La parità dei sessi nel Regno di Napoli

Angelo Forgione La Festa della Donna, l’8 marzo, non avrebbe avuto senso in una comunità settecentesca del Regno di Napoli, dove fu fatto valere, per la prima volta nella storia, il principio della parità dei sessi. Nella Real Colonia delle seterie di San Leucio, nei pressi della Reggia di Caserta, come mai prima di allora, la donna valeva per legge esattamente quanto l’uomo, e i matrimoni potevano essere contratti per sentimento invece che per scelta genitoriale.
Lì, nel 1789, mentre a Parigi scoppiava la Rivoluzione, fu promulgato il Codice leuciano per il buon governo degli abitanti del borgo, faro d’avanguardia per il sistema sociale dell’intera Europa.

“Nessun di voi pertanto, sia uomo, sia donna, presuma mai pretendere a contrassegni di distinzione, se non ha esemplarità di costume, ed eccellenza di mestiere […]”

In un’epoca in cui i matrimoni erano forzati per casta e rango, lo Statuto di San Leucio rivoluzionò anche le scelte sentimentali, prevedendo che i giovani potessero sposarsi per libera scelta, senza consenso dei genitori e per volontà delle donne, cui spettava l’ultima parola.

“Nella scelta non si mischino punto i Genitori, ma sia libera dei giovini, da confermarsi nella seguente maniera. […]”

In occasione della messa solenne del giorno di Pentecoste, in Santa Maria delle Grazie, nel quartiere della vaccheria, andavano posti all’ingresso della chiesa dei canestri pieni di rose precedentemente benedette all’altare, bianche per gli uomini e rosse per le donne. Al termine della funzione, davanti a tutti, i pretendenti avrebbero donato un fiore alle future spose, che avrebbero dovuto rispondere con il proprio bocciolo, da portare al petto fino alla sera e innanzi al parroco per la registrazione della parola. Gli sposi, entrambi avviati al mestiere, avrebbero ricevuto in dote un’accogliente casa con servizi igienici, giardino e quant’altro necessario per i comodi della vita.

“Capo di questa Società coniugale è l’uomo. Natura gli deferì questo dritto: ma gli proibì nel tempo stesso di opprimere, e di maltrattare la sua moglie: Con tuono di maestà in ogni occasione gl’intima l’obbligo di amarla, di difenderla, e di garantirla da’ pericoli, a’ quali la sua debolezza la porterebbe. Il marito deve alla moglie la protezione, la vigilanza, la prevedenza, gli alimenti, e le fatiche più penose della vita. La moglie deve al marito la giusta deferenza, la tenera amicizia, e la cura sollecita per cimentare da più in più la cara unione. […]”

Il testo Origine della popolazione di San Leucio e suoi progressi fino al giorno d’oggi colle leggi corrispondenti al buon governo di essa fu voluto dalla regina Maria Carolina, scritto da Antonio Planelli su suggerimenti di Gaetano Filangieri e firmato da re Ferdinando. Con la sua visione di parità dei sessi, raggiunse gli entusiasti intellettuali europei. Solo due anni più tardi, nel 1791, la drammaturga Olympe de Gouges avrebbe pubblicato nella Parigi rivoluzionaria la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, poi considerato il primo testo giuridico femminista. Rivolgendosi a Maria Antonietta, rivendicò senza successo l’estensione alle donne dei diritti naturali assicurati all’uomo. Nel 1792, l’americana Mary Wollstonecraft pubblicò a Londra il libro Rivendicazione dei diritti della donna, il primissimo testo filosofico del femminismo liberale. Solo nel 1832 giunse la prima opera della filosofa inglese Harriet Hardy Taylor, esponente dell’emancipazionismo suffragista per la parità giuridica dei sessi. Parità che a San leucio, per ben dieci anni interrotti dai venti della Rivoluzione francese, era già stata una realtà.
Il mondo moderno prevede che una effettiva parità di genere potrebbe essere raggiunta entro il 2030. Se così sarà, saranno passati 241 anni dal momento del primo esperimento, quello che inaugurò il percorso verso le pari opportunità, attuandole concretamente in un tempo assolutamente diverso dal nostro.

Arbore contro la “retorica televisiva” sul Sud che ammazza il Sud

Angelo Forgione Nell’immediato dopoguerra si erano già abbondantemente diffusi gli stereotipi sui meridionali alimentati nel primo periodo unitario del Paese. Qualcosa avrebbe potuto contribuire fortemente a cancellarli, ma, al contrario, li ingigantì enormemente. Quando nel dicembre 1955, alla vigilia di quel Natale, il segnale televisivo della Rai fu esteso a Napoli, raggiungendo il Sud, il giornalista calabrese Corrado Alvaro, con un bel po’ di illusoria speranza, scrisse:

La televisione nel Mezzogiorno è un elemento di prima importanza per l’unificazione del Paese: attraverso il nuovissimo mezzo, il Sud potrà sgombrare il terreno di molti pregiudizi contribuendo a dare finalmente un panorama completo non deformato della vita italiana.

In realtà, sin dalla sua nascita, è stata proprio la televisione ad amplificare la diffusione di un’immagine eccessivamente distorta delle problematiche meridionali. Come nel caso del colera, un evento che colpì Napoli nel 1973 e avviò, tra i tanti risvolti negativi causati da una cattiva informazione, anche la denigrazione negli stadi.
Oggi tocca fare i conti con la fotografia di un Sud mafioso, sdoganata da Gomorra e altre fiction affini. Proprio con questa nuova accezione della napoletanità, della sicilianità e della meridionalità in genere bisogna oggi fare i conti, e proprio contro Gomorra (pur senza citarla) e i diversi programmi impregnati di folklore e sottocultura se la prende Renzo Arbore, ospite a Tv Talk (Rai) di sabato 12 dicembre, definendo questa diversa interpretazione del Sud “la nuova retorica”, diversa da quella del mandolino, del sole e della pizza dei decenni passati. Una retorica che attira attenzione e che quindi frutta inserzionisti pubblicitari. Una retorica spinta, necessaria per l’innalzamento dell’audience, secondo il condivisibile pensiero dello showman foggiano.

«Io porto nel mondo un aspetto della Napoli capitale della cultura. Dietro la forzatura c’è l’audience. Se si parla della camorra (attraverso  Gomorra, ndr), il prodotto si vende in tutto il mondo e ne paghiamo le conseguenze noi [napoletani]… ci fa molto piacere sapere che siamo tutti camorristi».