Uno splendido pomeriggio napoletano con Napolitiamo

Napolitiamo è il mio sesto libro. Di presentazioni ne ho fatte tante, ormai, dal 13 maggio del 2013 a qui. Ma quella di ieri alla libreria Feltrinelli di Chiaia, nel salotto di Napoli, è stata davvero la più bella e coinvolgente. Lo è stata perché la più napoletana che potessi pensare.
È stato uno spettacolo, non una presentazione. E la protagonista è stata la lingua napoletana, impronta digitale dei napoletani. L’abbiamo onorata con le riflessioni, le recitazioni e le canzoni; tutto al ritmo del battito di cuore dei presenti, tantissimi, attentissimi, partecipi e compiaciuti.
Le lusinghiere parole di Maurizio de Giovanni per il mio lavoro e per questo mio Napolitiamo, da egli definito «opera titanica», ad aggiungere valore alla già significativa e preziosa prefazione e al dibattito su Napoli e il suo logos.
La piacevolissima esecuzione delle canzoni classiche di Fabrizio Mandara, vera rivelazione dell’ultima stagione de La Radiazza di Gianni Simioli, e la bravura scenica di Masaniello (Errico Liguori), con tutto il suo travolgente carisma.
La gradevole conduzione e presenza di Ilaria La Mura.
Napoli, il napoletano e l’identità.
Come l’avevo immaginata e scritta, così questa presentazione-spettacolo si è palesata.

Prossimi appuntamenti

4 luglio – Cancello ed Arnone (Caserta)
ore 19:00, Villa Comunale
“Napoli tra Sport e Cultura” (rassegna “I Colori dell’Estate”)

9 luglio – Napoli
ore 18:00, Feltrinelli Chiaia (via santa Caterina a Chiaia, 23)
presentazione Napolitiamo
(con Maurizio de Giovanni, Fabrizio Mandara ed Errico Liguori in arte Masaniello)

12 luglio – Quartu Sant’Elena (Cagliari)
ore 18:00, Sala degli Affreschi dell’Ex Convento dei Cappuccini (via Brigata Sassari, 35)
presentazione Napolitiamo

È arrivato “Napolitiamo”

Angelo Forgione – Una vera fatica. È il mio saggio storico-didattico sul napoletano, lingua d’arte di reputazione internazionale, con cui è stata prodotta una vasta tradizione di scrittura colta e sono state espresse alcune forme artistiche di Napoli che nessun’altra città vanta tutte insieme, dalla musica al teatro, dalla poesia al cinema.

Lingua romanza come l’italiano, figlia del latino ma porosa come l’intera cultura partenopea, in cui ne convivono armoniosamente diverse altre. Idioma con una storia legata a specifici fattori politici e culturali che nei secoli hanno esercitato la loro azione in una città che nel periodo della “questione della lingua”, dal Cinquecento all’Ottocento, è stata la più affollata e dinamica d’Italia, con gran divario rispetto al cuore di un volgare, il tosco-fiorentino, che proprio in quei secoli ha fatto più carriera degli altri, divenendo la lingua di tutti gli italiani.
La grande Napoli ha lasciato fare la più piccola Firenze, e ha pure contribuito ad avviarne la spinta linguistica. E però si è presa la sua rivincita continuando a “parlare” al mondo con le sue tante espressioni, non solo artistiche, veicolate dal logos territoriale, che della città partenopea definisce la condizione identitaria più che altrove per continuità di tradizione e per livello di utilizzo.
Il problema della lingua di Napoli di oggi non sta nel preservarne l’uso orale ma nel proteggerne la scrittura dalla proliferazione di un’ortografia “fai-da-te” con la quale una lingua d’arte, regolata dalla radice latina e modellata dai tanti testi colti scritti nei secoli, viene spostata nel recinto dei semplici dialetti, privandola del suo prestigio letterario.
La prefazione di Maurizio de Giovanni rafforza la necessità di porre un argine al pericolo che il napoletano, lingua sotto attacco, sta correndo nel nostro presente.
Due guide in un libro, tra storia e didattica.
La parte storica racconta, ed è frutto di una rigorosa ricostruzione dell’evoluzione nei secoli dell’idioma partenopeo, anche in relazione all’affermazione della lingua italiana, e quindi del percorso linguistico di Napoli rispetto a Firenze.
La parte didattica insegna, ed è un completo prontuario grammatico per l’apprendimento di una ortografia napoletana corretta, a beneficio di coloro che vogliano minimamente padroneggiare la scrittura della bella lingua d’arte con cui Napoli, da secoli, parla al mondo.

Leggiamo. Scopriamo. Impariamo. Napolitiamo! Il presente indicativo della lingua di Napoli.

Il Sanguinaccio napoletano, “come la salsa di pomodoro”

Angelo Forgione – Carnevale a Napoli non è solo e lasagne, zeppole/graffe e migliaccio ma anche chiacchiere intinte nel sanguinaccio, in quell’antichissima crema speziata di cioccolata preparata con sangue di suino che oggi si replica in altra maniera.

Con l’introduzione del cacao, nel Settecento, i napoletani divennero grandi amanti di cioccolata calda, che batteva per consumo il caffé. Ne venne fuori anche una preparazione del periodo di Carnevale addensata a fuoco lento con il sangue di maiale, tradizionalmente ucciso a gennaio senza che se ne sprecasse nulla. Si iniziava a preparare dal 17 gennaio, giorno di sant’Antonio Abate, figura raffigurata in compagnia di un maiale, animale il cui allevamento era stato recuperato proprio dai monaci antoniani, sfatando il tabù che lo descriveva come animale del demonio e ricavandone svariati prodotti anche medicamentosi per l’uomo, tra cui l’herpes zoster, il cosidetto “fuoco di sant’Antonio”.

Perché il sangue di porco con la cioccolata? Lo scopo era esclusivamente terapeutico, per ovviare alla carenza di ferro in un tempo in cui l’alimentazione non era sempre sufficiente a coprirne il fabbisogno. Nelle campagne napoletane, veniva aromatizzato, rimestato lungamente per evitarne la coagulazione e filtrato, prima di essere unito alla crema di cacao, cotta in pentoloni di rame sulla legna.

Vincenzo Corrado, ne Il Cuoco Galante del 1773, presentò la ricetta Al Sangue di Porco nel capitolo De’ Budin, indicando di mescolare il sangue di maiale “con panna di latte, grasso e cervella di Porco trite, cedro ed aranci canditi triti, cioccolata rapata, spezie, e poco zucchero”, per poi aggiungere “le budella del Porco” e cuocere tutto con “foglie d’alloro, sale, e cannella in stecchi”. Qualcosa di molto più rustico rispetto a quanto illustrato circa settant’anni dopo nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano, una sorta di compendio della gastronomia popolare di Napoli, inserita da Ippolito Cavalcanti nella prima edizione del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica: nella ricetta per il Sanguinaccio, scritta in napoletano, l’aristocratico napoletano indicò di mischiare “sanco de puorco” con cioccolata, zucchero, cannella, cedro, cocozzata e mostacciolo pestato, da cuocere con continuo mescolamento fino a stringere “comme si fa la sauza de le pommadore”, e poi conservare “dint’ a le stentina de puorco”, ovvero nelle budella del maiale, per farne insaccato da mettere a bollire in acqua calda prima di servirlo.

Una tradizione di Carnevale che sopravvive al divieto d’uso del poco igienico sangue suino, che nel 1992 ha spinto i pasticceri napoletani a rielaborare la ricetta per tenere in vita la tradizione: solo cacao mescolato con zucchero, latte, farina, cannella, cedro, uvetta e pezzi di cioccolato fondente. Niente retrogusto ferroso del sangue suino per quella che, a ben pensarci, può tranquillamente definirsi “cioccolata alla napoletana”.

Per approfondimenti: Napoli svelata (A. Forgione, 2022)

Le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana

Angelo Forgione – Celebro l’odierna Giornata Internazionale della Lingua Madre con le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana, sua e mia lingua materna. Le scrisse in merito alla sua ultimissima fatica letteraria, ma fatica autentica: la traduzione in napoletano antico de La tempesta, dramma di primo Seicento di William Shakespeare ispirato al conflitto di fine Quattrocento fra la corona aragonese di Napoli e gli Sforza di Milano.
Il grande drammaturgo vi si dedicò un anno prima di andarsene, nell’estate del 1983, nonostante il caldo torrido, i problemi di salute e altri impegni da assolvere. Isabella Quarantotti, sua moglie, gli riportò in italiano il testo inglese, poi tradotto in un napoletano seicentesco ma adattato ai tempi. Egli stesso, in una nota al lavoro, spiegò il taglio scelto per il rivestimento del dramma shakespeariano:

[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innaturale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]

Eduardo elogiò la vicinanza del napoletano al latino, ben più che l’italiano. E qui aggancio le riflessioni di Ferdinando Galiani di un secolo prima, in Del dialetto del 1789:

“Or chi non sente co’ suoi stessi orecchi, che le parole Napoletane chisto e chillo si scostano meno delle Latine iste, e ille, che non se ne scostano le Toscane questi e quegli? […] Chi non vede, che il nostro verbo Napoletano dicere non ha mutazione dal Latino, come lo ha il Toscano dire? […] Faccio, saccio, aggio s’accodano alle latine facio, sapio, habeo assai più, che non le Toscane voci fo, so, ho. Noi diciamo simmo; i Toscani dicono siamo; il Latino è simus. Diciamo tene, vene, convene, accodandoci al Latino tenet, venit, convenit, e non già tiene, viene, conviene. […] Diciamo ditto, astritto &c. come i Latini dictus, strictus, mentre i Toscani dicono detto, stretto &c. Anderemmo all’infinito a voler enumerare tutte le parole noftre, che conservano inflessione più accostante alla Latina. […]”

E davvero il napoletano è la lingua romanza locale che si discosta meno dalla lingua degli antichi Romani, pur avendo generato una propria grammatica distinta, anche da quella dell’italiano stesso. Napoletano figlio del latino ma allo stesso tempo lingua in cui vi convivono armoniosamente i tratti osci, greci, bizantini, longobardi, arabi, germanici, provenzali e francesi, catalani e castigliani, sino ai lasciti anglosassoni.
Però… quanto è bello questo napoletano antico. E vediamo di preservarlo.

Il dialetto meno apprezzato? Il napoletano (ma non si sa di chi sia l’indagine)

Angelo Forgione – C’è francamente da sorridere sulla notizia diffusa da Preply.com dieci mesi or sono e rimbalzata fortemente qualche giorno fa, in occasione della Giornata nazionale dei dialetti, che vedrebbe il Napoletano il meno apprezzato di tutti.
L’indagine demoscopica, o presunta tale, che ha generato la notizia è a dir poco nebulosa. Chi l’ha condotta? “Un istituto di ricerca di mercato indipendente”, avverte l’ucraina Nadiia Mykhalevych, senza citarlo. Attendibilissimo, direi.

E non è per niente credibile quello che tale indagine avrebbe evinto: “Secondo l’analisi, il napoletano risulta essere il dialetto meno amato dai giovani tra i 18 e i 24 anni ma risulta essere molto popolare tra gli over 55: solo uno su cinque ha espresso un giudizio non positivo su questo dialetto.”

Quindi, secondo gli over 55, il napoletano è okay, ma non lo è per i giovani. Strano che Mare Fuori sia tanto amato dai ragazzi italiani, che cantano in massa le canzoni dei rapper e trapper napoletani. Così appare una notizia creata ad arte, artificiosa, per generare chiasso proprio sul dialetto evidentemente più popolare — altro che impopolare! — da una piattaforma che, per chi non lo sapesse, è un un marketplace online per l’apprendimento delle lingue che mette in contatto i tutor con centinaia di migliaia di studenti in diversi Paesi del mondo e propone lezioni private online, e che, probabilmente, provando a far parlare di sé, avrà cercato di adescare nuovi “studenti”. Anche perché l’analisi dice persino che “pure tra i residenti del luogo il dialetto napoletano non sembra godere di particolare popolarità”. Ma vi pare credibile? Un popolo che ha il più alto tasso di bilinguismo italiano-dialetto e che di ciò ne ha fatto un forte tratto distintivo e identitario? Suvvia.

Un altro sondaggio, altrettanto vago nelle metodologie adottate, indica il Napoletano come il più sexy tra i dialetti italiani (SpeedVacanze.it).
Insomma, online si legge tutto e il contrario di tutto, ma a fare da Cassazione, come sempre, è la storia, e quella dice insindacabilmente che il Napoletano è idioma di altissima dignità letteraria, pari a quella dell’Italiano; è lingua d’arte della Canzone, del Teatro, del Cinema e della Cultura in generale, l’unica dialettale ad aver fatto il giro del mondo e a rifarlo continuamente, dal Cinquecento a oggi.

Bando alle facezie, dunque, e rispolveriamo piuttosto le parole vere di Lucio Dalla, tanto per citare “uno qualsiasi”:
“Studio il Napoletano tutte le settimane da anni. Se potessi fare un’iniezione da duecentomila euro con tutto il Napoletano dentro la farei subito per poter pensare, parlare e ragionare come loro sempre”.

Più napoletano degli altri

Angelo Forgione – Quale migliore data della Giornata del Dialetto e delle Lingue Locali per dire in lingua dialettale che ‘o sestu figliu mio parlarrà napulitano! Ho infatti concluso il mio nuovo manoscritto e avviato la macchina editoriale di tale appassionato lavoro, un trattato proprio sulla lingua dialettale napoletana, la cui uscita è prevista in primavera.

Oltre due anni di appassionato impegno per dare completezza alle due metà da cui sarà composto il saggio: una storica e una didattica.
La parte storica è frutto di una rigorosa ricostruzione dell’evoluzione nei secoli dell’idioma partenopeo, anche in relazione alla koinè italiana, e quindi del percorso linguistico di Napoli rispetto a Firenze.
La parte didattica, altrettanto sudata, è una sorta di prontuario chiaro e completo per l’assimilazione di un’ortografia corretta a supporto e beneficio di coloro che vogliano minimamente padroneggiare la scrittura di una lingua d’arte, una delle pochissime di reputazione internazionale tra quelle dialettali.

La Giornata del Dialetto e delle Lingue Locali, nonché le versioni dialettali di Topolino appena pubblicate e andate a ruba, dimostrano quanto la dialettofonia rappresenti una parte importantissima della cultura italiana. Ennesimo segno della vittoria su chi, dall’alto, ha provato a cancellarla tra l’unità d’Italia e gli anni Settanta del Novecento.
L’omologazione linguistica e la sparizione dei dialetti, fortunatamente, non si sono compiute. Oggi, pur convergendo verso l’uso dell’italiano quasi la totalità degli italiani, la dialettofonia è ancora più o meno radicata nel comportamento linguistico, e restano vive le espressioni locali. In alcune regioni, come in Campania e in Veneto, il bilinguismo è più alto che altrove, e la percentuale di uso alternato di italiano e dialetto in famiglia e tra amici è davvero alta.

In un’epoca in cui non c’è più traccia di contrasto ai dialetti, il problema, in certe aree come quella napoletana, non è più quello di preservarne l’uso ma quello di proteggerne la scrittura dalla mancanza di uno standard riconosciuto, problema che sta generando il proliferare di un’ortografia “fai-da-te” e un eccesso di libertà nel trasformare il napoletano a proprio piacimento, rifugiandosi nell’alibi fornito da quella che è una lingua viva, quindi soggetta come tutte le altre a modifiche nel tempo. Tale libertà sta contribuendo a spostare una lingua d’arte nel recinto dei dialetti. Si sta correndo il rischio che il napoletano non venga più considerato una lingua letteraria, come lo è stata per secoli, e che perda quindi il suo prestigio, esattamente quello che viene riconosciuto a quei pochi dialetti non solo parlati ma anche scritti a livello autoriale.

Per fortuna, tra i veri amanti dell’identità partenopea affiora un certo rispetto per l’ortografia del napoletano, attorno al quale si è palesato un crescente interesse, anche di giovani e meno giovani di altre aree d’Italia appassionati di musica e serie televisive, testimoniato da alcune coraggiose iniziative didattiche, alle quali mi appresto ad aggiungere questo mio lavoro, andando oltre e svelando anche la storia di una grande città, Napoli, sede dell’unica corte reale della Penisola, che ha lasciato fare la più piccola Firenze e ha contribuito ad avviarne la spinta linguistica. E però ha continuato a parlare al mondo in maniera spontaneamente poliedrica, anche attraverso il suo logos territoriale, che ne definisce la condizione identitaria; e non poteva che riscattarsi, senza neanche imporselo, anche da una sua certa indolenza linguistica plurisecolare.

Ma per dirci tutto, ci leggiamo in primavera.

A 10 anni dalla morte di Pino Daniele, i say «tu staje cca»!

Angelo Forgione – Sapete cosa significò l’irruzione di Pino Daniele sulla scena musicale italiana? Erano, i Settanta, gli anni della grande crisi dei dialetti. Pier Paolo Pasolini a malincuore e Italo Calvino con sollievo li avevano dati per spacciati. A Napoli sorse pure la demonizzazione dei genitori nelle famiglie benestanti della città, quella per lo spontaneo uso della parlata natìa da parte dei figli, ai quali si smise di trasmetterla perché considerata erroneamente retriva e volgare. L’ordine era perentorio: «Parla bene!».

In questo difficile scenario, Pino Daniele osò una contaminazione musicale con il blues americano e l’uso di un napoletano più moderno e sfrontato. Riuscì ad affermarsi, e ad arrestare la ghettizzazione del napoletano in musica. Fu di fatto lui a rigenerare lo sdoganamento della parlata partenopea, riportata da lì in poi sulla scena internazionale e poi definitivamente legittimata dall’uso disinibito e spontaneo che ne fece Massimo Troisi, non a caso amico di Pinotto e a questi accomunato nel dare una più asciutta immagine dei napoletani, lontana da quella del folclore.

Nel 2006, il linguista torinese Gaetano Berruto parlò di “risorgenza dialettale” per fotografare una nuova attenzione verso le parlate locali d’Italia dopo l’assopimento degli anni Settanta. Una risorgenza che doveva molto al napoletano, a sua volta obbligato con Pino Daniele, anche se allontanatosi dal “Neapolitan Power” degli esordi. Lui, cavallo di razza, un puledro che aveva bisogno di frustate di napoletanità per galoppare, dopo aver rivoluzionato la musica napoletana, si era adeguato al trotto del pop italiano e si era fatto divorare dallo star-system commerciale. Aveva chiuso nel cassetto un codice linguistico-musicale di cui sentì la mancanza anche Federico Salvatore, cantandola in una sua celebre canzone: “Chiederei a Pino Daniele che fine ha fatto ‘Terra mia’, ‘Siamo lazzari felici’, ‘Quanno chiove’, ‘Appocundria’, ‘Napule è ‘na carta sporca’, ’Napule è mille paure’, ‘Ma pe cchiste viche nire so’ ppassate ‘sti ccriature’.

Si Pino se fosse astipato pe nnu’ murì, fuorze stesse ancora cu nnuje, e so’ ssicuro ca stesse cantanno n’ata vota ‘o nnapulitano… oggi di fortissima tendenza.

40 anni senza Eduardo, alfiere del linguaggio napoletano

Angelo Forgione – 31 ottobre 1984, ultimo giorno in vita dell’immenso Eduardo De Filippo. Ricordarlo significa andare ben oltre la rassegnazione del suo «fujitevénne», caricato di un peso e di un significato diverso da quello che in realtà conservava, per via, credo, di un certo modo di interpretare Parthenope. Quell’invito non era rivolto ai napoletani ma ai giovani attori napoletani che gli chiedevano di indicargli la strada per riuscire. Risposta: «Se volete fare qualcosa di buono (per voi attori), fujitevenne ‘a Napule». La politica locale gli aveva promesso un Teatro Stabile e la direzione dello stesso, ma erano rimaste solo chiacchiere. Uno scontro raccontato da Isabella Quarantotti De Filippo, sua moglie, nel suo libro Eduardo – Polemiche, pensieri, pagine inedite del 1985. Il significato di quell’amaro invito ai suoi epigoni è stato assolutizzato da una stantia narrazione sulla città come una spinta all’emigrazione per tutti i napoletani.

Di Eduardo mi preme evidenziare un aspetto identitario più sostanziale: è stato uno dei massimi artefici della resistenza del napoletano in un’epoca, quella fascista, di contrasto ai dialetti, già definiti nel 1903 “la malerba dialettale” dal critico letterario Pietro Mastri, infastidito dal grande successo dei poeti dialettali della Penisola, tutti incoraggiati dall’uso insistito del dialetto da parte degli artisti napoletani, che nell’Italia che provava a fatica a valorizzare la lingua unica, rappresentò l’elemento di massima garanzia di conservazione delle parlate locali.

Il grande successo Natale in casa Cupiello, del 1931, e le commedie successive furono portate in scena con un napoletano italianizzato affinché fosse compreso da tutti. Nel 1984, poco prima di morire e superata la più grande crisi dei dialetti, quella degli anni del miracolo economico in cui s’era diffusa la convinzione che fossero destinati a scomparire (Pasolini ne aveva tristemente constatata la tragedia della perdita), in una nota alla sua traduzione de La tempesta di William Shakespeare, Eduardo scrisse:

[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; […]. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]

Alla sua morte, il testimone del napoletano parlato passò a Massimo Troisi e a Pino Daniele, grazie ai quali, e non solo a loro, si arrivò lentamente a chiudere l’epoca del «parla bene!» nelle famiglie medioborghesi di Napoli, cioè del dover parlare italiano, e poi ad aprire il problema del parlare bene il napoletano. Oggi, momento in cui non c’è più traccia di contrasto ai dialetti, e il napoletano è di fortissima tendenza, si pone anche quello di tornare a scriverlo (bene).

La parola italiana più diffusa al mondo è napoletana

La parola italiana più diffusa nel mondo? È pizza, pure tra le più diffuse in assoluto. Si tratta esattamente di parola dialettale napoletana, come ci spiega lo scrittore rinascimentale Benedetto Di Falco nel suo Rimario del Falco (vedi immagine) del 1535, riferendoci che il particolare lemma partenopeo, almeno già dal primo Cinquecento, è sinonimo di focaccia:

Focaccia in Napoletano è detta pizza

Pizza è parola oggi comprensibile al mondo, ma in tempi remoti era ignota al di fuori di Napoli come la è, ad esempio, cresuommolo per chi non conosce il dialetto napoletano.

Verosimilmente, pizza è una derivazione di pititia (particella “titi” = tts), di appartenenza allo strato germanico-longobardo, che al plurale (pititie) si ritrova in un documento napoletano di enfiteusi dell’anno 966, la più antica attestazione di tale termine, derivante a sua volta dal greco pita/pitta, trasformata dai barbari. Inutile ricordare che i napoletani sono un popolo di origine greca.

Trentun’anni più tardi, nel 997, si legge la parola pizze in un documento scritto in latino, il Codex Diplomaticus Cajetanus di Gaeta, territorio ducale facente parte della Campania. L’atto ha per oggetto la locazione di un mulino presso il fiume Garigliano e del terreno annesso di proprietà del vescovato a condizione che “[…] ogni anno nel giorno di Natale del Signore, voi e i vostri eredi dovrete corrispondere […] dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua di Resurrezione”.
Non si tratta certamente di pizze come le intendiamo noi ma di preparazioni ripiene rustiche o dolci, accezione ancora oggi parallela e secondaria a quella più comune (pizza di scarole, etc.), come si evince da quel che scrive Bartolomeo Scappi, cuoco papalino, che nel secondo Cinquecento scrive come preparare torta di diverse materie da Napoletani detta pizza. Lo stesso fa Jacopo Sannazaro, citando la piza cun lo mèle.

È alla fine del Cinquecento che si parla di “mastunicola”, una pizza antesignana di quella dei giorni nostri condita con strutto, pepe, formaggio di pecora e tanta vasinicola, il basilico in napoletano (dal greco vazilikon), che, per storpiatura, dà il nome alla pietanza.

Il filologo Emmanuele Rocco, nel 1858, nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti” diretto da Francesco De Bourcard, conferma che pizza, come parola e come pietanza, è una specificità esclusivamente napoletana:

“La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché […] è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli (…)”.

È ormai la pizza moderna, cioè rossa, condita con il pomodoro, che dall’inizio dell’Ottocento, nella tipicità lunga, è anch’esso una specificità della sola cucina popolare di Napoli. È in questo passaggio che bisogna individuare la vera rivoluzione dei pizzajuoli di Napoli, che in seguito farà scuola nel mondo.

La parola dialettale napoletana pizza e la pietanza partenopea che indica diventano internazionali solo dal dopoguerra in poi, quando i turisti americani, che hanno conosciuto la pizza nel loro paese grazie agli emigranti napoletani e ai soldati yankees inviati a Napoli, la cercano a Roma, a Firenze, a Venezia e un po’ dappertutto, ma non la trovano. La domanda americana crea l’offerta italiana di un prodotto che a Napoli è mangiato da qualche secolo. Si tratta del cosiddetto “pizza effect“, un termine sociologico che indica qualcosa che nasce in un luogo specifico, diventa noto in un’altra nazione che fa conoscere quel qualcosa alla nazione in cui si trova il luogo specifico d’origine.