Alle origini oscure della “carbonara”, quasi-romana con radice napoletana (?)

Angelo ForgioneGuanciale, uova, Pecorino e pepe. Sono gli unici ingredienti ammessi dalla ricetta canonica e definitiva della carbonara, tipico piatto italiano nel mondo, che non è sempre stato preparato così. Le sue origini sono assolutamente incerte e totalmente irrintracciabili, e vi ruotano intorno diverse ipotesi e tradizioni.

L’epifania del nome avviene nel 1949 nel film Yvonne la Nuit, in cui Totò interpreta il suo primo ruolo drammatico. Nel corso della pellicola, in una trattoria di Trastevere, un cameriere comanda «coda alla vaccinara per due e spaghetti alla carbonara per tre».
L’epifania della ricetta, invece, avviene nel 1952, non in Italia ma negli Stati Uniti, sulla guida illustrata dei ristoranti di un distretto di Chicago scritta da Patricia Brontè dal titolo Vittles and vice: An extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side” Il libro descrive diversi locali tra i quali anche il ristorante “Armando’s” in cui si serve la carbonara. I proprietari, Pietro Lencioni e Armando Lorenzini, sono di origine italiana e dettano la ricetta lasciando anche qualche termine italiano. Gli ingredienti sono quelli che domineranno la preparazione per diversi anni: taglierini all’uovo, uova, pancetta e Parmigiano.

La prima ricetta pubblicata in Italia risale all’agosto del 1954, sulla rivista La Cucina italiana. Tra gli ingredienti sono elencati la pancetta, il Gruviera e l’aglio, oltre alle solite uova e al pepe, e si indica di cuocere gli spaghetti e poi di ripassare tutto in padella fino a che “le uova si saranno un poco rapprese”.

Un anno dopo, la carbonara entra per la prima volta in un ricettario vero e proprio, La signora in cucina di Felix Dessì, e in una versione più simile a quella odierna, con la presenza di uova, pepe, Parmigiano (“ma se si preferisce il piccante, un buon pecorino lo può sostituire”) e pancetta.

Pecorino e Gruviera sono licenze rispetto al Parmigiano, e per molto tempo si lascerà la libertà di scegliere tra pancetta, prosciutto o coppa, mica guanciale, che entrerà tra gli ingredienti solo nel 1960, in una ricetta di Luigi Carnacina, che aggiungerà la panna liquida per rendere più cremosa e avvolgente la preparazione.
Altri ingredienti trovano spazio nelle diverse ricette, come vino, cipolla, prezzemolo, peperone e peperoncino. Insomma, le uniche certezze sono le uova e il pepe.

La definizione della ricetta contemporanea, ormai classica, anche se classica non è mai stata, si concretizza solo negli anni ‘90, quando nessuno la considera una ricetta romana. Livio Jannattoni, un’autorità in materia culinaria, nel suo ricettario La cucina romana e del Lazio del 1991, propone un capitolo di piatti adottati dalla cucina romana il cui titolo non lascia spazio ai fraintendimenti: Spaghetti alla carbonara e altre pastasciutte quasi-romane. Vi inserisce i piatti che “hanno quasi maturato un diritto provvisorio di cittadinanza romano-laziale”.

Acquisito lentamente alla cucina romana, il piatto sostituisce il Parmigiano con il locale Pecorino. Velocemente, guadagna un posto tra i più tipici d’Italia senza avere origini certe, e diviene nel tempo oggetto di discussione sulla sua incertissima genesi. Oggi, la tradizione popolare attribuisce la ricetta alla presenza dei soldati “alleati” angloamericani in Italia, a Roma o forse a Napoli, durante gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale, con le loro “razioni k” fatte di uovo liofilizzato e bacon, sposate alla pasta italiana e al formaggio.

Cosa sia successo prima della comparsa del nome del piatto e poi della sua ricetta è un mistero.
Certamente la carbonara ha come suo antesignano un piatto descritto nel trattato ottocentesco di cucina napoletana Il principe dei cuochi di Francesco Palma. La ricetta, pubblicata nel 1881, è quella dei Maccheroni con cacio ed uova, che indica il condimento della pasta con un mix di uova, formaggio Parmigiano (come da prime ricette del dopoguerra), strutto, sale e pepe, da rapprendere sul fornello con un po’ d’acqua di cottura. Manca il guanciale, o comunque la pancetta delle preparazioni spuntate a metà Novecento, ingrediente suino non tipicamente napoletano ma piuttosto dell’area appenninica abruzzese. Non manca però il grasso animale a dare sapore, lo strutto, che oggi non si usa più ed è surrogato da quello che si ottiene per colatura a caldo del guanciale.

Che sia stato proprio un’aggiunta abruzzese, o comunque appenninica, a completare la ricetta sul retaggio della gricia (guanciale, strutto, formaggio Pecorino amatriciano e pepe)? Non è da escludere, visto che il piatto diventa romano come l’Amatriciana, nata sui monti abruzzesi della Laga aggiungendo alla stessa gricia il pomodoro e la pasta ricevuta da Napoli, del cui regno facevano parte gli amatriciani in tempi preunitari. Questi (abruzzesi fino al 1927, per poi essere assegnati alla nascente provincia laziale di Rieti) si stabilirono a Roma nel secondo Ottocento per vendere i prodotti della loro terra colpita dalla crisi della pastorizia.

Dunque, non è poi così peregrino ipotizzare che la carbonara possa essere nata da una traiettoria culinaria che va da Napoli a Roma, con l’appennino laziale-abruzzese a fare da sponda. Evoluta fino alla versione contemporanea, quella con uova, pepe, Pecorino e guanciale che a cambiarla si commettere sacrilegio. Neanche fosse una ricetta plurisecolare.

San Giovanni a Carbonara: piove sull’arte sacra mentre l’Unesco…

COMUNICATO STAMPA
IL “NUOVO MEDIOEVO” DI NAPOLI, piove sull’arte sacra mentre l’Unesco…

Il Movimento V.A.N.T.O. esprime il più totale sdegno per le condizioni dell’intero patrimonio monumentale di una città senza una guida, motivo per cui, crisi rifiuti e tagli del governo alla cultura a parte, l’unica vera risorsa della città, ovvero il turismo, è defunta. I pacchetti turistici natalizi non si piazzano e quelli già venduti sono in disdetta.
C’è ora da trattenere il fiato per le decisioni dell’Unesco di Febbraio visto che del “Piano di Gestione” non c’è al momento alcuna traccia, e nessuna risposta o rassicurazione convincente è mai arrivata dal Comune di Napoli dopo la nostra protesta all’ingresso di Palazzo San Giacomo del 24 Settembre scorso, ovvero due mesi or sono.
Napoli e provincia sono in ginocchio e non è esagerato ormai parlare di “nuovo medioevo” per la maniera con la quale si sta distruggendo una città che solo 150 anni fa era la capitale culturale del continente.

Fra tre mesi l’UNESCO potrebbe cancellare Napoli dalla World Heritage List dei siti patrimoni dell’umanità. In questo scenario, i monumenti di Napoli sono sempre più nel degrado perchè senza tutela.
Un nuovo allarme riguarda la splendida chiesa di San Giovanni a Carbonara, una delle più belle, antiche e ricche di storia della città, che ha evidenziato in questi giorni di incessanti piogge delle problematiche piuttosto serie e preoccupanti. La chiesa è soggetta ad infiltrazioni d’acqua in vari punti che mettono a repentaglio le decine d’opere d’arte presenti.

Lo segnalazione arriva dal giornalista Alvaro Mirabelli della rivista Chiaiamagazine, supportato dal Comitato Civico di Portosalvo e dal Movimento V.A.N.T.O.

Un po’ dappertutto sono evidenti delle ampie macchie di umidità e rivoli d’acqua. Grosso rischio lo corre “la Crocifissione”, preziosa opera del maestro del cinquecento Giorgio Vasari, allievo di Michelangelo, accanto alla quale scorre pericolosamente acqua. Infiltrazioni anche dal soffitto dell’altare della purificazione ma basta approssimarsi alla “Cappella Caracciolo del Sole” per notare che manca da ben tre anni una lastra di vetro dai finestron. Da li penetra nella struttura non solo acqua ma anche umidità e vento che minacciano gli affreschi di Perinetto da Benevento e Leonardo da Besozzo.

Ecco le tristi testimonianze fotografiche.