Il napoletano, la lingua dell’amore che non sa più dire “ti amo”

Angelo Forgione  — «Ti amo», si dice in Italia, ma non più a Napoli. Sì, perché un napoletano che si dichiara con il suo dialetto/lingua usa oggi l’espressione «te voglio bbene assaje» e, se proprio vuol essere più travolgente, la formula «songo ‘nnammurato ‘e te». Niente «ti amo», dunque. Bandito, non esiste. E invece no! Magari non si dice più, ma il napoletano, la lingua dell’amore, le conosce quelle due parole importanti. Ne ho trovato traccia nel trattato Del dialetto napoletano scritto nientepopodimeno che dal brillante economista Ferdinando Galliani e pubblicato nel 1779. Sfogliandolo, ci si imbatte nella coniugazione del verbo “Amare”, preceduta dall’avvertenza che la seconda persona singolare, per regola generale, termina sempre con una e. Dunque, nel fulgido Settecento napoletano dei Lumi, la gente del Regno diceva «ti amo», altroché!

Ferdinando Galiani è attendibilissimo, quantunque abruzzese di nascita e pugliese di origini. Crebbe a Napoli dall’età di sette anni, e qui costruì la sua formazione profondamente intellettuale, diventando uomo di grande lustro e importanza universale con il suo trattato Della moneta del 1751, tanto da essere più volte citato ne “Il Capitale di Karl Marx del secolo successivo per le sue intuizioni sul mondo valutario del Secolo dei Lumi, sul valore economico dei beni e su quello del lavoro necessario per produrli. Il trattato dialettale sull’idioma partenopeo lo pubblicò cinquantenne, rivendicando il primato della lingua aulica napoletana su quella toscana e indicando la necessità di salvaguardare quella più vicina al latino per respingere quella contaminata dal dialetto plebeo, e renderla lingua ufficiale del Regno di Napoli.
Magari è stata proprio la contaminazione volgare a mettere in second’ordine l’espressione “t’amo”, indicando la via al grande filone della canzone classica napoletana di Ottocento e Novecento. Come dimenticare il celebre valzer Te voglio bbene assaje del 1839, in cui il paroliere e ottico Raffaele Sacco scrive il verso “I’ t’aggio amato tanto, e t’amo e tu ‘o ssaje”. Libero Bovio, nel primo Novecento della Belle Époque, rese con un “mo nun ce amammo cchiù” la malinconica realtà di un amore finito tra un anonimo lui e la sua Reginella. Ed Eduardo De Filippo, nel 1984, traducendo in napoletano La Tempesta di Shakespeare, scrisse “Te voglio bene e t’amo, cchiú t’amo cchiú te stimo e cchiú t’onoro!” per napoletanizzare la frase originale “Do love, prize, honour you.” rivolta da Ferdinando, principe di Napoli, alla figlia del duca di Milano.
Dunque, ci siamo convinti che la lingua dell’amore non preveda la più eloquente delle dichiarazioni d’amore. Ma davvero vogliamo continuare a privare di un sentito «ti amo» proprio la lingua dei sentimenti?