricco mondo dello sport, dove è polarizzata l’attenzione di milioni di appassionati che chiedono solo di vincere e dove i trionfi possono spostare gli equilibri al ricco tavolo della Exor. Restare schiacciati dagli effetti di certi giochi di potere, utili alla deteriore personalità di un ex bomber azzurro bramoso di allori, significa solo alimentare complessi di inferiorità inutili, che di certo non si sgonfiano con striscioni ostili e contestazioni cervellotiche al Napoli tra i due più forti della storia.
Angelo Forgione – Sapevate che Giovanni Agnelli senior non fondò la Fiat ma partecipò da comprimario alla cordata di imprenditori e se ne impossessò con oscure macchinazioni? Sapevate che il principale finanziatore della Fiat fu trovato morto dopo aver denunciato illeciti interni? Sapevate che la Magistratura di Torino indagò e processò Giovanni Agnelli senior per truffa ai soci? Sapevate che Giovanni Agnelli senior strinse un patto di convenienza con Mussolini e fece in modo di ostacolare l’acceso della Ford in Italia? Sapevate che, dopo la guerra, Giovanni Agnelli junior e Vittorio Valletta strinsero un patto con gli americani ed entrarono nel gruppo Bilderberg? Sapevate che gli Agnelli hanno beneficiato di un sostanziale monopolio secolare? Sapevate che, nel 2000, un partner commerciale degli Agnelli comprò il Torino e, prima di farlo fallire, lasciò alla Juventus il conteso terreno della Continassa per la costruzione del nuovo stadio bianconero? Conoscete tutti gli intrecci tra la Fiat e la Juventus?
Tratto da Dov’è la Vittoria (Magenes), pubblico parte del capitolo “Il Regno d’Italia”, dedicato alla dinastia che, attraverso la Fiat e la Juventus, vetrina sportiva di famiglia, ha costruito una fortuna oggi ereditata da due rami famigliari. Non si può dare completa spiegazione alla lunga egemonia industriale della casa nata e cresciuta a Torino e allo storico dominio nazionale del pluriscudettato club bianconero senza conoscere la storia della famiglia Agnelli, lontano dai più stantii schemi agiografici.
Juventus e Fiat. È il matrimonio tra Calcio e Industria più duraturo e significativo del panorama sportivo nazionale. Se la storia tra il Milan e Berlusconi è proseguita per 29 anni e quella dell’Inter coi Moratti è durata complessivamente 34 stagioni (15 Angelo e 19 Massimo), il legame tra la Juve e la famiglia Agnelli, temporaneamente interrotto nel periodo 1936-1947, ha macinato fin qui ben 89 anni, ed è decisamente saldo. Non c’è altro club di rilievo internazionale che abbia un’identificazione così antica con la sua proprietà. Si tratta di un binomio-paradigma degli intrecci tra sport, politica e finanza che hanno attraversato un secolo d’Italia, e merita un approfondimento per la sua specificità. Tutto iniziò il 24 luglio 1923, 26 anni dopo la fondazione della Juventus, quando il trentunenne Edoardo Agnelli ne acquisì la proprietà, inaugurando una costante della storia nazionale: la Fiat in camicia bianconera. In quella squadra degli anni Venti militava il terzino Antonio Bruna, un operaio che trovava difficoltà ad allenarsi per via degli impegni in fabbrica. Il caporeparto non volle accordargli un permesso e così il difensore pensò bene di andare a chiedere al dirigente juventino Sandro Zambelli di parlare con Giovanni Agnelli senior. Non era una richiesta semplice in quegli anni di aspre battaglie operaie avversate dal padrone e dal Regime fascista, eppure l’impavido dirigente si fece ricevere nell’ufficio presidenziale e iniziò a parlare di Calcio e di quel giocatore che necessitava di allenamento. Agnelli acconsentì, inaspettatamente. Tanta disponibilità poteva permettere di alzare le richieste, e il lungimirante Zambelli approfittò per chiedere al suo interlocutore di acquistare la proprietà della Juventus. Lo scaltro imprenditore non mostrò interesse al coinvolgimento diretto nel club torinese, ma intuì che il Calcio, fenomeno in ascesa, avrebbe assicurato il favore popolare alla famiglia, e che avrebbe potuto concedere il ruolo al figlio Edoardo, non troppo coinvolto nella gestione aziendale. Erano gli anni in cui il Fascismo attirava a sé ogni ramo della cultura e dell’intrattenimento per dare una diversa identità al popolo italiano e una nuova immagine alla Nazione. Nuova immagine se la stava dando anche la Fiat, con la costruzione e l’inaugurazione nel 1922 del Lingotto, l’avveniristica fabbrica pensata sull’esempio della Ford. L’impatto con la modernità portò all’acquisizione della Juventus, club dilettantistico da trasformare in qualcosa di ben più organizzato. Edoardo Agnelli diede corpo alla filosofia del finanziamento industriale in cambio di passione e consenso, rendendo grande una squadra modesta che, con il sostegno motoristico, non avrebbe mai smesso di guadagnare il riconoscimento popolare. Il rampollo sarebbe rimasto in sella per 12 anni, davvero importanti: 6 scudetti, di cui 5 di fila. Improvvisamente, nel luglio del 1935, si rovesciò con un idrovolante nel mare genovese e se ne andò prematuramente.
La Juventus era nata il 1 novembre 1897 per iniziativa di un gruppo di giovani studenti del liceo classico D’Azeglio che, dopo le lezioni, erano soliti recarsi in corso Duca di Genova per la ricreazione pomeridiana. Avevano visto giocare il Foot-ball al parco del Valentino e in piazza d’Armi, e si erano quindi associati. Mentre la beata gioventù dava vita alla Juventus, in quella Torino un certo Giovanni Battista Ceirano, meccanico cuneese che costruiva velocipedi, coltivava il sogno di costruire carrozze automobili senza cavalli. 20 mesi dopo sarebbe nata la F.I.A.T.
L’11 luglio 1899 è la data del raduno di una cordata composta da una decina tra nobili, aristocratici e imprenditori allettati dalle prospettive aperte dall’iniziativa di Ceirano. Appuntamento nella sede del Banco di Sconto e Sete, un istituto di credito torinese partorito nel 1863 dalla fusione dalla Cassa di Sconto di Torino e quella di Genova, sotto l’alto patrocinio della famiglia Rothschild, e lì fu versato il capitale sociale per la fondazione della Società Anonima Fabbrica Italiana di Automobili – Torino. Fu proprio il meccanico di Cuneo a mettere insieme i soci benestanti per l’inizio dell’avventura, sostenuta in prima linea dal conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, nel cui studio, il 1 luglio, fu sottoscritto l’atto di costituzione.
.
Le manovre di Giovanni Agnelli per prendersi la Fiat
Nella cordata anche Giovanni Agnelli. Non un nobile, ma un imprenditore agricolo con grande disponibilità di danaro. Fu coinvolto in extremis per coprire parte della quota azionaria di Ceirano, escluso ingiustamente dai finanziatori per questioni di rango e di risorse, e liquidato in cambio di brevetti, progettisti, maestranze e sogni.
Giovanni Agnelli senior
Nato nell’agosto del 1866, Agnelli proveniva da una famiglia borghese di proprietari terrieri originaria di Racconigi. Dopo un principio di carriera militare al servizio del re Vittorio Emanuele II di Savoia, si era dedicato all’azienda agricola di famiglia e alla carriera politica nel paese natio, Villar Perosa. Trasferitosi a Torino nel 1892, a 26 anni, era entrato in contatto con l’aristocrazia locale, appassionata di meccanica e automobilismo. Era stato proprio il nobile possidente Ludovico Scarfiotti, eletto presidente (al conte di Bricherasio andò solo la carica di vicepresidente), a interessarlo all’ultimo istante nell’avventura industriale della nascente F.I.A.T., di cui ottenne il ruolo formale di segretario del Consiglio di Amministrazione. Fu ugualmente l’inizio di una scalata impensabile, partita dalle prime presenze alle riunioni del C.d.A., passando per la candidatura vincente a membro delegato del Consiglio con ampi poteri, carica che gli consentì di mettere le mani sulla gestione commerciale e sui conti dell’impresa.
I conflitti tra i soci non tardarono ad arrivare e qualcosa iniziò a non quadrare al principale finanziatore, Emanuele Cacherano di Bricherasio, che nell’autunno del 1904 annunciò di voler verificare le carte per denunciare illeciti e intrighi di cui si era convinto. Non riuscì a portare avanti il suo proposito poiché fu trovato morto nel castello del duca Tommaso di Savoia-Genova, cugino del re Vittorio Emanuele III, dove gli inquirenti dissero si era suicidato con un colpo di pistola alla nuca. Motivi del gesto oscuri e versione ufficiale non suffragata da alcuna autopsia, inchiesta o spiegazione. Solo un nobile amico, il grande cavallerizzo Federico Caprilli, ne vide il corpo prima del funerale, riferendo che il viso e le tempie erano integri. La sorella del defunto conte di Bricherasio affidò le indagini sulla morte proprio a Caprilli, il quale, 3 anni dopo, alla vigilia delle sue annunciate dimissioni dall’esercito che lo avrebbero svincolato dal giuramento di fedeltà al Re, morì con il cranio sfondato. Altro mistero. Si disse che era rimasto vittima di una caduta da cavallo nella notte, in una strada innevata di Torino. Anche per lui niente autopsie, niente inchieste e nessuna spiegazione: solo una frettolosa sepoltura e la distruzione del baule in cui era custodita la corrispondenza con l’amico Emanuele. Giovanni Agnelli mostrò ambizione e arrivismo, riuscendo a scalzare già nel 1906 molti dei restanti fondatori con un complesso gioco azionistico-bancario che gli garantì la maggioranza, approfittando poi dei guai che coinvolsero l’azienda col primo crollo della Borsa del 7 luglio 1907. Mentre i quotidiani smascheravano una truffa ai danni dei soci estromessi, la questura di Torino, nel 1908, denunciò lui e altri dirigenti per “illecita coalizione, aggiotaggio in Borsa e alterazione di bilanci sociali”, convinta del fatto che il dissesto finanziario della F.I.A.T. dovesse attribuirsi a sue losche macchinazioni. Secondo le indagini, Agnelli aveva provocato nel biennio 1905-1906 “enormi e ingiustificati rialzi nelle azioni della F.I.A.T.” affinché l’azienda venisse posta in liquidazione, per poi rifondarla immediatamente senza i soci originari e priva dei punti nell’acronimo (Fiat). Le accuse riguardavano anche la diffusione di false notizie di importanti commesse provenienti dall’America, mai ricevute, e la rassicurazione agli azionisti sulla prosperità dell’azienda attraverso il pagamento di corposi dividendi, tutti garantiti da un mutuo concesso da un consorzio di banche e aziende creditrici capeggiate dalla compiacente Banca Commerciale, prestatasi per salvare l’azienda. Agnelli, dopo il rinvio a giudizio per aggiotaggio e truffa, andò a processo nel 1911, in un clima di forti manovre politiche e sotto la protezione dal capo del Governo, il cuneese Giovanni Giolitti, che già nel 1907 gli aveva concesso la croce di Cavaliere al merito del lavoro e che aveva nel frattempo riempito il Senato di piemontesi. Sulla Magistratura di Torino fece pressione la massoneria, attraverso il ministro di Grazia e Giustizia Vittorio Emanuele Orlando, libero muratore, che dichiarò:
«Un’azione penale nei confronti di Agnelli avrebbe conseguenze negative sulla nascente industria nazionale, in particolare piemontese.»
Agnelli, che aveva fornito mezzi militari per la vittoriosa guerra in Libia, fu assolto con formula piena e a nulla servì il ricorso del pubblico ministero, che in secondo grado di giudizio si trovò contro l’ormai ex-ministro Orlando in difesa dell’imputato e i dirigenti della Banca Commerciale come testimoni. Alla fine della Grande Guerra l’industriale riuscì ad acquisire la maggioranza del capitale azionario, completando l’ascesa al trono della Fiat.
Il patto Fiat-Fascismo durante il Regno d’Italia
Mussolini e Agnelli a Torino nel 1932
La trasformazione da fabbrica locale ad azienda di fama mondiale si concretizzò durante il Fascismo, quando il monarchico Agnelli, consapevole che gli italiani non disponevano né di un reddito sufficiente per permettersi le automobili né di autostrade su cui farle sfrecciare, produsse forniture belliche negli stabilimenti torinesi, in modo massiccio e anche per il mercato estero. Ormai piegato il movimento di lotta operaia che aveva prodotto l’occupazione delle fabbriche nel cosiddetto “Biennio rosso” 1919-1920, e completato nel 1922 l’imponente stabilimento del Lingotto sul modello americano della catena di montaggio introdotto da Henry Ford, Agnelli sostenne con immediato opportunismo la formazione del Governo Mussolini (1922), ricambiato con la nomina a senatore del Regno (1923). Dopo il delitto dell’antifascista Giacomo Matteotti, l’industriale piemontese votò a favore del Duce la fiducia in Parlamento e, allo stesso tempo, intrattenne relazioni con il Regime, seppur in modo tale da sembrare per quanto possibile apolitico. In realtà, tra Agnelli e Mussolini non vi era simpatia e il sostegno reciproco fu dettato dagli interessi. Da un lato, il presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia non pretendeva dall’industriale plateali manifestazioni di lealtà ideologica, consapevole che la Fiat fosse utile all’economia nazionale e necessaria alla politica internazionale del Regime. Dall’altra, ciò che interessava ad Agnelli era far leva sul nazionalismo esasperato di Mussolini, che tornava utile alla sua azienda sia in termini di spinta del prodotto interno che nella repressione del movimento dei lavoratori. Il do ut des si concretizzò nell’acquisizione de La Stampa di Torino (1926) e di altri quotidiani – gli stessi che in passato avevano denunciato le irregolarità compiute da Giovanni – coi favori dalle autorità fasciste. Attraverso la carta stampata, Agnelli si assicurò i favori dell’opinione pubblica e la protezione della Casa Reale, mentre i gerarchi, dal canto loro, allinearono la stampa alle direttive e alla propaganda di Regime.
In conseguenza della lunga recessione dell’economia occidentale, causata dal crollo della Borsa americana del 1929, per la Casa torinese si chiusero le porte del mercato estero e il fatturato si ridusse considerevolmente. La sopravvivenza passò per l’annullamento di ogni concorrenza interna, a cominciare da quella della pericolosa Ford. La casa americana, che retribuiva i suoi operai 4 volte di più e vendeva le sue autovetture a un prezzo 4 volte inferiore, si era già insediata in Italia nel 1923 con una fabbrica a Trieste e cercò di sfondare definitivamente sul mercato locale con uno stabilimento a Livorno, progettato con la collaborazione di finanzieri e imprenditori milanesi e con l’appoggio del gerarca fascista livornese Costanzo Ciano, suocero di Edda Mussolini. Agnelli, impaurito dalle più moderne e potenti presse americane che aveva ammirato personalmente a Detroit, protestò fortemente col Duce, che ne accolse i timori e disse no al suo influente gregario. Dapprima furono aumentati i dazi doganali sulle autovetture estere del 130%. Successivamente, una volta varata una legge straordinaria per includere l’industria automobilistica tra le attività interessanti la difesa nazionale, fu impedito il commercio di autovetture non costruite integralmente in Italia e furono chiusi d’autorità gli stabilimenti Ford a Trieste. Favori enormi per Giovanni Agnelli, che non poté più nascondersi quando la Fiat divenne apertamente un’azienda protetta dal Regime. Puntualmente “consigliato” dal prefetto di Torino, il senatore prese opportunamente la tessera del Partito Nazionale Fascista e la scrittrice Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, per commentare il matrimonio di convenienza, scrisse:
Agnelli affettava con umiltà un’assoluta innocenza nelle cose della cultura e della politica, ma non ci voleva molto ad accorgersi che la prima era fatta di disprezzo, e la seconda di calcolo e paura.
Forte della sua consolidata posizione in Italia, l’industriale torinese fece fronte al calo del fatturato riducendo orari di lavoro, salari e maestranze. Per risollevarsi, volle fortemente l’autostrada Torino-Milano, inaugurata nel 1932 dopo aver decimato le casse dello Stato; si oppose al paventato rilancio delle ferrovie e sfornò, sempre nel 1932, l’automobile che avrebbe dovuto avviare la motorizzazione in Italia. La chiamò “Balilla”, soprannome del giovane che nel 1746 accese la scintilla dell’insurrezione per la cacciata degli austriaci da Genova, simbolo di patriottismo adottato dal Regime per formare lo spirito, la cultura e il fisico dei ragazzi italiani. Un segno dovuto di riconoscenza al Duce, per sedurlo in cambio di altri favori. Il successo commerciale della vettura necessitava infatti di un ulteriore aiuto politico: la concessione di agevolazioni fiscali. Benito voleva “l’auto del popolo”, ma non nutriva simpatia per Giovanni e non vedeva di buon occhio le vetture Fiat perché, da appassionato di corse automobilistiche, preferiva decisamente le sportive Alfa Romeo, pure più consone all’immagine dinamica che di sé dava al Paese e che del Paese dava al mondo. Solo dopo aver capito che il prezzo contenuto e le buone soluzioni di compromesso della “Balilla” avrebbero dato uno slancio alla massiccia motorizzazione degli italiani concesse la totale esenzione dal pagamento della tassa di circolazione per un anno, equivalente a circa uno stipendio dell’epoca.
Sempre nel 1932, Mussolini decise di festeggiare alla Fiat il decimo anniversario della marcia su Roma, accolto in fabbrica da Giovanni Agnelli in camicia nera. Un anno dopo uscirono dallo stabilimento torinese i treni popolari battezzati “littorine”, in onore al fascio littorio.
Neutralizzata la concorrenza estera in Italia, tutto era funzionale a sottomettere anche quella nazionale, rappresentata dall’Alfa Romeo, molto competitiva, ammirata dal Duce e rispettata anche dagli americani. L’ingegnere napoletano Nicola Romeo, di Sant’Antimo, aveva rilevato nel 1915 la fallimentare A.L.F.A. (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili) di Milano, rendendola nel tempo tra le migliori fabbriche di automobili al mondo, apprezzata da Henry Ford, il quale, per esternare la sua ammirazione, dichiarò:
«Quando vedo un’Alfa Romeo mi tolgo il cappello.»
Nello stabilimento napoletano di Pomigliano d’Arco, Nicola Romeo costruiva anche trattori, locomotive e persino aeroplani e idrovolanti militari e civili. Ma il crollo di Wall Street e la conseguente recessione portarono all’accumulo di debiti enormi per un’impresa in concorrenza con la privilegiata Fiat. In soccorso delle aziende in difficoltà e delle banche ad esse vincolate accorse Mussolini, che, per proteggere l’economia del Nord Italia, nel 1933 creò l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, col compito di finanziare il rilancio e di acquistare dagli istituti di credito le azioni delle imprese in difficoltà. Fu fatto a prezzi decisamente più alti dei valori effettivi, in modo da dare ossigeno sia alle banche che alle aziende. Lo Stato si accollò la crisi generale e la stessa Alfa Romeo diventò statale, cessando di rappresentare un serio pericolo per la Fiat.
Favorita dalla politica autarchica del Regime, l’azienda di Giovanni Agnelli costruì alla fine degli anni Trenta un nuovo stabilimento a Mirafiori, inaugurato nel maggio del 1939 alla presenza di Mussolini, che arrivò con due ore di ritardo a bordo proprio di un’Alfa Romeo. La provocazione fu forte e dettata dal fatto che, nonostante lo stato maggiore della Fiat fosse schierato in camicia nera nel piazzale, gran parte delle maestranze era socialista e comunista, e il Duce sapeva che quella gente gli era avversa perché insoddisfatta dalle promesse non mantenute, dal rincaro dei prezzi e dalle restrizioni dei consumi imposti dalla politica economica dell’autarchia. In effetti, quel giorno, gli operai non si mostrarono particolarmente felici di assecondare il comizio del Duce. Poche ovazioni e molti silenzi all’annuncio di nuove promesse. Mussolini si irritò fortemente e al termine del furioso comizio voltò le spalle per andarsene. L’ormai settantatreenne Agnelli gli corse dietro, lo afferrò per le spalle e lo convinse a tornare indietro per salutare la folla; Mussolini tornò, fece il saluto romano, e poi se ne andò definitivamente, a cerimonia in corso, non prima di essersi sfogato sottovoce all’indirizzo dei 50.000 operai presenti:
«Questi piemontesi sono tutti dei porci.»
Non erano tutti piemontesi. C’erano anche molti veneti, friulani e pugliesi, confluiti a Torino per fare della Fiat il più grande polo operaio del Paese, ed erano decisi a dare corpo a una nuova lotta di classe, in passato soppressa con la forza dall’alleanza tra Fascismo e classe industriale italiana. L’incidente diplomatico innervosì fortemente Mussolini, che non sarebbe più tornato a Torino. Rivolgendosi ai “piemontesi” intese riferirsi alla Torino piena di operai, in cui serpeggiava l’antifascismo, e ai vertici aziendali della Fiat, ben conscio che il gran calcolatore Agnelli chiamava i gerarchi del Partito Nazionale Fascista «quei coglioni di Roma». Certo, l’Alfa Romeo fu spodestata in alcune grandi forniture statali a beneficio dell’azienda torinese, ma i rapporti tra i due peggiorarono col gravare delle imposte generate dalle ambizioni belliche del Governo fascista e si ruppero definitivamente nel 1943, quando proprio a Mirafiori iniziò lo sciopero che portò moltissimi operai del Nord Italia a protestare e a dare le prime spallate al Regime, poi caduto alcuni mesi più tardi.
Il patto Fiat-Stati Uniti-Italia durante la Repubblica
Vittorio Valletta e Giovanni Agnelli junior
La rottura fra potere economico e Fascismo si palesò a guerra persa, tra l’inverno del 1942 e la primavera del 1943, con le fabbriche del gruppo danneggiate dai bombardamenti. Agnelli, come una bandiera al vento e in difesa dei suoi interessi, si produsse in un gioco diplomatico su tutti i fronti, concedendo sovvenzioni al movimento partigiano, creando rapporti economici con gli Alleati anglo-americani, mantenendo legami coi fascisti e sostenendo il colpo di Stato. Ammiccò infatti al generale Pietro Badoglio, candidato a sostituire Mussolini alla guida del Governo, ruolo conferitogli poi dal re Vittorio Emanuele III il 25 luglio del 1943. Per via del proprio coinvolgimento con il Regime, Agnelli rischiò di perdere la proprietà dell’azienda prima della sua morte, avvenuta il 16 dicembre del 1945, quando le redini passarono al fido Vittorio Valletta, uomo legato alla massoneria, in attesa che maturasse il ventiquattrenne Giovanni junior, figlio di Edoardo. Il giovane erede fece tornare la Juventus nelle mani di famiglia nel luglio 1947, ripercorrendo le orme del padre.
Gli aiuti stanziati dal Piano Marshall tra il 1948 e il 1951 rimisero in piedi gli stabilimenti Fiat e assicurarono commesse negli Stati Uniti. La Casa torinese ricevette da sola ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico, oltre il 12% dell’intero aiuto all’industria italiana, garantendo in cambio il licenziamento degli operai comunisti concordato tra Vittorio Valletta e Clare Boothe Luce, ambasciatrice americana in Italia, forte oppositrice del comunismo italiano, sostenuto esternamente dal grande blocco sovietico. Con il quotidiano di famiglia, La Stampa, i vertici Fiat tentarono di sottrarre gli operai alla lettura de L’Unità e della Gazzetta del Popolo.
Nel 1949 fu creato a New York un gruppo di studio per analizzare gli effetti del Piano Marshall, predisposto dagli USA con lo scopo recondito di ottenere liberalizzazioni commerciali in Europa per le multinazionali statunitensi e forte influenza della politica americana su quella europea. Alla convocazione aderirono alcuni alti dirigenti dell’appena costituita CIA (Central Intelligence Agency), l’agenzia di spionaggio – responsabile dell’ottenimento e dell’analisi delle informazioni sui Governi e sugli individui stranieri – che creò dei “fondi neri” per contribuire agli “aiuti” per l’Europa, finanziando le politiche anticomuniste in Francia e Italia attraverso giornalisti, sindacalisti, politici e leader dei due Paesi. Le relazioni occulte tra i due continenti trovarono compimento nel 1954, con la nascita del Gruppo Bilderberg, un’organizzazione segreta riservata agli uomini più influenti d’Europa e degli Stati Uniti, in buona parte legati a varie massonerie, e finalizzata alla creazione di un Governo ombra dell’economia, della finanza e della politica mondiale. Vittorio Valletta e Gianni Agnelli aderirono al Gruppo, partecipando alla prima riunione di 50 delegati da 11 Paesi europei e 11 statunitensi. Proprio in quell’anno, Fiat, Eni, Pirelli e Italcementi diedero vita alla SISI Spa (Sviluppo Iniziative Stradali Italiane) e interagirono per favorire il mercato automobilistico a scapito del trasporto su ferro, attraverso l’imposizione all’opinione pubblica dell’equazione “autostrade uguale sviluppo economico, uguale benessere”. La verità è che, con le autostrade, le macchine non le avrebbero acquistate solo i più ricchi borghesi delle grandi città e le merci prodotte dalle industrie del Nord sarebbero giunte al Sud anche su gomma. Lo Stato intervenne a sostegno, costituendo la Società Concessioni e Costruzioni Autostrade Spa, presieduta dal ministro dei Lavori pubblici, per aggirare le limitate disponibilità dell’ANAS (Azienda Nazionale Autonoma delle Strade), mentre alle Ferrovie dello Stato furono destinate scarse risorse con le quali fu solo riattivata, e lentamente, una rete ormai inadeguata, invece bisognosa della costruzione di nuove tratte e della correzione di quelle insufficienti. Il progetto pilotato di “motorizzazione” degli italiani prevedeva un asse orizzontale Torino-Milano-Venezia-Trieste, una diramazione da Milano per Genova, un asse verticale da Milano verso Bologna che si sarebbe biforcato, verso Roma-Napoli e verso Ancona-Pescara. Per le auto che scendevano al Sud, mentre gli operai che le costruivano salivano al Nord col “Treno del Sole”, occorreva un nome simbolico: “Autostrada del Sole” era perfetto. 19 maggio 1956 – 4 ottobre 1964: soli 8 anni e poco più per completare la grande opera, con addirittura 3 mesi di anticipo sul termine previsto; tempi impensabili per l’infinita autostrada Salerno-Reggio Calabria, invece presa in carico nel 1962 dallo Stato, attraverso l’ANAS, senza alcun coinvolgimento dei privati e con soluzioni tecniche sciagurate (due strette corsie senza quella d’emergenza) che l’avrebbero condannata a un’interminabile ricostruzione. La realizzazione della rete autostradale e il boom economico misero gli italiani al volante e la Fiat crebbe in produzione, dipendenti, esportazione e fatturato. Solo quando ormai tutti ebbero acquistato una macchina e lo scenario delle città cambiò (con l’invasione dal nuovo simbolo del miraggio di libertà) furono affrontati, con maggiori finanziamenti, gli aspetti critici della rete ferroviaria, alcuni ancora oggi irrisolti al Centro-Sud.
Gli accordi segreti tra la Fiat e gli statunitensi avevano prodotto effetti a lungo termine. Qualche mese prima dell’ingresso di Valletta e Agnelli nel Gruppo Bilderberg era stata avviata una sistematica attività di spionaggio degli operai, scoperta 20 anni dopo da un giovane pretore trentenne, Raffaele Guariniello. Nell’agosto 1971 furono perquisiti i vecchi uffici del management aziendale a Torino e scoperte oltre 350.000 schede relative alle idee politiche, alla vita privata e alle tendenze sessuali dei dipendenti, di cui circa 151.000 inerenti al quinquennio 1967-1971, quello immediatamente successivo all’approdo dell’ormai maturo Gianni Agnelli al comando della Fiat (1966). Il tutto con allegate note spese per investigatori e informatori pagati profumatamente, rami di una rete comprendente servizi segreti dello Stato, impiegati comunali, vigili urbani, Carabinieri, Polizia e parrocchie. Tra gli schedati anche uomini politici, dirigenti pubblici, sindacalisti e giornalisti. Per capire come comportarsi, Gianni Agnelli, in compagnia del procuratore generale di Torino Giovanni Colli, si precipitò a un incontro ad Antagnod, in Valle d’Aosta, convocato dal preoccupato presidente del Repubblica Giuseppe Saragat, lì in vacanza. Questi avocò a sé l’inchiesta, tenendola nel cassetto per circa un mese, per poi inviarla alla Corte di Cassazione a Roma, sostenendo che per motivi di ordine pubblico l’inchiesta non poteva essere condotta a Torino. Tra le proteste, il processo fu assegnato al Tribunale di Napoli, che dopo un anno emise l’ordinanza di 52 rinvii a giudizio. La sentenza di primo grado giunse solo nel febbraio del 1978: 36 condanne, di cui 5 a carico di dirigenti Fiat per reato di corruzione e violazione del segreto d’ufficio; amnistia per i reati minori. L’appello dichiarò estinte le pene per intervenuta prescrizione, grazie alla concessione delle attenuanti generiche. Nessuno pagò per i reati commessi, ma la vicenda appurò il metodo investigativo messo in piedi dai vertici Fiat per estromettere il comunismo dall’azienda. Vittorio Valletta, nel 1965, lasciò il comando del maggior produttore motoristico d’Europa a Gianni Agnelli. E venne il tempo in cui ogni concorrenza interna fu cancellata con l’acquisizione dei marchi della produzione nazionale: Autobianchi, Lancia e, soprattutto, Alfa Romeo, azienda statale indebitata che, negli anni Ottanta, fu consegnata alla Fiat dal Governo Craxi e dall’IRI, guidato da Romano Prodi, il quale, tra le polemiche, ne impedì l’acquisto da parte della Ford, tanto temuto da Gianni Agnelli. Niente da fare neanche questa volta per la casa americana. Ma all’inizio degli anni Settanta giunse anche il declino del marchio torinese che aveva controllato oltre l’80% del mercato automobilistico italiano e che nel 2004, in condizione prefallimentare, fu affidato al nuovo amministratore delegato Sergio Marchionne, dopo la morte di Umberto Agnelli, già orfano del figlio Giovanni Alberto, del gran fratello Gianni e del nipote suicida Edoardo (ma qualcuno ipotizza l’omicidio per evitare che il patrimonio di famiglia finisse ad un musulmano). Il manager abruzzese, incaricato del salvataggio, impose fin da subito condizioni di lavoro decisamente discutibili pur di condurre una politica aziendale di sfida ai sindacati, approdando dopo un decennio all’acquisizione di Chrysler, all’uscita da Confindustria, al decentramento a Londra e Amsterdam delle sedi fiscali e legali e alla quotazione a Wall Street. Misure ricche di opportunismo adottate alla chiusura dei rubinetti degli aiuti di Stato a beneficio dell’azienda probabilmente più assistita della storia dell’industria mondiale, dopo un secolo di protezioni e favori. L’ultima assemblea della Fiat, dopo 115 anni di vita, si tenne il primo giorno d’agosto del 2014 e deliberò la nascita del marchio Fiat Chrysler Automobiles, abbreviato in FCA.
Gli effetti della Fiat sulla Juventus
Senza gli Agnelli non parleremmo di gloriosa Juventus, regina d’Italia. La sua ambizione di vittoria è esattamente l’ambizione della famiglia: la brama di azzerare la concorrenza interna, costi quel che costi. È la Fiat che ha sempre ispirato la Juve, la cui supremazia non è mai stata endogena, ma indotta esternamente dall’azienda. Lo dice la storia: senza gli Agnelli, dal 1898 al 1923, periodo antidiluviano di monopolio calcistico settentrionale, il club bianconero ha vinto il solo titolo tricolore del 1905, “sbaragliando” la concorrenza di due squadre di Genova e due di Milano, e sarebbe addirittura sceso di categoria nel 1911 e nel 1913 se non vi fosse stato prima un blocco delle retrocessioni e poi un artificioso ripescaggio nel girone della Lombardia per evitare il minacciato scoglimento, dettato da gravi condizioni economiche dopo che nel 1906 alcuni soci erano fuoriusciti per fondare il Torino. Tra il 1924 e il 1935, nei 12 anni di Edoardo Agnelli, 6 scudetti. Dal 1936 al 1947, 12 anni di Juventus fascista senza Fiat e senza tricolore firmati Emilio de la Forest de Divonne e Piero Dusio. E poi di nuovo e solo Agnelli, fino ad Andrea, erede di Umberto, con altri 29 trionfi. Tutta la sala dei trofei, escluso 1 scudetto e 3 Coppe Italia, è collocata all’ombra del tetto di casa Agnelli, troppo grande e solido per non pensare che sia proprio la famiglia la marcia in più della Juventus.
Non si tratta di solo palmarès – evidentemente chiaro a tutti – ma anche di possibilità di dettare legge in città. La Juve è sovrana di Torino, e lo è dal disastro aereo di Superga del 1949 che cancellò la squadra più famosa nel mondo tra le due locali: il Toro. Per coincidenza storica seguì la migrazione di massa in direzione del capoluogo piemontese, coi meridionali ad abbracciare la nuova dominatrice. La fotografia delle gerarchie è nitida: a Torino sorgono oggi uno stadio privato e uno comunale. L’impianto modello, quello che apporta importanti entrate nei bilanci di una delle due società, costruito su un’area aspramente contesa da entrambe, è della Juventus.
La storia racconta che la Fiat ha ricoperto un ruolo importante per la realizzazione del primo stadio di “ultima generazione” d’Italia. Dopo i Mondiali del ‘90, il Delle Alpi, costruito e gestito dalla Società dell’Acqua Pia Antica Marcia di Roma, si era rivelato un ostacolo alle ambizioni delle due squadre cittadine, caricate di costi di utilizzo e vincolate a un accordo pluriennale stipulato con la Pubbli-Gest SpA, subconcessionaria dello stadio dal maggio 1991 al giugno 2000, che godeva di una percentuale sulla bigliettazione e degli introiti dei parcheggi, della ristorazione e della pubblicità. I costi di affitto e i mancati introiti dalla cartellonistica e dagli incassi (in parte) condussero alla ferrea volontà dei vertici juventini di possedere uno stadio di proprietà, passando per la strategia della sistematica critica diffamatoria del Delle Alpi. Con l’avvento del triumvirato Giraudo-Moggi-Bettega, nel 1994, iniziarono le insistenti minacce di trasferimento in altre città, cosa che avrebbe procurato un enorme danno patrimoniale al Comune di Torino. La Juve, in occasione di partite internazionali, fu portata spesso a giocare lontano da casa, riempiendo due volte il Meazza di Milano, così diffondendo l’idea di una squadra pronta ad andarsene dal Piemonte.
Lo scontro frontale, sempre più duro, con la Pubbli-Gest e col Comune di Torino, cui la Concessionaria Acqua Marcia cedette gratuitamente il Delle Alpi, iniziò a smussarsi nel 2000, subito dopo l’assegnazione delle Olimpiadi invernali 2006 al capoluogo piemontese e il conseguente acquisto del Torino da parte dell’imprenditore calabrese Francesco Cimminelli, proprietario della Ergom Automotive, un’azienda specializzata nello stampaggio della componentistica automobilistica con una decina di stabilimenti tra Italia, Polonia e Turchia. Il vero regista dell’operazione fu il tifoso granata Paolo Cantarella, allora amministratore delegato della Fiat, di cui la Ergom era principale fornitrice. Lo confessò proprio Cimminelli, uno juventino dichiarato, al giornalista Marco Ansaldo de La Stampa, che gli chiese perché avesse preso una squadra di cui non gli interessava nulla:
“Mi obbligò Cantarella che era un grandissimo tifoso del Toro e l’amministratore delegato della Fiat, cioè l’uomo che più faceva lavorare la mia azienda. Disse che sarei stato il capofila di una cordata per rilevare la società. Quando mi presentai non trovai nessuno e rimasi da solo con il cerino acceso.”
Cimminelli realizzò un matrimonio di puro interesse, e infatti non ricoprì mai quella carica di presidente che assegnò al portavoce di Gianni Agnelli, il torinista Attilio Romero, pescato dall’area comunicazione Fiat, la stessa persona che 33 anni prima, sfrecciando con la sua Fiat 124 Coupé lungo il corso Re Umberto, aveva investito e causato la morte del funambolico calciatore del Toro Gigi Meroni. Di che interesse si trattava? La Fiat avrebbe assicurato commesse, pagamenti più veloci e aumento di fatturato alla Ergom; Cimminelli avrebbe evitato conflitti con gli Agnelli nell’affare stadio. E infatti firmò nel 2003 un accordo squilibrato con il Comune e con la Juventus con cui espresse l’interesse a ottenere il vecchio Comunale, impegnandosi a ristrutturarlo per i Giochi olimpici invernali e a pagare la concessione del nuovo Olimpico per 99 anni, e offrì il consenso ai cugini per il trasferimento della proprietà superficiaria, per lo stesso periodo, dell’area Delle Alpi in cui edificare lo Stadium. Un patto scellerato, perché così il Torino si impegnò nella ristrutturazione a proprie spese di uno stadio situato nel quartiere urbano di Santa Rita, in un area architettonicamente vincolata, cioè non adatta alla realizzazione di redditizie attività commerciali, e rinunciò di fatto a ogni pretesa sulla più vasta e fruttuosa Cascina Continassa, lasciata ai cugini. Il club granata concordò anche il pagamento ai bianconeri di 1,5 milioni di euro l’anno per l’affitto del Delle Alpi, fino al 2006, in attesa di entrare in possesso del nuovo impianto. Completato il nuovo Olimpico, sarebbe toccato alla Juve chiedere ospitalità per consentire la realizzazione del suo progetto. Il club bianconero, però, avrebbe pagato soli 250.000 euro l’anno per il fitto dello stadio dei cugini.
I granata, sotto la gestione Cimminelli, accumularono debiti su debiti e il 9 agosto 2005 furono dichiarati falliti per una fideiussione falsa a parziale copertura dei debiti col fisco fatta confezionare da Luigi Gallo, presidente del fallimentare Venezia Calcio. Una truffa in cui il proprietario del Toro rimase incastrato, ma i guai erano venuti anche a causa della ristrutturazione del Comunale, su cui gravò un’ipoteca di circa 38 milioni di euro accesa dall’Agenzia delle Entrate per mancati versamenti del club. I 30 milioni necessari per il completamento del rifatto Olimpico se li accollò il Comune, che tornò a essere proprietario dello stadio. I 250.000 euro annuali della Juventus per il fitto della struttura finirono quindi nelle casse comunali, mentre i 1.500 milioni di euro annuali del Torino erano finiti nelle casse bianconere. Per chiudere il fallimento e far fronte ai debiti, Cimminelli impegnò il suo patrimonio personale, dando in pegno pure le azioni Ergom, azienda fornitrice di importanza strategica per il Gruppo Fiat, la cui dirigenza sollecitò l’avvocato Angelo Benessia ad assistere il proprietario granata, al fine di impedire il coinvolgimento dell’azienda plastica nel fallimento sportivo. La Ergom, per i guai del suo proprietario e per il calo delle vendite Fiat, non riuscì a evitare una profonda crisi. Gli scioperi degli operai interruppero le forniture e bloccarono la produzione Fiat in alcuni stabilimenti, finché l’impotente e dimissionario Cimminelli, nell’estate 2007, non se la vide sfilare al prezzo simbolico di un euro. Una moneta versata da chi? Dal Gruppo Fiat, che si assicurò così la normale prosecuzione delle forniture.
Per realizzare il moderno stadio juventino, in un’Italia spettatrice di speculazioni e orfana di strumenti legislativi adeguati per la realizzazione di un’impiantistica moderna, si ricorse anche a un bel po’ di espedienti. Il miracolo, evidentemente, riuscì grazie alla disponibilità di un ente pubblico (il Comune di Torino), alle risorse della proprietà juventina (la Exor S.p.A. facente capo agli eredi Agnelli) e al sostegno di una banca pubblica (l’Istituto per il Credito Sportivo). Il 6 dicembre 2002, il Comune trasformò la zona del Delle Alpi da “area destinata a servizi pubblici” a “zona urbana di trasformazione”, rendendo di fatto privato un terreno inizialmente destinato a “verde e servizi” dal piano regolatore; il 15 luglio 2003, l’ente comunale trasferì alla Juventus, per 99 anni e con possibilità di rinnovo, la proprietà e il diritto di superficie di un totale di circa 349.000 metri quadrati delle aree della Continassa, a fronte della demolizione del Delle Alpi e della costruzione di un nuovo stadio funzionale contornato da zone di commercio e parcheggi, grazie al quale il club avrebbe ammortizzato velocemente il fruttuoso investimento. La Juventus acquistò i diritti sulla Continassa a prezzo di favore: 25 milioni di euro, meno di 72 centesimi al metro quadrato per ogni anno di concessione, quando il valore di una licenza commerciale a Torino era pari a 75 euro al metro quadrato.
Tra giugno 2005 e gennaio 2006, su istanza della società bianconera, furono concesse delle autorizzazioni commerciali e, soprattutto, una variante al piano regolatore per “redistribuire le consistenze edificatorie commerciali”. Ottenuti i permessi, la Juve cedette a Nordiconad (cooperativa aderente al Consorzio nazionale Conad), CMB (Cooperativa muratori e braccianti di Carpi) e Unieco i 34.000 metri quadrati di spazi commerciali intorno allo stadio, ottenendo ben 20,25 milioni di euro. A questi si aggiunsero i circa 35 milioni di euro anticipati dai complessivi 75 milioni garantiti nella primavera 2008 dall’agenzia di marketing Sportfive Italia (gruppo francese Lagardère) in cambio dei diritti, fino al giugno 2023, sull’intitolazione commerciale dello stadio. L’impianto fu inizialmente battezzato Juventus Stadium, in attesa che Sportfive trovasse lo sponsor interessato a legare il proprio nome alla struttura. 35 milioni di anticipo freschi, fondamentali per costruire lo stadio, e nessuna azienda interessata al naming a distanza di diversi anni dall’accordo. Il fatto è che per contratto non poteva trattarsi né di un concorrente dello sponsor tecnico dei bianconeri, né di una casa automobilistica che non fosse la Fiat. Difficoltà accentuate anche dalla scarsa appetibilità del campionato italiano per gli investitori stranieri. A conti fatti, l’operazione Continassa produsse un esborso di 25 milioni di euro e una liquidità di oltre 55. Strada spianata per avviare la costruzione del nuovo impianto, persino in discesa coi circa 60 milioni per finanziare gli investimenti che la Juventus ottenne accendendo, tra il 2009 e il 2010, due mutui con l’Istituto per il Credito Sportivo, una banca pubblica, quindi finanziata da soldi dei contribuenti, con tassi certamente convenienti. Il recupero dei materiali derivati dalla demolizione del Delle Alpi consentì di limare un risparmio globale di 2,3 milioni di euro sulle spese. Infine, nell’autunno 2012, sempre su proposta della Juventus, con una nuova variante al piano regolatore, fu creata dal Comune di Torino una nuova “zona urbana di trasformazione” di circa 263.000 metri quadrati degradati adiacenti l’ormai sorto Juventus Stadium, di cui oltre 175.000 destinati alla Juventus per la realizzazione di una cittadella bianconera, comprendente campi di allenamento per la prima squadra, strutture ricettive e attività commerciali. 99 anni in diritto di superficie al prezzo ancor più stracciato di 10,5 milioni di euro (esclusi i costi di costruzione), cioè 60 centesimi al metro quadrato per ogni anno di concessione. Un bel trattamento riservato agli eredi Agnelli da parte di quello che era divenuto il Comune più indebitato d’Italia, anche a causa degli investimenti sostenuti per completare lo stadio Olimpico e per realizzare l’insieme delle opere per i Giochi del 2006. Per aggirare la burocrazia e compiere il miracolo Stadium si scaricò parte dei costi sui cittadini torinesi… e sul Torino.
(Il capitolo prosegue con le vicende seguite alla morte dei fratelli Gianni e Umberto, il conflitto ereditario, le implicazioni in Calciopoli e la divisione di poteri tra John Elkann e Andrea Agnelli.)
Tutti i capitoli di Dov’è la Vittoria
Un affare da “screanzati” – prefazione di Oliviero Beha
Divide et impera – introduzione dell’autore
Sudditi di Sua Maestà – impronte anglosassoni sul pallone
Una Questione nazionale – il divario Nord-Sud
Prima il Nord – la Federazione con la palla al piede
Fatta l’Italia, facciamo i tifosi – il tifo nel Paese dei campanile
Stringiamci a Coorte – il triangolo Genova-Torino-Milano
Il Regno d’Italia – il matrimonio Juventus-Fiat
Fratelli d’Italia – la discriminazione territoriale
Libera frode in libero Calcio – un secolo di scandali italiani del pallone
L’Italia chiamò – il maxiflop nazionale dei Mondiali ‘90
Premio “Automotive Lean Production” alla fabbrica napoletana
Angelo Forgione – Tempi duri per i teorizzatori della scarsa laboriosità dei napoletani che invece fanno onore al Paese mentre loro sprecano fiato prezioso.
Quando a Gennaio denunciai lo spot della nuova “Panda” ravvisandone significati espliciti contro i sindacati e insulti ideologici alla città di Napoli, conclusi il mio scritto affermando che gli operai di Pomigliano sono ottimi lavoratori che fanno del “Giambattista Vico” il migliore stabilimento FIAT al mondo. Basti ricordare il premio qualità vinto nel 1997 per la produzione dell’Alfa 156. Lo aveva riconosciuto anche lo stesso Marchionne, ma solo dopo che gli operai si erano piegati alle sue condizioni. Ricordate come finiva quello spot? una Panda usciva dallo stabilimento, percorreva il lungomare di Napoli e le strade costiere della Campania per poi approdare come d’incanto in Piazza dell’Anfiteatro a Lucca, da Sud a Nord, mentre la voce esclamava “questa è l’Italia che piace”.
A distanza di tempo, le sentenze dei tribunali e i licenziamenti per far posto ai lavoratori da riassumere per sentenza hanno dimostrato che quello spot era effettivamente un messaggio diretto agli operai napoletani della FIOM. Ora è arrivato anche un riconoscimento prestigioso per lo stabilimento: la miglior fabbrica d’Europa! Nonostante i progetti di casa FIAT non proprio ai vertici, è stato infatti premiato col “Automotive Lean Production 2012”, un premio importante ottenuto vincendo la concorrenza di più di 700 impianti di produzione in oltre 15 Paesi tra cui Germania, Francia, Spagna e altri che hanno partecipato alla selezione iniziata nel 2006. L’impianto di Pomigliano d’Arco è divenuto così “un riferimento di eccellenza all’interno del Gruppo Fiat e, più in generale, nell’intero mondo automotive”. Insomma, operai napoletani che, mentre subiscono imposizioni e vessazioni, diventano un modello per tutt’Europa. Quale migliore risposta? E Fiat, su un suo sito istituzionale e sulle pagine dei quotidiani gli dedica il premio: “Pomigliano, escono auto italiane, entrano premi internazionali. Alle donne e agli uomini che lavorano a Pomigliano un riconoscimento importante”: il premio Automotive lean production 2012. E’ così che funziona la miglior fabbrica d’Europa”. Anche gli annunci pubblicitari di questi giorni servono come servì lo spot di Gennaio e i Cobas hanno strappato simbolicamente queste pagine davanti all’Ikea di Afragola, dove hanno indetto una conferenza stampa per illustrare i due cortei anti Fiat che hanno organizzato ad Acerra e Pomigliano per protestare contro la cassaintegrazione di 2431 operai.
E mentre FIAT esaltava l’italianità, con una nota stampa dall’ufficio comunicazione annunciava l’intenzione di emettere bond in franchi svizzeri dopo aver delocalizzato la produzione in Serbia. Ma l’importante riconoscimento è comunque finito all’ombra del Vesuvio ed stato consegnato al siciliano Sebastiano Garofalo, Responsabile dell’impianto campano dal 1995, in occasione della cerimonia di premiazione che si è svolta presso il Centro Congressi di Lipsia durante il settimo Congresso Internazionale organizzato da ”Automobil Produktion” e Agamus Consul.
Il premio segue quello assegnato allo stabilimento Whirlpool di Via Argine, dichiarato a Febbraio il migliore al mondo per la produzione di lavatrici. Dallo spot “Panda” in poi, due premi importantissimi sono stati assegnati al “Made in Naples” in trionfo!
Siete ancora convinti che i Napoletani non vogliano e non sappiano lavorare? E che Vesuvio e spaghetti siano l’immagine dell’Italia che non piace? Come si spiegherebbe che, fin quando i napoletani hanno avuto fabbriche in cui lavorare, quelle fabbriche producevano ed esportavano in tutto il mondo?
Se questi sono i riconoscimenti internazionali per lo stato dell’arte della produzione italiana, allora diciamo pure che è Napoli l’Italia che piace! Il tempo è sempre galantuomo.
“Questa è l’Italia che piace”? Era discriminazione!
Fiat perde la causa e dovrà riassumere 145 operai Fiom
Angelo Forgione – L’avevo denunciato dal primo momento che lo spot di lancio della nuova “Fiat Panda” era subliminalmente discriminatorio. Qualcuno aveva storto il naso. “Questa è l’Italia che piace” era l’esaltazione degli operai di Pomigliano senza tessera Fiom, quelli che avevano accettato di lavorare alle condizioni di Marchionne. Gli altri, quelli con tessera Fiom, erano quelli che non piacevano, i napoletani alla napoletana che non erano stati chiamati in fabbrica per produrre la nuova “Panda”, quelli dell’immagine “pizzaemandolino” di Napoli che, a bordo della nuova utilitaria, finiva rinnovata nella piazza centrale di Lucca. Proprio in quei giorni La Fiom faceva causa alla Fiat sulla base di una normativa specifica del 2003 che recepisce direttive europee sulle discriminazioni. Su 2.093 assunti da Fabbrica Italia Pomigliano nessuno risultava iscritto alla Fiom e la dinamica era chiarissima. Non poteva essere un caso. È accaduto che il Tribunale di Roma ha condannato la Fiat proprio per discriminazioni contro la Fiom a Pomigliano: 145 lavoratori con la tessera del sindacato di Maurizio Landini dovranno quindi essere assunti immediatamente, e 19 iscritti al sindacato che hanno deciso di sottoscrivere individualmente la causa avranno anche diritto a un indennizzo di 3.000 euro. Il Presidente del Comitato Centrale della Fiom Giorgio Cremaschi ha così commentato: «Finalmente è stata riconosciuta in Fiat la violazione dei più elementari diritti della persona e premiato l’eroismo di chi ha resistito. Ora si mandino i carabinieri da Marchionne per fargli rispettare la sentenza». Il punto è proprio questo. Fiat, che ricorrerà in appello, rispetterà la sentenza o rivedrà i suoi piani di produzione italiani spostandoli all’estero? Val la pena ricordare che un’altra sentenza aveva dato ragione a Fiom e imposto a Fiat di reintegrare 3 operai di Melfi che durante una manifestazione avevano bloccato un carrello. Quegli operai sono ancora fuori dalla fabbrica lucana. Inutile dire che la sentenza bolla idealmente come discriminatorio anche lo spot con cui fu lanciata la “Panda” che non aveva come protagonista la vettura ma la filosofia produttiva, la cui esegesi era tutta nello scontro ideologico Fiat-Fiom. Chi non lo aveva capito mi aveva accusato di essere visionario e vittimista. Che miopia!
Angelo Forgione – Non molti conoscono le mastodontiche Armingaud, le prime lavatrici in fabbricazione nel Regno delle Due Sicilie, in uso nel Real Albergo dei Poveri quando attivo, capaci di lavare fino a 1200 camicie. Se il tessuto industriale può essere inginocchiato, lo stesso non vale per la tradizione. E infatti la fabbrica di lavatrici Whirlpool di Napoli, in via Argine, è stata dichiarata la migliore tra le 66 del gruppo disseminate nel mondo. L’indagine é stata effettuata da Towers Watson, società di consulenza direzionale e amministrativa, che ha valutato in tutti i siti Whirlpool nel mondo il coinvolgimento delle risorse umane e la capacità manageriale di trasferire ai dipendenti la strategia dell’azienda, premiando la fabbrica di lavatrici napoletana. Ancora un riconoscimento per il “made in Naples” dopo che Marchionne ha consacrato lo stabilimento di Pomigliano quale miglior sito produttivo Fiat nel mondo.
come nasce il messaggio “marchionnista” dei buoni e dei cattivi
Angelo Forgione – Torno sullo spot della nuova Fiat Panda a poco più di una settimana dal lancio. Uno spot che ha diviso l’opinione tra chi lo apprezza e chi lo critica ferocemente. Ed essendo tra quelli che l’hanno criticato da subito, attivando una procedura di verifica presso l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (in attesa di verdetto), sono stato io stesso oggetto di condivisioni e contestazioni. Il dato certo è che sulla pagina ufficiale di Fiat su youtube i commenti sono rivolti più all’azienda che al prodotto. Questo è indice di una spaccatura tra chi lo vede semplicemente come spot e chi invece ne percepisce i messaggi aziendali ai lavoratori di Pomigliano e ha più rabbia nel contestarlo.
Il fastidio è provocato dalla filosofia esternata da Marchionne che ha parlato agli operai napoletani, invitandoli a mettersi in riga e a non fare i “fiom-pulcinella”, colpendo così anche la napoletanità rivestita di accezioni negative. Ma è procurato anche dalla presunzione da parte dell’AD Fiat di ergersi a giudice di Italia giusta e Italia sbagliata, abbandonando colpevolmente la coerenza necessaria per ottenere l’apprezzamento del pubblico: la Fiat che minaccia prima di lasciare l’Italia perchè ostacolo allo sviluppo dimenticandosi della qualità produttiva dello stabilimento napoletano per poi autocelebrare un proprio prodotto “made in Italy” decantando a posteriori le virtù dei lavoratori di Pomigliano, infastidisce. Nello spot c’è tutto il “ricatto” e basta ascoltare leparole di Marchionne rivolte al sindacato Fiom in tempi di trattative e scontri per capire come nasce lo spot, soprattuto la dichiarazione finale: «o facciamo il nostro lavoro seriamente o sennò la Fiat non è interessata». Sabato 28 Gennaio si è svolto a Napoli il Forum dei Comuni per i Beni Comuni e al Teatro Politeama si è vissuto un momento intenso ed emozionante quando Antonio Di Luca, operaio sindacalista Fiom di Pomigliano cassintegrato, ha letto alla platea, alla presenza di De Magistris, Vendola, Emiliano e Zedda, latestimonianza di un operaio “mobbizzato”che può far ben comprendere i presupposti che hanno portato al concepimento del messaggio pubblicitario della nuova Panda. La denuncia è chiara: gli operai di Pomigliano che hanno la tessera Fiom sarebbero sgraditi (pulcinella) e sono pronte nuove cause sindacali. È chiaro che la visione asettica e disinteressata dello spot non consenta di comprenderne i presupposti; c’è infatti bisogno di tener conto delle dinamiche aziendali e sindacali che hanno preceduto il riassetto della Fiat di Pomigliano per afferrare il concept dello spot oltre la rappresentazione scenica. Purtroppo, parlando agli operai, si sono toccati anche tasti diversi quali la napoletanità in senso più ampio: come già evidenziato nella miarecensione, l’immagine finale dell’automobile in Piazza dell’Anfiteatro a Lucca sul claim “questa è l’Italia che piace” al termine di un’intera ambientazione a Napoli si configura come un messaggio negativo per la città partenopea. E puntualmente ilComune di Lucca comunicacon orgoglio che “non a caso la nostra città è stata scelta per rappresentare un luogo d’arte riconoscibili in tutto il mondo e quale porta bandiera di quanto c’è di positivo e bello nel nostro paese” avocando a sé l’immagine positiva dell’Italia. Ho spulciato sulla rete per capire come lo spot venga giudicato da chi va oltre il giudizio “artistico” e ho trovato tanta corrispondenza col mio giudizio. La condanna è tutta per il “marchionnismo” che intende dividere il mondo in buoni e cattivi, dove i secondi sono quei meridionali che non fanno quello che lui vuole. Marco Giusti su “il Manifesto” non sopporta Pulcinella in versione negativa “uè-uè” e si dispiace perchè non riesce proprio a capire quale carica negativa possano avere i maccheroni e non crede che agli operai possa far piacere sapere che si lavora alla grande solo se non si perde tempo con spaghetti e Pulcinella. Giovanna Cosenza su “Il Fatto Quotidiano” scrive che la Fiat svaluta implicitamente una certa Italia del Sud dividendo il paese tra buoni e cattivi. Giampaolo Rossi su “Panorama” dice che lo spot è fin troppo carico di retorica e incoerenza.L’Unitàsottolinea la provocazione di un’Italia tosta contro i Pulcinella.Liberopunta il dito su Marchionne. Per Vincenzo Basile difanpagenon è felice l’abbinamento tra pasta-Vesuvio e voce fuoricampo che invita a non accontentarsi dell’immagine non brillante dell’Italia.TM newsdecreta la bocciatura dello spot da parte del web. E in tutto questo sono nati anche eloquenti controspot dalla parte degli operai. Al di la del dibattito, è inconfutabile che la réclame sia al centro dell’attenzione e non è passata inosservata. E questo, nel bene e nel male, vuol dire qualcosa in un’epoca in cui le macchine si vendono sempre meno. Chi continua a venderle e non conosce crisi sono quei produttori che non hanno bisogno di realizzare spot ideologici perchè la loro migliore pubblicità è fare macchine di qualità.
Insomma, lo spot dell’Italia che piace non piace.
Nuovo spot “Panda”, un insulto ideologico a Napoli!
messaggi agli operai di Pomigliano, offese alla Napoletanità
Angelo Forgione – È partita il 22 Gennaio la campagna Fiat per il lancio della nuova Panda, il più importante del 2012 per la casa. Ideata da Kube Libre, il cortometraggio prende spunto da una domanda: “Quale Italia vogliamo essere?” Girato a Napoli e dintorni, lo spot (in basso) ideato da Maxus, diretto da Luca Maroni e prodotto da Movie Magic (ma mutuato da quello della Jeep Grand Cherokee di Chrysler dedicato a Detroit prima capitale dell’auto e poi della miseria) parla agli italiani ma soprattutto ai lavoratori di Pomigliano d’Arco che sono proprio gli attori. Basta poco per capire che i 90 secondi della pubblicità (dai tagli più corti non si evince) “incarnano” un messaggio di Sergio Marchionne ai dipendenti dello stabilimento napoletano. Si tratta del primo spot classista anti-sindacale, primo caso in Italia, in cui un datore di lavoro comunica agli operai le scelte a disposizione. Lo slogan scelto è “L’Italia che ci piace”. Da una parte c’è quella che produce, che sfida il mercato, che lavora con impegno e dall’altra ci sono gli italiani del folklore, di Pulcinella e dei maccheroni. Le formiche e le cicale. Una campagna che riflette la seccatura di Marchionne rispetto alle resistenze del sindacato Fiom circa il suo “modello produttivo Fiat”. Un messaggio agli operai di Pomigliano ma anche un’offesa a tutti i napoletani e alla napoletanità, che secondo l’azienda torinese sarebbe l’immagine folcloristica, pittoresca e degradante del paese. Lo spot, recitato da una voce fuori campo, inizia con degli spaccati contrapposti dell’Italia: l’arte, l’inventiva, il talento per iniziare bene, come se non appartenessero anche questi ai napoletani, decadendo poi nel folklore e nella disoccupazione a cui fa da contraltare l’impiego offerto da mamma Fiat a Pomigliano. Messaggi negativi (ma il folklore è negativo a prescindere?) immortalati su immagini di Napoli: un Pulcinella in un teatro, quartieri popolari agghindati da panni stesi, giovani disoccupati con lo sguardo spento e arrabbiato sullo sfondo di un mercato rionale, uno skyline di Pomigliano con lo stabilimento ai piedi del Vesuvio dove l’operosità è rimarcata come “Italia capace di grandi imprese industriali”. ”Noi possiamo scegliere quale Italia essere”, dice lo speaker, come dire che possiamo scegliere se essere l’opulenta cultura piemontese o quella pigra napoletana. La scelta è sottolineata da un nuovo contrasto di concept visivi: da una parte artisti e operai Fiat e dall’altra i maccheroni, il Vesuvio e il golfo; il tutto corredato da una riflessione inquietante: “è il momento di decidere se essere noi stessi o accontentarci dell’immagine che ci vogliono dare”. E qui viene fuori l’equivoco degli stereotipi degli italiani verso i meridionali che sono quelli degli stranieri verso gli italiani, con quel pizzico di invidia verso una città capace di esprimere se stessa nel mondo, nel bene e nel male. Offese subliminali alla Napoletanità nell’associazione immagini-speakeraggio, e “pizzini” agli operai di Pomigliano già piegati alle volontà superiori e ora umiliati con messaggi anche eloquenti in uno spot che decanta un prodotto fatto bene, che se è tale è grazie a quegli stessi operai che fanno di Pomigliano un modello qualitativo ancorché produttivo. Napoli offesa in tutto lo spot, anche nel finale dove una Panda esce dallo stabilimento, percorre il lungomare di Napoli e le strade costiere della Campania per poi approdare come d’incanto in Piazza dell’Anfiteatro a Lucca, da Sud a Nord, mentre la voce esclama “questa è l’Italia che piace”. Il messaggio commerciale sembra voler dire agli operai di Pomigliano di smetterla di protestare e di mettersi a lavorare. Qualcuno dica a Marchionne che i napoletani hanno bisogno del lavoro ma non di costruire auto per sentirsi uomini migliori, per sapere di essere artisti, creativi e stakanovisti anche godendo dei piaceri delle proprie ricchezze paesaggistiche e della propria cultura. E se non fossero ottimi lavoratori, Pomigliano non sarebbe“il miglior stabilimento Fiat al mondo“ come da lui stesso asserito. Questo lo sapevano tutti, ma lui l’ha detto solo quando gli operai si sono piegati alle sue condizioni. L’azienda torinese aveva già dato un segnale alla presentazione aziendale della nuova vettura, quando sulla brochure si leggeva “Noi siamo quello che facciamo”, riformulato nello spot; un claim che non è sfuggito a quegli operai che sanno cosa si legge su un muro di ingresso del forte piemontese di Fenestrelle: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce“. In quella fortezza furono deportati i soldati napoletani che non volevano giurare per Vittorio Emanuele II. Cornuti e mazziati, e lo sdegno monta.