La sartoria partenopea, al top nel mondo

Angelo Forgione giaccaLe giacche napoletane «zompano arrèto», cioè sono più corte sul dietro; hanno le maniche «a mappina», cioè con le pieghe all’attaccatura; hanno la «spalla napoletana», senza imbottitura per seguire la forma del cliente; hanno «il tre bottoni strappato a due», con il primo dei tre che resta sempre slacciato e quasi nascosto; hanno «lo scollo a martiello» con l’apertura sulla camicia. E poi c’è la la cravatta «a sette pieghe», un pezzo unico di seta che viene ripiegato 7 volte senza aggiungere imbottitura.
È piena di particolarità la sartoria partenopea, uno stile originale e antico di interpretare l’eleganza in modo disinvolto, morbido e piacevole, anche in quelli che possono essere considerati difetti. Le pieghe, per esempio, sono motivo di comodità e segno di vita in continuo movimento capace di eliminare l’aria da manichino in chi indossa un abito made in Naples. Tutto il contrario della giacca inglese, molto più strutturata, dura e segnata in vita.
Già nel Settecento Napoli era considerata la città più importante per la sartoria maschile. Lungo la via Toledo e le strade di Chiaja si aprirono negli anni numerose sartorie per abiti da uomo, frequentate dall’alta borghesia e dai viaggiatori stranieri, che si facevano confezionare abiti artigianali su misura e sceglievano scarpe e guanti di fattura locale, richiestissimi in ogni dove.
Ancora oggi, grazie alla tradizione che si è tramandata negli anni, Napoli vanta il più alto numero di maison maschili per abiti su misura che esportano nel Globo e dettano i canoni dell’eleganza. La sartoria partnopea, poco valorizzata, è indiscutibilmente una delle migliori al mondo.

Gerardo Marotta e il “genocidio” che non fu

Angelo Forgione – In un’intervista a Il Mattino del 27/7/14 Gerardo Marotta è tornato a prendersela con Ferdinando IV per il declino di Napoli e per il fatto che nelle scuole – e nelle università, aggiungo io – gli studenti non studiano Filangieri e Genovesi. È una grave privazione delle radici (anche da me denunciata in Made in Naples e in ogni presentazione del libro), ma cosa c’entra il Re Lazzarone?
Sempre rancoroso per la repressione della Rivoluzione Partenopea del 1799, Marotta definisce le dolorose cento esecuzioni degli intellettuali napoletani un “genocidio” ed è francamente troppo. Certamente al patibolo venne cancellata l’eredità del “nutrimento” che aveva costituito la linfa del secondo Settecento napoletano cui attinse il mondo intero, ma erano quelli uomini favoriti da Maria Carolina e accolti a Corte prima di preparare il grande tradimento. Un centinaio di uomini di élite puniti con la pena capitale non possono equivalere a migliaia di civili massacrati in battaglia dai francesi e dagli stessi repubblicani napoletani, pronti a colpiri alle spalle da Castel Sant’Elmo. Parlare di “genocidio” appare francamente una forzatura.
Marotta non può non sapere che quella cerchia di intellettuali napoletani di parte giacobina anti-monarchica non mossero un dito in quella rivoluzione, che fu voluta e protetta militarmente dalle truppe francesi per gli interessi di Parigi, prontissima a sottrarre risorse e arte in Italia. E non può non sapere che quegli stessi intellettuali furono bravi a teorizzare ma molto meno a praticare, perdendo il governo della città dopo soli sei mesi di isolamento e di completa sterilità riformistica, e perché non più protetti dalle truppe transalpine, indebolite dall’impasse di Napoleone in Egitto.
Fu davvero l’inizio della fine, come dice Marotta? Non andrei a quella data, e neanche al 1860, perché l’Italia è repubblicana dal 1946, e in settant’anni non ha avuto la volontà di risolvere i suoi problemi interni. Ce la vogliamo prendere ancora con le cento esecuzioni del 1799?
Genovesi e Filangieri non sono studiati a scuola e nelle università d’Italia, non del Regno di Napoli. Questa interminabile querelle intorno al 1799 continua a produrre danni e a confondere le idee perché gli uomini della Rivoluzione furono proprio quelli che deviarono il grande pensiero illuminista napoletano verso le idee del giacobinismo francese, snaturando proprio la dottrina innovatrice e maestra di Antonio Genovesi, che non era anti-monarchica. E lo stesso Gaetano Filangieri sostenne il primo ministro Bernardo Tanucci. l’Illuminismo partenopeo non va confuso con il giacobinismo napoletano, proprio il movimento che assorbì gli influssi francesi e snaturò la corrente realistica. Dico con fermezza che la storia di Napoli va analizzata con serenità e senza strumentalizzazioni, nostalgie e recriminazioni.