Ciro Esposito vittima dell’odio etnico. Basta nascondersi dietro un dito!

Angelo Forgione – Morire non per una partita di calcio. Morire perché napoletano. Morire per la caccia al napoletano, per tutto quello la società italiana, inesistente, ha incubato dalla nascita della Nazione unita e per quel che il Calcio, dagli anni Settanta almeno, ha vomitato su Napoli, senza che nessuno si sia mai indignato. Nessuno! Finché non si è iniziato a protestare, a sfruttare internet e i media, a colpire i vari Amandola di turno, a sollecitare le radio locali, a creare un nuovo fronte di opposizione sdegnata. E solo allora sono arrivate le regole, le squalifiche, con cinquant’anni di ritardo. Troppo tardi: il malcostume era già “costume”. Vaglielo a togliere il giocattolo al bambino viziato!
Alla cieca, e per ignoranza, dalla denigrazione è nato un odio ingiustificabile e inconcepibile, una caccia al napoletano intollerabile. L’omicidio di Ciro Esposito non è un incidente di percorso ma un evento prevedibile. Già nel dicembre 1973 Alfredo Della Corte, un altro giovane napoletano, diciassettenne, festante per la vittoria dei partenopei all’esterno dello stadio di Roma, fu sparato mentre sventolava una bandiera azzurra. Si salvò per puro miracolo. Ciro non ha avuto la stessa “fortuna”, e ora sta morendo per colpa di un folle squilibrato che in un pomeriggio di sport ha deciso di uscire di casa per fare una strage. Si, proprio una strage. Daniele De Santis ha preso di mira un pullman pieno di famiglie e di bambini, creando il panico, finché non è spuntato un ragazzo normale che ha scavalcato la bandiera “New Jersey” e si è precipitato a fermare quel pazzo, dando l’esempio ad altri compagni. Non sapeva che il fanatico (ma non era solo) era sceso di casa con una pistola caricata con proiettili modificati artigianalmente. Quattro colpi esplosi in rapida successione, al grido di «vi ammazzo tutti», dove per tutti si intendono i napoletani. Tre feriti, Ciro il più grave. Cinquanta giorni di strazio e agonia. E poi il coma irreversibile.
La riflessione non servirà. Altri lutti ha prodotto il mondo del Calcio, ad ogni latitudine italiana, ma stavolta, per la prima volta, la tragedia ha l’acre odore della polvere da sparo. Si continua a morire con la scusa di un fenomeno violento inarginabile attorno al pallone. Le responsabilità sono ben chiare, e appartengono a chi, negli anni, se ne è fregato di arginare l’odio anti-Napoli; e al servizio d’ordine di quel giorno, pianificato da un questore superficiale e in modo assolutamente cervellotico e insufficiente. Chi questa colpa sa di averla non finga di essere innocente, non si nasconda, e inizi a preoccuparsi delle conseguenze che questo dramma potrebbe generare, e pensi ad evitare seriamente che la maledizione di Ciro sia prodromo e scintilla scatenante di qualcosa che non deve assolutamente verificarsi. E non si sentano esclusi tutti quei dirigenti e quei telecronisti ed editorialisti che nell’arco di un anno intero hanno minimizzato l’odio per i napoletani cercando di ridurlo a “sfottò”. Ora basta! Il Calcio, lo spettacolo, la gioia, li hanno ammazzati anche loro, dall’alto dei pulpiti del potere. E non si accorgono neanche che sono rimasti soli, a commentare partite poco spettacolari giocate in impianti indecenti e sempre più orfani dei veri appassionati.
Se ne va un ragazzo normale che ha cercato di fare l’eroe ed è finito sotto i colpi di uno scarto politicizzato della società civile. Sta morendo perché napoletano, ed è giusto gridarlo a gran voce, senza ipocrisia o strumentalizzazioni di parte.

Ciao Lucio!

Ciao Lucio!

Qui dove il mare luccica e tira forte il vento, su una vecchia terrazza davanti al golfo di Surriento”.
Così inizia la famosissima “Caruso”, considerata un classico della musica napoletana contemporanea e italiana nel mondo. Oltre nove milioni di copie vendute in tutto il globo, è stata riproposta da grandi cantanti tra cui Julio Iglesias, Celine DionAndrea Bocelli Luciano Pavarotti.

Scritta dal cantautore bolognese mentre era in navigazione con la propria imbarcazione; in seguito ad un guasto, dovette fermarsi a Sorrento e soggiornò nello stesso albergo dove molti anni prima, nel 1921, morì il grande tenore Enrico Caruso. Durante la sua permanenza, i proprietari dell’albergo narrarono a Dalla gli ultimi giorni di vita del tenore: Caruso si era appassionato a una giovane donna a cui dava lezioni di canto.
Solo dall’incontro tra la sensibilità di un grande artista e i magici luoghi di Napoli poteva nascere l’ispirazione per la stupenda canzone.
Lucio Dalla amava sinceramente Napoli, più volte definita la città più bella del mondo. «Quella napoletana – disse – è la musica più importante del Novecento, altro che Beatles… dobbiamo tornare a noi, e non essere provinciali, scopiazzando all’estero».
Ciao Lucio!