Il Vesuvio sotto i piedi

Angelo Forgione – Il tufo giallo flegreo per le abitazioni. La pietra lavica bruna del Vesuvio, comunemente chiamata “Pietrarsa”, per le strade. Con i materiali vomitati dai vulcani a est e a ovest di Napoli, nei millenni, sono state caratterizzate la stessa Napoli e le cittadine attorno, che stupirono i forestieri per la pavimentazione delle strade, un unicum con pochi eguali in Europa.

Aveva dieci anni Tommaso Aniello d’Amalfi, il noto Masaniello, nel dicembre del 1631, quando il Vesuvio esplose con la stessa catastrofica potenza di millecinquecento anni prima. Due mesi di terremoti, boati, pioggia di sassi, lapilli e cenere sconvolsero i dintorni, travolgendo circa cinquemila persone, e poi migliaia di animali e tanti terreni coltivati. Sette rami di lava invasero i paesi vesuviani per diciassette giorni, arrivando fino al mare e minacciando Napoli. Le cronache dell’epoca narrano dell’invocazione all’intercessione di san Gennaro da parte dello sconvolto e terrorizzato popolo partenopeo in processione con la sua statua, e si racconta che quando questa fu rivolta al vulcano avvenne l’arresto miracoloso del cataclisma. Scena raffigurata dal pittore Micco Spadaro, al secolo Domenico Gargiulo, in un dipinto di una trentina d’anni più tardi in cui è descritta l’apparizione del Santo in volo su di una nuvola nell’atto di fermare con le braccia la nube venefica che sta per travolgere la città.

Da allora, ogni 16 dicembre, data del prodigio con cui fu arrestata l’eruzione, i napoletani attendono lo scioglimento del sangue del Martire così come in occasione del 19 settembre, giorno della festa patronale. Non è il solo lascito di quell’evento funesto, essendo molte strade di Napoli e della provincia ancora oggi pavimentate con solide lastre di pietra vulcanica vomitata in quella sfuriata vesuviana, segno plurisecolare che caratterizza i luoghi.

Molte strade di Napoli, a quel tempo la più popolosa città d’Europa, e dei suoi dintorni, furono risistemate con i basoli scuri, lisci e scalpellati che livellavano e assicuravano eleganza, pulizia e maggiore sicurezza, in sostituzione dei mattoni fatti a Ischia, altrettanto eleganti ma assai costosi e soggetti a usura, e da ricoprire con terra, così rendendo le strade polverose e, con la pioggia, fangose.

Lo storico Giulio Cesare Capaccio, a pagina 656 de Il Forestiero del 1634, descrisse i due tribunali napoletani “della Fortificazione”, deputato alla cura delle mura, e “della Mattonata e Acqua”, incaricato di curare le strade:

“[…] che sempre sono state nobilitate con mattoni; ma poi vedendosi evidente il danno che apportavano con la spesa grande de i mattoni, e che si guastavano facilmente per il continuo sbriciolamento delle rote di carrozze, e di carri, onde bisognava che di continuo la cità fusse fangosa per il terreno che copriva gli accomodamenti di quelle, introdusse Henrico di Gusman Conte d’Olivares, pietre picciole rotonde ch’eran di minor spesa, ma di gran danno ai piedi; e in fine con l’accomodo di pietre selci larghe, han portato utilità al pratticare, e al tener la cità più polita”.

Le “pietre selci larghe” erano esattamente le lastre di basalto vesuviano, la soluzione definitiva dopo aver provato a sostituire i mattoni con scomodissime (per pedoni e cavalli) e bruttissime pietre di fiume, alla maniera di Roma.

Un secolo e mezzo più tardi, il filosofo e scrittore tedesco Karl Philipp Moritz, a pagina 81 del suo diario di viaggio effettuato tra il 1786 e 1788, dedicò un intero paragrafo al basolato napoletano intitolato “Il pavimento di Napoli”:

“In nessun altro luogo si trova un lastricato più bello di quello che si può ammirare a Napoli; proprio la spaventosa colata di lava che minacciò di distruggere la città ora abbellisce la sua pavimentazione e livella le sue strade. Se il bisogno e la povertà opprimono i suoi abitanti, questa pietra eccellente non opprime le loro suole e così essi possono passeggiare puliti e asciutti per le strade come se fossero nelle loro stanze di casa. Allo stesso modo i Lazzaroni considerano le strade come una grossa stanza in cui trovano una dimora costante. Oltre alla comodità questo lastricato offre una bellissima immagine grazie all’ordine e alla regolarità con cui le pietre di lava cotte sono disposte l’una accanto all’altra, al punto che si potrebbe dire che ad una strada napoletana manca soltanto il tetto per essere considerata una vera e propria casa”.

Anche l’ancor più celebre connazionale Johann Wolfgang von Goethe notò la particolarità della pavimentazione di Napoli, e nei suoi appunti di viaggio, in data 12 marzo 1787, descrivendo la curiosa pratica dei ragazzi napoletani di scaldarsi nelle giornate fredde e umide mettendo le mani al suolo laddove un fabbro aveva precedentemente posizionato una ruota arroventata, scrisse:

“Stamane il tempo era piuttosto freddo, umido; aveva piovuto alquanto. Arrivai sopra una piazza, dove le pietre larghissime del selciato apparivano pulite con molta cura, e viddi con mio stupore attorno a quello spazio di terreno pulito, un certo numero di ragazzi o giovanetti cenciosi, i quali curvi tenevano le mani stese sopra il suolo, in atto di volerle scaldare. […]”

Nel 1853, alla vigilia dell’unità italiana, l’editore napoletano Francesco De Bourcard in Usi e costumi di Napoli descritti e dipinti, illustrando con gran dettaglio la città che assumeva nuovo aspetto, scrisse circa le strade:

“[…] Eccellente però n’è il lastricato di lave del Vesuvio, che sono il più solido materiale da lastricare le strade”.

Dai vicerè spagnoli ai Borbone, e poi in epoca di Regno d’Italia, il bruno basolato lavico vesuviano, più robusto del marmo, è stato apprezzato e raccontato come eccellenza di Napoli. Oggi è ancora presente in alcune strade veicolari e, più opportunamente, in quelle pedonali, testimoniando di una Napoli che anche nella pavimentazione, come nei palazzi, palesa la sua antichità e la sua identità. E però la tendenza alle riqualificazione va in direzione della sostituzione della pietra lavica vesuviana, non più estratta (laddove una strada viene asfaltata, i lastroni vesuviani asportati vengono trasportati in un deposito a Piscinola per fare da riserva di manutenzione per altre altre strade), con la meno resistente etnea, più sottile e carica di fibra vetrosa. Le conseguenze, dannose non solo in termini di disidentificazione (contraria all’articolo 123 del Piano Regolatore Generale di Napoli), sono evidenti nel disastro delle strade pedonalizzate di via Toledo e via Chiaia.

Gli ultimi versi dedicati alla nobile pavimentazione di Napoli li ha scritti Federico Salvatore nel 2002, musicati in in Se io fossi san Gennaro:

“Via i vecchi marciapiedi che hanno raccontato molto. Pietre laviche e lastroni seppelliamoli d’asfalto. L’appalto!”