Caro Aurelio, solo tu a Napoli non puoi girare?

E no, caro Aurelio. Stavolta non mi sei piaciuto. Ho letto ciò che Anna Paola Merone del Corriere del Mezzogiorno ha carpito dalla tua bocca in occasione della presentazione del tuo nuovo “cinepanettone”. Alla domanda «Allestire un set in città?» pare che tu abbia risposto così:

È impossibile, come si fa? Io ho fatto qui La mazzetta con Nino Manfredi e mi è bastato. Ricordate Agostino ‘o pazzo? Si piazzava davanti alla telecamera pretendendo il pizzo. Io me lo portavo via, ci parlavo, chiedevo rispetto per le mie origini napoletane, per il lavoro che portavamo in città… Devo continuare? Pure Vittorio De Sica aveva fatto allestire i bassi a Cinecittà e ci aveva trasferito famiglie napoletane che vivevano lì giorno e notte per dare più verità al set»

Cerco di capire. Dici che Agostino ‘o pazzo, il diciottenne napoletano che per quattro notti, nell’estate del 1970, sfidò con la sua moto 125 la polizia sgommando a tutta velocità lungo via Toledo, dopo otto anni si era trasformato in Agostino ‘o pizzo? Non mi risulta, caro Aurelio. Antonio Mellino, questo il suo nome all’anagrafe, era un ragazzo cui piaceva la velocità e ci provò gusto a fare da lepre per le forze dell’ordine, entusiasmando la folla che ne fece un mito dalla sera alla mattina. Iniziò per caso, eludendo un posto di blocco perché stava andando dalla fidanzata contro il volere del padre. Durò pochi giorni, in cui se ne vedevano di tutti i colori alla sera. Lui, caro Aurelio, si rintanava serenamente in casa, in piazza dei Girolamini, mentre a via Toledo succedeva di tutto. Fu beccato, ma non braccato in un inseguimento. Lo fermarono in piazza del Gesù, fermo e tranquillo in auto con gli amici, e lo portarono al Filangieri. Gli scattarono una foto segnaletica con lo sguardo torvo e la camicia a pois, e gli diedero una severa condanna, ma lo trattennero solo per tre mesi. Poi lo riportarono a casa, dove viveva con la sua onesta e buona famiglia, perché fu presto chiaro che fosse solo un giovanotto sveglio con una forte passione delle due ruote. Erano i tempi di Giacomo Agostini, da cinque anni campione del mondo di Motociclismo, cui ci si ispirò per dargli un nome nello tsunami improvviso di fama che Antonio seppe alzare in quei giorni. E non mi risulta, caro Aurelio, che Antonio sia finito nei guai in seguito. Abita ancora lì, nel centro antico di Napoli, dove gestisce pure una nota bottega antiquaria. Di problemi con la giustizia, più nessuno. Anzi, per restare in tema, nel 1971 ebbe anche un’esperienza da attore-stuntman in Un posto ideale per uccidere con Ornella Muti e Irene Papas, un film poi ripudiato dal suo regista Umberto Lenzi e dallo stesso Antonio Mellino, perché Napoli ne usciva raccontata ancora una volta in modo sbagliato. «Non mi piacque, Napoli usciva negativa come sempre. Pure nei film – disse Agostino ‘o pazzo – vengono a riprendere i soliti sfondi gratis e il resto lo fanno a Roma. Ma perché non fanno mai vedere le cose belle e vere che abbiamo?». Ora, tu, Aurelio, dici che Antonio Mellino, nel 1978, invadeva il tuo set come un camorrista e pretendeva soldi per farti proseguire o forse per essere ingaggiato. Forse sarà proprio Antonio a chiarire e a dire la sua, ma in ogni caso sono passati 37 anni, di cui tu, Aurelio, ne hai trascorsi 11, gli ultimi, da presidente della squadra di Calcio della città. E da presidente del Napoli hai parlato alla nazione di napoletanità, di uno stile di vita che non può essere capito da chi non è napoletano, di una sofferenza nata dall’impoverimento esogeno. Proprio tu, Aurelio, hai detto che i napoletani sono «i vessati per eccellenza», e poi ci racconti di una Napoli impossibile? I film girati a Napoli neanche si riescono a contare da quando, sul finire dell’Ottocento, i fratelli Lumière vennero a riprendere le meraviglie della città e, soprattutto, da quando – nel 1919 – il napoletano Gustavo Lombardo fondò la Titanus e i primi studios sulla collina del Vomero. Tu dirai che sto parlando di un secolo fa, ma negli anni in cui hai potuto vivere Napoli più da vicino il “sipario” napoletano è rimasto tutt’altro che chiuso. Pure per i musicisti, se è vero che Amedeo Minghi girò qualche anno fa il videoclip del suo brano Vicerè nei “quartieri spagnoli”, anzichè riprodurli a Cinecittà. Una notte intera, fino all’alba, circondato dai napoletani che portavano ciambelle e caffè. I Manetti Bros, romani anche loro, hanno girato recentemente Song ‘e Napule, a Napoli, non a Cinecittà, e non ebbero problemi. E anche loro non sono d’accordo con quello che hai detto. Vuoi che ti parli di Passione di John Turturro, girato interamente a Napoli, compresi i Campi Flegrei, nel 2009? Non mi risulta neanche che il regista-attore newyorchese abbia trovato difficoltà per i suoi ciack e per tradurre in pellicola il suo amore per Napoli. “Ci sono luoghi dove uno va una volta e basta. E poi c’è Napoli”, ha detto Turturro. E dai teleschermi Rai ha pure precisato: «Napoli è un luogo incredibilmente vibrante e vivo dove tornerò a lavorare con estrema facilità». Estrema facilità, Aurelio. Non mi pare poco. Forse sei tu che a Napoli sei andato a girare una volta e basta, mentre gli altri non vedono l’ora di tornare a farlo. Magari tu e Antonio Mellino ci chiarirete la tua dichiarazione, che però non aiuta Napoli a recuperare la sua immagine, quella che le spetta, quella che tu hai definito “vessata”. magna_adl_xSei un bravo imprenditore e sai come muoverti, hai portato il Napoli a grandi livelli, facendolo competere con gli squadroni del Nord, e per tutto questo ti auguro lunga vita sotto il Vesuvio. Hai la mia stima, e perciò ti ho regalato di persona i miei libri, al MAGNA. Ma tu sai benissimo che Napoli è un set, tra i più belli che ci siano, ed è ambito dal cinema comico e d’autore. Sai bene che Napoli è un laboratoro d’avanguardia nel campo dell’animazione. Quello che hai dato in pasto ai detrattori non mi è affatto piaciuto. Forse i miei libri non li hai ancora letti. Sono certo che se lo farai, poi, ci penserai due volte a vessare anche tu la napoletanità.

Napoli culla del cinema e del doppiaggio italiano

Angelo Forgione – È una storia tutta da raccontare quella del cinema italiano, che parte dal tramonto dell’Ottocento, quando Napoli abbracciò con gioia la nascita della “pellicola”. I primi film muti dei fratelli Lumière furono proiettati a fine secolo nel Salone Margherita e anche Napoli ne fu protagonista dopo che Loius e Auguste filmarono, nel 1898, il lungomare di via Santa Lucia prima della costruzione del nuovo rione umbertino, una pulitissima e ordinata via Toledo e altre immagini di una città animata da carretti trascinati da asini, carrozzelle e autobus a trazione animale.
Sulla scia dell’apertura del primo Cinematografo in Francia, datato 1902, fiorirono a Napoli venti sale cinematografiche; la più significativa fu quella storica del 1905, quando a piazza Municipio fu inaugurato il Cinematografo Parlante, poi Salon Parisien, che anticipò il Radium Cantante di Roma dell’anno seguente, rendendo Napoli la città cinematograficamente più importante del regno d’Italia. Nel 1908, esistevano in Italia sette riviste specializzate di cinema e ben sei erano pubblicate a Napoli. Nel 1911 divennero undici su ventotto nazionali.
Episodi di doppiaggio pionieristico sono descritti nel libro Tradurre per il doppiaggio (Hoepli, 2005), in cui si legge che Il cinema Iride di Napoli ingaggiò Antonio Jovine e Giuseppina Lo Turco per doppiare Il fu Mattia Pascal. I due doppiatori si sistemarono accanto allo schermo con megafono in mano e, seguendo i movimenti delle labbra degli attori, recitarono le didascalie che avevano imparato a memoria. Il pubblico era per lo più analfabeta e la lingua di doppiaggio era il dialetto.
Anche la produzione di pellicole iniziò a proliferare a Napoli, a partire dal lavoro dei fratelli Troncone, pionieri dell’industria cinematografica con la Partenope Film del 1906. Il Vomero fu la Hollywood italiana e vi sorsero tutte le primissime case di produzione cinematografiche d’Italia. Giuseppe Di Luggo fondò nel 1912 la Polifilms, ceduta per difficoltà economiche a Gustavo Lombardo nel 1919, imprenditore napoletano della distribuzione che creò, sempre al Vomero, la Lombardo Film, poi rinominata Titanus, una delle maggiori realtà dell’industria cinematografica italiana. Tra il 1924 ed il 1925 più di un terzo dei film italiani fu prodotto sotto il lombardo_filmVesuvio, con soventi espressioni dialettali. Lombardo realizzava la sua produzione cinematografica in un capannone oggi scomparso, rilevato da Di Luggo e ubicato all’incrocio tra via Cimarosa e via Aniello Falcone. Oggi una lapide, apposta su un fabbricato del dopoguerra, al n.182 di via Cimarosaì, ricorda la presenza in quel luogo della prima “Cinecittà” italiana. Per le scene in esterna, la Titanus aveva disponibilità del giardino di Villa De Gaudio, ubicata nel luogo dove oggi è la FNAC di via Luca Giordano e di proprietà dell’amico Giovanni De Gaudio, fondatore del glorioso teatro Diana. Le pellicole venivano lavorate nella Eliocinegrafica di via Tito Angelini. Alla fine degli anni Venti, la Titanus si trasferì a Roma, dove i forti incentivi del governo fascista richiamarono il mondo della celluloide. Con l’avvento del Fascismo, la lingua unica doveva essere l’italiano e l’interesse del Regime per lo strumento cinematografico, utile alla propaganda, produsse nel 1931 un legge per accentrare la produzione nazionale nella capitale, marginalizzando la produzione napoletana. Lombardo, a Roma, adottò lo scudo come emblema, facendo crescere lì la mitica Titanus, con cui lanciò Totò sul grande schermo. Tra le due guerre, in un periodo di grande crisi anche per il cinema nazionale, la salernitana Elvira Notari, la prima regista donna del cinema italiano, antesignana del Neorealismo, creò il filone partenopeo girando pellicole basate su famose canzoni, sceneggiate, romanzi e fatti drammatici realmente accaduti in città.  Le pellicole della Notari che proponevano ambienti napoletani stereotipati vennero posti sotto censura per offesa della dignità partenopea. Al regime, che intendeva restaurare i fasti della Roma imperiale, non piaceva l’umanità plebea e non tollerò film con posteggiatori, scugnizzi e vicoli con panni stesi in cui si parlava in napoletano. Mentre in Italia si censuravano i dialetti, i film napoletani venivano esportati, spesso clandestinamente, negli Stati Uniti e in Sudamerica, a gran richiesta delle comunità italiane.
Il primo cinema non riuscì a incollare gli spettatori alle grezze immagini proiettate sulla tela. Napoli poteva però offrire la sua creatività per rendere gli spettacoli più godibili. In città, la tradizione napoletana del canto era già stata applicata alla recitazione sul finire dell’Ottocento, dando vita al Varietà, fatto da cantanti, macchiette, ballerine e soubrette. E così, negli anni Trenta, alcuni esercenti pensarono bene di abbinare alle proiezioni dei film degli spettacoli dal vivo. Le compagnie napoletane del Varietà si adattarono e abbreviarono i loro spettacoli che, come si può leggere su Made in Naples (Magenes, 2013), “andarono a precedere i film, inserendovi anche attori comici e caratteristi. Fu partorito il Teatro d’Avanspettacolo, in cui si misero in mostra artisti geniali come Eduardo Scarpetta, Raffaele Viviani, Totò, Eduardo e Peppino De Filippo.”
Crollato il fascismo, il palcoscenico umano di Napoli, ideale per rappresentare drammi e passioni, riprese ad essere tra i più attraenti per il cinema italiano, ospitando decine di commedie all’italiana. La tradizione è proseguita con l’oplontino Dino De Laurentiis, zio dell’attuale presidente del Calcio Napoli, che, per destino, è ripiombato da Roma nei destini dell’intrattenimento partenopeo.