40 anni senza Eduardo, alfiere del linguaggio napoletano

Angelo Forgione – 31 ottobre 1984, ultimo giorno in vita dell’immenso Eduardo De Filippo. Ricordarlo significa andare ben oltre la rassegnazione del suo «fujitevénne», caricato di un peso e di un significato diverso da quello che in realtà conservava, per via, credo, di un certo modo di interpretare Parthenope. Quell’invito non era rivolto ai napoletani ma ai giovani attori napoletani che gli chiedevano di indicargli la strada per riuscire. Risposta: «Se volete fare qualcosa di buono (per voi attori), fujitevenne ‘a Napule». La politica locale gli aveva promesso un Teatro Stabile e la direzione dello stesso, ma erano rimaste solo chiacchiere. Uno scontro raccontato da Isabella Quarantotti De Filippo, sua moglie, nel suo libro Eduardo – Polemiche, pensieri, pagine inedite del 1985. Il significato di quell’amaro invito ai suoi epigoni è stato assolutizzato da una stantia narrazione sulla città come una spinta all’emigrazione per tutti i napoletani.

Di Eduardo mi preme evidenziare un aspetto identitario più sostanziale: è stato uno dei massimi artefici della resistenza del napoletano in un’epoca, quella fascista, di contrasto ai dialetti, già definiti nel 1903 “la malerba dialettale” dal critico letterario Pietro Mastri, infastidito dal grande successo dei poeti dialettali della Penisola, tutti incoraggiati dall’uso insistito del dialetto da parte degli artisti napoletani, che nell’Italia che provava a fatica a valorizzare la lingua unica, rappresentò l’elemento di massima garanzia di conservazione delle parlate locali.

Il grande successo Natale in casa Cupiello, del 1931, e le commedie successive furono portate in scena con un napoletano italianizzato affinché fosse compreso da tutti. Nel 1984, poco prima di morire e superata la più grande crisi dei dialetti, quella degli anni del miracolo economico in cui s’era diffusa la convinzione che fossero destinati a scomparire (Pasolini ne aveva tristemente constatata la tragedia della perdita), in una nota alla sua traduzione de La tempesta di William Shakespeare, Eduardo scrisse:

[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; […]. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]

Alla sua morte, il testimone del napoletano parlato passò a Massimo Troisi e a Pino Daniele, grazie ai quali, e non solo a loro, si arrivò lentamente a chiudere l’epoca del «parla bene!» nelle famiglie medioborghesi di Napoli, cioè del dover parlare italiano, e poi ad aprire il problema del parlare bene il napoletano. Oggi, momento in cui non c’è più traccia di contrasto ai dialetti, e il napoletano è di fortissima tendenza, si pone anche quello di tornare a scriverlo (bene).