Ferdinando Palasciano, il vero ispiratore della Croce Rossa

Angelo Forgione – È il protagonista del romanzo di Wanda Marasco Di spalle a questo mondo, vincitore della 63ª edizione del Premio Campiello (2025). Ferdinando Palasciano è personaggio importante ma misconosciuto della scuola medica napoletana, tra quelli scippati delle loro idee e deduzioni. Penso a Vincenzo Tiberio, vero scopritore della penicillina attribuita ad Alexander Fleming, oppure a Gennaro Galbiati, inventore della retrovaccinazione ma eclissato da Edward Jenner. Tre figure di cui ho scritto in Napoli svelata (Magenes, 2022) nel capitolo “Grandi, grossi e vaccinati”.

Il nome del Palasciano è più o meno noto a Napoli per la torre che porta il suo nome, ispirata al palazzo della Signoria di Firenze, che svetta dalla collina di Capodimonte, elemento rinascimentale del palazzo in stile eclettico alla salita del Moiariello che si fece costruire nei primi anni del Regno d’Italia. Un nome che oggi sarebbe noto in Europa se gli fosse stata riconosciuta la paternità di quella che dal 1863 è detta Croce Rossa.

Nato a Capua nel 1815, il Palasciano, a 33 anni, in pieni moti insurrezionali del 1848, fu nominato ufficiale medico dell’esercito borbonico del Regno delle Due Sicilie. Durante l’assedio di Messina, con i siciliani insorti contro i napoletani, sostenne la neutralità dei feriti in guerra, a prescindere dall’appartenenza. Disobbedì al generale Carlo Filangieri, che voleva si curassero solo i suoi soldati, e si adoperò per prestare soccorso e cure anche ai rivoltosi: «I feriti, a qualsiasi esercito appartengano, sono per me sacri – disse al suo superiore – e non possono essere considerati come nemici; il mio dovere di medico è più importante del mio dovere di soldato». Fu condannato a morte dal tribunale militare, pena commutata in un anno di carcere solo grazie all’intervento diretto del Re, Ferdinando II.

Nel 1861, in piena nascita dell’Italia unita, durante il Congresso Internazionale dell’Accademia Pontaniana di Napoli, sostenne la necessità di una convenzione internazionale per il reciproco riconoscimento fra i belligeranti della neutralità dei soldati feriti o malati. Le sue proposte ebbero una vasta risonanza in tutta Europa, ma non se ne fece alcuna menzione alla Conferenza di Ginevra del 1864 che segnò la nascita delle Società Nazionali della Croce Rossa. Nessuno accennò alla vera paternità del principio ispirativo, che era del medico campano, ma fu invece attribuita al ginevrino Henri Dunant, scrittore di Un Souvenir de Solferino, una memoria tradotta in più di 20 lingue di quanto visto durante la battaglia di Solferino nel giugno 1859, la più sanguinosa della 2° Guerra di Indipendenza italiana.

Il Palasciano lottò dall’Accademia Pontaniana per rivendicare la sua precedenza, ma contestualmente chiese addirittura di migliore la convenzione di Ginevra includendo l’assistenza ai feriti dei conflitti navali, cosa che avvenne nel 1868, ma ancora una volta ignorando il suo ispiratore.

In seguito, il medico campano fu pure allontanato dall’Università di Napoli e dalla cattedra di Clinica chirurgica per volontà del rettore Paolo Emilio Imbriani con cui ebbe forti attriti. Gli fu pure smantellata la sua sala operatoria all’avanguardia. Eventi che probabilmente sconquassarono definitivamente il suo animo. A settantuno anni, nel 1886, mostrò segni di squilibrio mentale, una condizione che si trascinò fino alla morte, avvenuta nel 1891, in seguito alla quale la regina Margherita interessò il Ministero della Guerra affinché fosse rivendicata all’Italia l’idea della Croce Rossa. La Società Nazionale di Croce Rossa italiana fu incaricata di pubblicare memorie del Palasciano, ma non si riuscì a ottenne il risultato prefissato.

La storia di Ferdinando Palasciano dice che dietro al simbolo della Croce Rossa, derivato dalla bandiera della Svizzera, la patria del ginevrino Dunant, è nascosto un cavallo sfrenato, il sempiterno simbolo di Napoli, la città dove studiò e operò il vero ispiratore del principio di neutralità dei feriti in guerra.

Bartolomucci: «è un piagnisteo napoletano continuo»

Angelo Forgione A La Radiazza (Radio Marte), Gianni Simioli contatta Antonio Bartolomucci per chiedergli dell’ineffabile chiusura del servizio per il Tg5 sull’omicidio di Ginevra. La telefonata è da prendere come esempio di come certi operatori dell’informazione nazionale non percepiscano minimamente il danno che arrecano all’immagine di Napoli (e certo, non è la loro città; NdR), ma anzi lo facciano talvolta di proposito.
Bartolomucci, chiaramente infastidito, cerca prima di scaricare tutto sulla sudamericana intervistata (“assurda donna”), salvo poi parlare di «piagnisteo napoletano continuo». E conferma che quell’intervista l’ha selezionata apposta, «per far capire che Ginevra ha fatto un passo indietro e che loro usano questo sistema di paragone». E a questo punto mi sento autorizzato a pensare male, e cioè che la frase sia stata dettata alla passante. Almeno mi spiegherei il suo sorriso finale.

clicca qui per ascoltare la telefonata

bartolomucci

Massacro a Ginevra, ma paga Napoli (per colpa del Tg5)

Angelo Forgione Ci risiamo. Eravamo rimasti al Governatore della Puglia Michele Emiliano, barese, che solo qualche settimana fa affermava in diretta tivù che Bari criminale non è Napoli. E subito dopo, sempre in tivù, negli studi Rai di Napoli, il nutrizionista piemontese Federico Francesco Ferrero diceva che a Napoli qualcuno è mariuolo, parlando di pizza. Ora il microfono si sposta a Ginevra, dove per il massacro di una donna è Napoli a pagare, in termini di immagine. La vittima, una 29enne ricercatrice italiana, della provincia di Torino, che frequentava un dottorato di microbiologia molecolare nella città elvetica, è stata colpita con una spranga da un uomo che l’ha aggredita per strapparle la borsetta mentre rientrava a casa. La polizia cerca un uomo tra i 20 e i 30 anni. Sul posto giungono le telecamere del Tg5, con Antonio Bartolomucci, leccese, che chiede alle colleghe italiane della vittima quanto si sentano al sicuro a Ginevra. Poi è il turno di una donna sudamericana del posto, che si presta a una sentenza all’italiana: «Ormai abbiamo paura anche noi. E questa è Ginevra, non Napoli!». Parole tranquillamente montate nel servizio e diffuse a milioni di persone, in barba alle più elementari regole deontologiche.
Si tratta ancora una volta di stigmatizzare il giornalista e il direttore responsabile di redazione, non la signora piena di pregiudizi, perché una frase diffamatoria talmente gratuita non dovrebbe mai essere sdoganata da un network nazionale. In poche parole, in fase di montaggio, andrebbe censurata e tagliata, esclusa dal contributo video. E invece accade che vada in diretta su tutto il territorio, alimentando i pregiudizi su una città tartassata di prassi da certa stampa. Ed è esattamente questo il motivo per cui anche una donna di Ginevra si lascia andare a un’affermazione totalmente fuori luogo, traendo dal riverbero dei media italiani ma anche svizzeri le parole più inadatte da pronunciare davanti a un microfono di un telegionale italiano. Il problema è che per il telegiornale italiano, spesso e volentieri, non sono parole inadatte.

https://www.youtube.com/watch?v=1mFq-zLK0q0

Esempio napoletano in Svizzera

portafogliDomenica pomeriggio Danilo D’Errico, napoletano emigrato per lavoro a Ginevra, in Svizzera, si appresta a recarsi a casa dei genitori della sua convivente elvetica. Davanti al portone della loro abitazione li attende la vicina di casa, un’anziana spagnola, che gli dice: «Vi stavo aspettando. Ho trovato questo sacco nel tram 14; dentro ci sono varie cose, ma ho preferito affidarlo a voi e non al conducente perché non mi fido. Ci pensate voi a vedere cosa contiene e a provare a riconsegnarlo al proprietario?». Danilo accetta e rientra in casa con la compagna, apre il sacco e ci trova 450 franchi, cioè 400 euro, un iPad, altre apparecchiature elettroniche, vari documenti d’identità italiana e l’abbonamento ai trasporti. Il proprietario risulta essere un filippino residente a Milano e Danilo, dopo una lunga ricerca su internet, riesce a mettersi in contatto con lui. portafogli_2Dopo mezz’ora il sacchetto con tutto il suo contenuto è riconsegnato, senza offerta o pretesa di ricompensa. Il napoletano pensa che il suo premio è la coscienza pulita che lo fa sentire bene con sé stesso, anche grazie al sorriso della compagna che lo guarda e gli dice alla Totò «signori si nasce!». Il giorno dopo, alcuni colleghi e amici svizzeri del napoletano Danilo gli dicono che si è comportato in maniera esemplare ma che i soldi avrebbe dovuto tenerli.