Calcio italiano “game over”

la discriminazione territoriale scoperchia l’infiltrazione della malavita che ricatta le società e la società

Angelo Forgione È andata come peggio non poteva la finale di Coppa Italia. In scena, l’ennesima figuraccia del nostro calcio agli occhi d’Europa, proprio mentre il Portogallo superava l’Italia nel ranking europeo, come è logico che sia quando la prima e la terza lusitane eliminano dall’Europa League la prima e la terza italiane. Le immagini in diretta dallo stadio Olimpico ci hanno descritto di un colloquio tra Hamsik e responsabili del Napoli coi capiultrà (non tifosi, sia chiaro) seduti sulle recinzioni, utile ad allentare la tensione e far svolgere la partita per ordine pubblico, tra petardi lanciati all’indirizzo di addetti alla sicurezza e notizie ufficiali che si rincorrevano all’insegna della modifica ad arte con lo scopo di calmare gli animi. Tutto in una sera è venuto a galla la melma corrosiva sedimentata nel calcio italiano e nel Paese di cui è specchio.
Il presupposto di riflessione è unico: se la Digos segue i flussi delle tifoserie nelle trasferte è perché sa che tra di loro ci sono elementi pericolosi. Accade troppo spesso. I tifosi, quelli veri, sono di fatto schiavi di un passione e ostaggi di personaggi con un’etica e una mentalità tutta propria che non ha nulla a che vedere con la civiltà e che, da protagonisti di un torbido intreccio, assurgono al ruolo di chi comanda e di chi ha il potere di accendere gli animi o sedarli, sospendere o riprendere una partita, interfacciarsi o scontrasi con i rappresentanti e i tutori della pubblica sicurezza. Così accade in ogni aspetto della società in cui in ballo ci sono introiti facili e interessi personali, da sempre; dunque, perché scandalizzarsi solo quando le telecamere puntano gli obiettivi su una partita di calcio?
Potremmo star qui a parlarne all’infinito, e non avremmo nemmeno iniziato a farlo se non fosse successo quello che è successo all’esterno dello stadio. Il battito della farfalla dall’effetto devastante è di un altro capoultrà, della tifoseria estrema della Roma, già noto per le sue nobili gesta. È Daniele De Santis “Gastone”, destinatario di daspo, co-protagonista della sospensione di un Roma-Lazio del 2004 per l’omicidio (falso) di un un bambino da parte della polizia per cui se la cavò con la prescrizione, arrestato nel 1996 per ricatto all’allora presidente della Roma Franco Sensi, obbligato a fornire biglietti: «se non ci dai i biglietti – disse in un’intercettazione telefonica – facciamo lo sciopero del tifo e allo stadio non verrà più nessuno, e sfasciamo tutto, vedi un po’ se ti conviene». Questo è il profilo di un esercente in un chiosco nei pressi dell’Olimpico, sceso di casa per recarsi al lavoro con fumogeni, pistola ed, evidentemente, tanta premeditazione. Sapeva che gli odiati napoletani sarebbero passati nei suoi paraggi e invece di starsene buono pare abbia pensato di provocarli lanciandogli i fumogeni al grido «vi ammazzo tutti». All’inevitabile reazione, avrebbe risposto esplodendo colpi di pistola, colpendo alla colonna vertebrale Ciro Esposito. A terra ci è rimasto anche lui, pestato per vendetta, ma con “solo” una gamba rotta. Entrambi in ospedale, lo stesso, ma solo uno in rischio di vita. È questo il vero atto da condannare, e si è fatto grottesco l’accanimento nei confronti della “carogna” con la sua vergognosa maglietta, che non ha sparato contro un uomo come ha fatto “Gastone”, vero colpevole lontano dalle telecamere e dal clamore mediatico.
Dobbiamo discutere alla stessa maniera del problema delle curve inquinate, delle società ostaggio degli ultras, delle rapine in serie ai calciatori del Napoli per ricattare De Laurentiis che non cedeva e della caccia al tifoso napoletano ormai troppo evidente. C’è un filo logico che unisce questi aspetti, e l’applicazione della discriminazione territoriale l’ha reso più evidente. Ormai il sistema è saltato, ma non da oggi, ed è tempo sprecato la ricerca delle responsabilità e delle attenuanti tra questa o quella tifoserie. Di sane non ce ne sono più. Le responsabilità arrivano da lontano e hanno radicato un modo di pensare e agire deviato che ha contagiato anche gli addetti ai lavori. Un esempio? La scorsa settimana, prima di Inter-Napoli, gli interisti avevano reclamato con un grosso striscione la loro importanza vitale sugli spalti. Due pagine di libro chiuse così: “È la tifoseria che fa diventare il calcio una cosa importante”. Era un ricatto a Lega e FIGC, bello e buono, al quale le istituzioni del calcio pure stanno. I tifosi portano abbonamenti alle tv e allo stadio e alimentano il merchandising, che è voce importantissima nei bilanci moderni dei club italiani, tutti dipendenti da banche o risorse esterne della proprietà (eccetto il Napoli). I conti sono diventati l’unica emergenza delle società italiane, e nel frattempo la qualità e la competitività se ne sono andate a farsi benedire. Il segno della sottomissione di alcuni club ai gruppi organizzati? Se da una parte i cori razzisti contro Napoli durante la stessa partita hanno poi fruttato una sanzione come da regolamento (2 giornate di chiusura della curva nerazzurra), dall’altra si prepara per giugno una revisione non ancora ben chiara delle punizioni. Chissà cosa ne verrà fuori, dopo 40 anni di impunità e uno solo di applicazione. Il problema è diventata la sanzione, non il reato (commesso anche dai tifosi della Fiorentina durante la finale di Coppa), e allora ci si è messo – e non da ora – anche il telecronista Mediaset Sandro Piccinini in telecronaca, subito dopo i cori, a dar ragione ai ricattatori e a chiedere libertà di “sfottere”, invece di condannare certi atteggiamenti. Il condizionamento parte dagli stessi club coinvolti, i quali, dalla loro posizione di ricattati, invece di lavorare al cambio di mentalità, sbertucciano la discriminazione territoriale, la quale viene contestata perché presta il fianco ai ricatti delle curve e le svuota per decisione dei loro capi. Il problema è tutto lì: la norma sulla discriminazione territoriale, fornendo agli ultrà un’ulteriore arma di ricatto, ha scoperchiato indirettamente un problema ben più ampio, o meglio, il vero problema da risolvere, che appresso si porta anche l’amplificazione del razzismo. Prima si saneranno le curve e prima guarirà il calcio. Ma è possibile guarire il calcio prima di aver guarito l’Italia?
Un passo indietro delle istituzioni è impensabile, sarebbe una sconfitta gravissima. Dovrebbero farlo i club, che con le curve hanno da tempo frequentazioni poco raccomandabili e per nulla educative. A costo, se proprio occorre, d’avere stadi semivuoti per un po’. Un mito del calcio italiano come Maldini ha lasciato l’attività tra i fischi dei suoi “tifosi”, coi quali non ha mai legato. I ricatti dei capiultrà del Milan colpivano Galliani, messo sotto scorta, e Paolo non ha mai avuto atteggiamenti accondiscendenti verso i gruppi del tifo organizzato rossonero che pretendevano biglietti e vario merchandising a prezzi più bassi per poi rivenderli all’interno della curva.
Prima della finale tra Napoli e Fiorentina l’inno nazionale è stato sonoramente fischiato, ma lo sarebbe stato anche senza quel che è accaduto. Nascondere il dissenso dietro gli eventi drammatici di ieri significa censurare un malessere che è anche tra i tifosi normali, che vanno allo stadio solo per coltivare la passione per la propria squadra dopo una settimana di malpagato lavoro, quando c’è. Il presidente del Consiglio, il presidente del Coni, il presidente della Lega e il presidente della FIGC erano tutti all’Olimpico, testimoni oculari dell’evidente fallimento di un calcio malato che è immagine riflessa di un Paese senza cultura e con troppa delinquenza. E nulla fa per curarsi seriamente. Gamer over, si fa per dire. La giostra ricomincia fino al prossimo stop.