Storia e segreti del caffè a Napoli. Rito e tradizione della città.

Perché ‘a tazzulella ‘e cafè è meglio qui che altrove

di Angelo Forgione
dal libro “Made in Naples” (Magenes, 2013) – riproduzione vietata

«Prendiamoci un caffè!» È l’invito più frequente a Napoli, pretesto mondano e occasione di socializzazione per una chiacchierata in leggerezza, piacevole occasione di distensione quotidiana, al lavoro come nel tempo libero. Nella città partenopea il caffè è un rito che è pure business, una tradizione talmente radicata da aver consacrato in Italia e nel mondo l’espresso napoletano, partendo dal Settecento, quando nell’antica città capitale se ne beveva almeno una tazzina al giorno.
La pianta del caffè è originaria dell’Abissinia, attuale Etiopia, da cui si diffuse in Arabia e in Turchia. Proprio a Costantinopoli, nel 1554, fu aperto il primo locale di degustazione. Nel Seicento, i chicchi neri dell’arabo qahwa giunsero in Europa a bordo delle navi dei mercanti veneziani, partendo proprio dalla Turchia, dove la parola kahve, portata in laguna, fu italianizzata in caffè. Ma fu Vienna la prima città europea che ne fece una vera e propria istituzione, dando vita, alla fine del XVII secolo, ai primi Kaffeehaus, i famosissimi caffè viennesi, locali di piacevole degustazione della bevanda ottomana. Il caffè vi fu portato dal pascià Kara Mahmud, ambasciatore turco alla corte dell’imperatore Leopoldo I, che nel 1665 giunse nella capitale austriaca portando con sé stalloni arabi, cammelli, un’abbondante scorta di chicchi di caffè e due inservienti esperti nel trasformarli in bevanda. Il primo locale viennese risale al 1685 ma la sua storia si fa leggenda epica, legandosi all’assedio ottomano di Vienna del 1683, quando le trecentomila guarnigioni turche, guidate dal generale Kara Mustafa, in frettolosa fuga lungo il Danubio per l’irruzione in difesa della città della coalizione cristiana guidata dal Re di Polonia Giovanni III Sobieski e dal duca Carlo di Lorena, avrebbero abbandonato negli accampamenti cinquecento libbre di caffè crudo. Il prezioso informatore Georg Franz Kolschitzky, un polacco residente in Austria, avrebbe ottenuto il dono imperiale di quella merce, poi riutilizzata aprendo il “Blue Bottle”, il primissimo Kaffeehaus. In realtà, gli archivi viennesi svelano che il mercante Kolschitzky dovette penare assai prima di ottenere la licenza commerciale, consegnata nel 1685 non a lui ma a Johannes Diodato, un armeno residente nella capitale austriaca che già da tempo serviva caffè, pur senza autorizzazione. Leopoldo I gli concesse un monopolio reale per la durata di vent’anni con cui Vienna divenne il trampolino di lancio della cultura del kaffee, nonché il punto di partenza di un ponte culturale con Napoli attraverso il quale passò anche la bevanda nera.
    Dalla capitale dell’Impero austriaco proveniva Maria Carolina D’Asburgo-Lorena, sposa nel 1768 di Ferdinando di Borbone. Fu proprio lei a radicare la tradizione del caffè nella cultura napoletana. Per la nuova autoritaria regina era prioritario misurarsi con la figura del primo ministro Bernardo Tanucci, rappresentante delle ingerenze di Madrid dopo la partenza di Carlo di Borbone da Napoli per il trono di Spagna. La diplomazia asburgica aveva interpretato il matrimonio di Maria Carolina con Ferdinando come strumento di sottrazione del Regno di Napoli dall’influenza spagnola, obiettivo politico che passò anche attraverso l’affermazione del costume viennese nell’etichetta di corte, in luogo di quello franco-spagnolo. Il caffè fu insomma simbolo e strumento diplomatico nell’asse Vienna-Napoli. Da quest’incrocio, la città partenopea divenne terminale del percorso e capitale italiana del caffè con la sua reinterpretazione di tostatura più apprezzata. Della viennese Maria Antonietta di Francia, sorella di Maria Carolina, si racconta che prima di avviarsi al patibolo volle bere proprio una tazza di caffè. Che si tratti di fantasia o realtà, furono comunque le due sorelle austriache a “lanciare” in Europa l’infuso di chicco turco macinato, creando i presupposti per il più classico abbinamento mattiniero della colazione al bar. Il caffè si sposò col cornetto, che pure si ricollega leggendariamente all’assedio ottomano respinto grazie ai fornai viennesi, i quali, durante il lavoro notturno, avrebbero sentito i rumori dei soldati turchi nel tentativo di penetrare nella città dal sottosuolo. Per ringraziarli, il re polacco avrebbe chiesto loro di creare un dolce che ricordasse la vittoria della cristianità. L’invenzione del fornaio Peter Wendler fu il kipferl, “mezzaluna” in lingua tedesca, una panetto a forma del simbolo della bandiera turca, da divorare metaforicamente. Kaffee e kipferl, deliziose viennoiseries, una turca di adozione austriaca e l’altra austriaca di ispirazione turca. Anche il kipferl seguì i fornai di Maria Antonietta a Parigi e quelli di Maria Carolina a Napoli. Nella capitale francese fu ribattezzato croissant, cioè “crescente”, come la fase lunare che offre lo spicchio di luna visibile, mentre nella capitale duosiciliana prese il nome di cornetto, legandosi nella nomenclatura alla popolare scaramanzia apotropaica della città. Caffè e cornetto fecero così il loro ingresso nella cultura delle due capitali, ben prima che la colazione conoscesse a inizio Novecento la fortunata variante del cappuccino.
    Un passo fondamentale nella storia del caffè a Napoli fu compiuto con l’invenzione, nel 1819, della cuccumella, la caffettiera napoletana che alternava il metodo di preparazione per decozione alla turca al metodo di infusione alla veneziana, con un sistema a doppio filtro. La cuccumella consentì la preparazione domestica, poi delegata alla moka nel Novecento, quando i napoletani erano già divenuti abili maestri nel maneggiare la macchina per espresso da bar inventata a Torino nel 1884.
Ma perché, nonostante l’infuso nero non abbia radici partenopee, chiunque metta piede a Napoli resta attratto dalla tazzulella più famosa al mondo? Il più classico dei luoghi comuni popolari vuole che il segreto sia l’acqua, storicamente buona nella città vesuviana; ma si tratta, appunto, di un semplice luogo comune. Napoli è maestra di reinterpretazioni e anche il caffè lo dimostra. Il vero segreto è racchiuso nella particolare tostatura dei chicchi, che conferisce loro una più scura colorazione rispetto a quella delle altre regioni italiane e straniere. Si dice della tostatura napoletana che é “cotta al punto giusto”. Ciò significa che le è prestata una grande attenzione durante il processo di torrefazione, che se fosse solo di poco più lunga causerebbe la bruciatura dei chicchi stessi. Questa specifica attenzione, dopo qualche giorno di riposo, riduce l’acidità ed esalta gli oli essenziali che contribuiscono a una migliore estrazione degli aromi. Tutta questa esclusiva lavorazione a monte, unita alla maestria nelle manovre alla macchina per espresso, conferisce il caratteristico gusto al caffè napoletano, da apprezzare pulendosi prima la bocca con un sorso d’acqua. Un giusto forte e deciso nel retrogusto, dal tono amaro e non acido, ma anche corposo per via di una percentuale di qualità robusta unita all’arabica di cui è composta la miscela napoletana.
Altro punto a favore dell’espresso partenopeo sta nel fatto che è più salutare di qualsiasi altra preparazione del caffè, poiché l’estrazione di caffeina, che è relazionata al tempo di esposizione all’acqua calda, è minima. In sostanza, contrariamente a quanto pensano in tanti, il caffè “ristretto” alla napoletana è molto più salutare di un caffè “lungo” dal sapore discutibile e dalla maggiore concentrazione di caffeina.
   Per storia e radicamento, l’unica tradizione in Italia che può affiancarsi alla napoletana è quella di Trieste, dove pure il caffè è rito. Non è un caso. La città giuliana era un porto dell’Impero Austriaco quando Maria Carolina regnava a Napoli, e da lì accedevano le scorte di caffè provenienti dalla Turchia. Ma senza nulla togliere al pur forte rapporto tra la città alabardata e il caffè, la miscela triestina non conserva in sé le peculiari caratteristiche di tostatura della napoletana ed è connotata da un più elevato grado di dolcezza che, se per i gusti di qualcuno può rappresentare un vantaggio, per i veri cultori non è altro che un fattore decretante la superiorità dell’espresso napoletano. A Trieste si predilige un infuso delicato, fruttato e dolce nel retrogusto. È una filosofia diversa ma con una radice comune, quella asburgica.
Riti e storie ruotano attorno al caffè partenopeo. È di regola berlo con le quattro C, ossia le iniziali della frase “comme coce chistu cafè”. E scalda più il cuore che il palato un’usanza nata nel quartiere Sanità: il caffè sospeso. L’avventore paga due tazzine, di cui una a beneficio di un ignoto indigente che ne faccia richiesta. Una grande lezione di dignità, recepita di recente anche dalla nuova Europa povera che dalla solidarietà napoletana ha tratto gli anticorpi per combattere la recessione.
Il “matrimonio” tra Vienna e Napoli radicò una fortissima tradizione e partorì la rinomata miscela napoletana. Un’unione fruttifera, suggellata anche sotto il profilo dolciario: nel 1898, Josef Manner, un imprenditore viennese del cioccolato, mise insieme zucchero, olio di cocco, cacao in polvere e pregiate nocciole provenienti dalle piantagioni vesuviane per creare quattro strati di ripieno tra cinque strati di cialda. Era il Manner Original Neapolitan Wafer n. 239. Quella ricetta non è mai cambiata, e detta da allora le modalità per la produzione dei wafer alla nocciola, universalmente noti come Neapolitaner. Proprio come il caffè.

7 pensieri su “Storia e segreti del caffè a Napoli. Rito e tradizione della città.

  1. Pingback: Anonimo

  2. Pingback: Uno schiaffetto al caffè napoletano | il blog di Angelo Forgione – V.A.N.T.O.

  3. Ciao Angelo
    La storia che descrivi è ricca di informazioni ed orgoglio, nonchè di fascino.
    A prescinedere dalla mie origini, ti rispondo però con una provocazione: sulla pagina wikipedia Caffetteria, dedicata al mondo del caffè, nessun riferimento è fatto alla storia del caffè napoletano nè alla città di Napoli, la quale viene nominata soltanto in un rigo del paragrafo “Ottocento”, in cui si fa un vago rimando al solo caffè Gambrinus. Viene invece dato ampio spazio ai caffè del nord Italia, partendo dal Florian di Venezia, passando per il Pedrocchi di Padova (magari ci può stare, erano più austriache che italiane), Firenze, Pisa, finendo (!!!!) al caffè Fiorio di Torino.
    Cosa ne pensi di questa versione? Pilotata o vagamente accettabile?
    Grazie per l’attenzione.
    Andrea

  4. Pingback: Cronaca di Napoli

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