Sfogliatella napoletana: dalla tracce medievali al dolce di oggi

Angelo Forgione La sfogliatella, delizia tra tante della pasticceria napoletana, altro simbolo della città di Parthenope in duplice versione – La riccia, la più antica – di cui sono assai incerte le origini. Una tradizione la vuole nata alla fine del XVIII secolo nel monastero napoletano della Croce di Lucca dalla creatività di una dama ai voti o da un’addetta alla realizzazione di dolci. Un’altra la vuole inventata nel XVII nel convento di Santa Rosa a Conca dei Marini, in Costiera amalfitana.
Pare proprio che la Santa Rosa, diversa della più nota sfogliatella per la presenza di crema pasticciera e amarene sulla sommità, per l’uso delle uova nell’impasto della sfoglia e per maggiore grandezza, sia antecedente, e pare anche che avesse forma di un cappuccio, un sorta di cono rovesciato. Si narra che a modificarlo sia stato Pasquale Pintauro, a Toledo, nel primo Ottocento, conferendovii l’attuale forma di conchiglia e sdoganandola con gran fortuna.
E qui si arrestano tradizioni e racconti, e si parte con i documenti, perché qualcosa di assolutamente accertato è che una sfogliatella antesignana esisteva già in epoca medievale, e non è detto affatto che si trattasse di roba partorita nella Napoli angioina o aragonese. Il primo riferimento scritto è datato 1529, e ce l’offre Cristoforo Messisbugo, cuciniere alla corte di Beatrice d’Este e dei Gonzaga di Mantova, nel suo trattato Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivanda, in cui si legge di Sfogliatelle di pignuoli sgrostate, con formaggio grasso.

Non basta questo ad affermare che per sfogliatella si intendesse pressappoco quel che si intende oggi, e di certo il contenuto era ben diverso, ma un riferimento più attendibile ce lo offre il lombardo Bartolomeo Scappi, cuoco papalino, nel suo trattato di cucina Opera di B. S. del 1570, in cui si legge di sfogliatelle diverse: “Sfogliatelle fatte con butiro, et pignoli ammaccati per dentro”; “Sfogliatelle, fatte con latte, butiro, rossi d’oua, e zuccaro”; “Sfogliatelle fatte con butiro e rossi d’oua”; “Sfogliatelle semplici, fatte con latte, et oua“; e poi la spiegazione della preparazione delle Sfogliatelle piene di bianco magnare, fatte con “pastone sfogliato” da richiudere “perché le amendue le parti si congiunghino insieme”. Il ripieno era così fatto: “un pezzo di biancomagnare, mescolato con ricotta fresca, e chiare d’oua (uova) fresche battute, i pignoli ammogliati”. Cos’era il “biancomagnare” (o biancomangiare)? Una preparazione d’epoca medievale molto diffusa e diversificata. In questo caso, lo Scappi spiega nella ricetta precedente trattarsi di un pasticcio bianco rassodato fatto con farina, rossi d’uova, strutto, sale, zucchero e acqua di rose. La sfogliatella andava poi fritta nello strutto caldo o cotta in forno, per poi servirla “calda con zuccaro sopra”. Altra maniera poteva essere quella di non usare la “pasta sfogliata” ma “un sfoglio tondo” su cui porre al centro il ripieno “a piramide, e sopra esso pongasi un’altro sfoglio sfogliato, tanto grande che la cuopra”.

Tutto divulgato nel 1570 da un cuciniere lombardo, che non è da confondersi con l’inventore di un dolce di cui non si conosce la paternità ma che sicuramente è stato sublimato in Campania con un ripieno di semolino, ricotta, zucchero, uova, scorzetta d’arancia, cannella, vaniglia e aromi vari, divenuto uno degli emblemi della rinomatissima e deliziosissima pasticceria napoletana.
La preparazione dell’impasto, ottenuto con farina americana, sale, acqua e sugna, è estremamente complessa e richiede l’esperienza di un pasticcere, dal momento che la sottile sfoglia ottenuta va arrotolata più volte fino a costituire un cilindro di trenta centimetri di lunghezza e otto di diametro che, una volta conservato in frigorifero per 24 ore, può essere tagliato a fette per ottenere i cosiddetti “tappi”, da “aprire” in modo da ottenere delle coppette che accoglgano il ripieno. L’impasto della frolla è certamente più semplice da realizzare, ma non meno delizioso per chi preferisce la friabilità alla croccantezza.

“Napoli inventò le zeppole, tutta Italia se ne leccò le dita.”

zeppola

Angelo Forgione – Festa di San Giuseppe, e si conclude la Quaresima, con la Pasqua alle porte. Una ricorrenza davvero molto sentita a Napoli almeno fino al secondo conflitto mondiale. Portava anticamente la fiera degli uccelli e quella dei giocattoli, che avevano luogo vicino alla chiesa cinquecentesca di San Giuseppe, da cui prendeva il nome l’intero rione di Monteoliveto, finché questa non fu demolita per il Risanamento, e allora la fiera fu spostata in via Medina. Oltre i volatili, si potevano trovare cuccioli di cani di tutte le razze, di gatti e di conigli. Di balocchi se ne regalavano più o meno come oggi a Natale e come, a quel tempo, all’Epifania. Non erano i figli a fare regali ai padri quando il 19 Marzo non era ancora la Festa del Papà ma una data particolare per i napoletani, perché segnava il cambio di stagione. Tutti gli uomini riponevano la bombetta nell’armadio per indossare la paglietta e i pantaloni bianchi di flanella. Anche le donne si alleggerivano un bel po’.
Il giorno del Santo, di fronte alla chiesa di San Giuseppe si disponevano le bancarelle con le zeppole, dolci fritti a forma di serpe avvitata su se stessa, una serpula, dal latino serpens. Qualcuno dice che furono inventate da un cuoco dei Borbone, cui sarebbe stato chiesto di preparare un dolce per la Quaresima privo di uova e di grassi animali, allora proibiti. Qualcun altro, invece, sostiene che la maternità sia tutta da attribuire, in tempi più antichi, alle monache dei decumani. Sulla zeppola la confusione regna sovrana, anche sulle sue diverse versioni. Mettiamo un po’ d’ordine.

Si è incompleti nell’indicare per “zeppola” il dolce napoletano fatto con pasta a bignè e guarnito sopra con della crema pasticcera e un tocco di amarena. Attenzione: si tratta più precisamente di “Zeppola di san Giuseppe“, un’invenzione del 1840 firmata dal pasticcere Pasquale Pintauro sulla strada di Toledo, che prese spunto dalla tradizione locale delle antiche “zeppole napoletane“, semplici frittelle dolci partenopee. Secondo la prima ricetta, scritta nel ricettario in dialetto napoletano di Ippolito Cavalcanti del 1837, erano di farina buttata nell’acqua bollente arricchita da un po’ di vino bianco, e poi fritte con l’olio o con la sugna per averne un bigné da guarnire con zucchero o miele. Il grande cuoco-letterato usò il termine “tortanielli” per descrivere la forma a serpentelli avvitati su se stessi. Dopo qualche anno, la ricetta fu tradotta anche in italiano.

Le “zeppole napoletane” si preparavano in tutti i periodi dell’anno. A Carnevale, alla farina si aggiungevano delle patate lessate per dare una sensazione di straordinaria morbidezza al palato. Avrete capito che si tratta della tipica “graffa napoletana“, il cui nome è una napoletanizzazione del “krapfen” austriaco, a evidenziare il dialogo storico Napoli-Vienna anche in termini di leccornie.

Di “zeppole napoletane” se ne trovavano con maggior facilità per strada il 19 marzo, giorno in cui gli zeppolajuoli allestivano dei banchetti nel giorno del tradizionale struscio di primavera sulla centralissima strada di Toledo, quando i napoletani iniziavano a indossare abiti più leggeri. Finivano tutti per deliziarsi con una zeppola tradizionale a ciambelletta, e dal 1840 in poi, anche con una “tonda” o “del pasticciere”, come definì la nuova zeppola di Pintauro il filologo Emmanuele Rocco, che nel 1866, fantasiosamente, avrebbe voluto addirittura un monumento cittadino con la seguente epigrafe: “Napoli inventò le zeppole, tutta Italia se ne leccò le dita”. Doveva esserne ghiotto visto che le riteneva uno dei tanti privilegi che gli italiani avevano avuto in dono dai napoletani.

Pasquale Pintauro, che su Toledo stava (e ancora sta), aveva arricchito l’impasto di uova e ne aveva fatto un bignè corposo, in modo da poterlo guarnire come la sfogliatella Santa Rosa, con crema pasticciera e amarena. Aveva fatto la rivoluzione della zeppola, e inventato la più elaborata “zeppola di san Giuseppe”. E siccome, proverbialmente, “tene ‘a folla Pintauro”, è facile immaginare l’esito dell’operazione.

Il Rocco, da studioso di cose partenopee, aveva individuato anche una variante rettangolare destinata ai più poveri, detta “dello zeppolajuolo”, che vale a dire ‘o scajuozzolo, fatta con farina di granturco, fritta e priva di qualsiasi guarnizione, da cui l’uso contemporaneo del termine “zeppola” per definire anche la semplice pasta cresciuta, pastella lievitata, talvolta con alghe di mare, fritte e salate.
Dunque, la zeppola, comunque sia, dolce o salata, è pastella rigorosamente fritta, non al forno. Del resto, san Giuseppe è anche il protettore di chi frigge, “i frittaruoli”, come si definivano nel Settecento napoletano. Li citò Goethe, curioso di termini partenopei, raccontandone le gesta vedendo le frittelle napoletane, cioè le zeppole antiche pre-Pintauro, nella strada di Toledo il 19 marzo 1787:

(traduzione)
“Oggi poi ricorreva la festa di S. Giuseppe, patrono dei friggitoria, o «frittaruoli»; e siccome l’arte di questi richiede di continuo fuoco vivo, ed olio bollente, ogni tormento per mezzo del fuoco entra nella competenza del santo; epperciò, fin di ieri sera le case, le botteghe dei friggitori, erano ornate di quadri, di pitture, le quali rappresentavano il purgatorio, il giudizio universale, colle anime sottoposte alla pena delle fiamme. Ampie padelle stavano davanti alle porte, sopra focolari leggieri e portatili; un giovane porgeva il piatto dove stava la farina, un altro formava le frittelle (zeppole, ndr), e le gittava nella padella dove bolliva l’olio, ed ivi un terzo giovane, muoveva con un asta in ferro le fritelle, le traeva fuori quando erano cotte a dovere, porgendole ad un quarto giovane, il quale le infilava in uno spiedo più leggiero, e le offeriva agli astanti. […] Il popolo si affollava attorno alle padelle, imperocchè in quella sera le frittelle (zeppole, ndr) si vendono a minor prezzo, ed anzi una parte n’è riservata per i poveri. […]”

Quando, nel 1968, il giorno di san Giuseppe fu reso Festa del Papà, la fiera era già in via Medina e la zeppola era ormai famosa in tutt’Italia, conosciuta anche oltreoceano grazie agli emigranti. Da allora i ruoli si invertirono e iniziarono i figli a fare regali al proprio padre. Il Santo non proteggeva solo ogni papà ma anche, in modo specifico, tutti i falegnami, e di legno era il suo bastone, Un avanzo di questo legno, autentico o fasullo che fosse, finì a Napoli nel primo Settecento per essere custodito in una nicchia del palazzo di Chiaia del tenore Nicola Grimaldi, controllato a vista da un servitore il cui compito era quello di evitare che fosse toccato. “Nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe” era, in napoletano, l’esortazione a non usurare il sacro bastone, poi divenuta un diffuso e tipico modo di dire del popolo per invitare a non infastidire, mentre la famosa mazzarella finiva per essere tradotta nella congregazione di San Giuseppe dei Nudi a San Potito, in via Giuseppe Mancinelli, dove oggi è gelosamente conservata.

Napoli, Fiera di San Giuseppe in via Medina (Ph: Archivio Parisio – Renato Bevilacqua)