La “Piedigrotta” silenziosa

Angelo Forgione – Era la festa di Napoli. Non ne resta che il ricordo e la sola celebrazione religiosa, osservata esclusivamente dai devoti della Madonna di Piedigrotta, venerata dai pescatori e dal popolo di Mergellina dal momento dell’apparizione a tre religiosi napoletani avvenuta nel 1353.
Una storia dalle origini antichissime e precristiane, che qualcuno riconduce ai riti orgiastici in onore di Priapo, ma che in realtà celebrava i riti mithraici che magnificavano i misteri del Sole. Erano lascito dei Greci nella Napoli dei Romani che conservava usi e costumi delle origini, e si tenevano nella Crypta Neapolitana, la galleria nella collina di Posillipo scavata nel I secolo a.C. per facilitare la comunicazione diretta fra Neapolis e Puteolis.

Dal medioevo, si narra fantasiosamente che il tunnel sia stata realizzato da Virgilio in una sola notte, facendo ricorso a quella magia che gli si attribuiva e che lo rese patrono di Napoli prima di San Gennaro. Proprio nei pressi dell’ingresso della Crypta si trova quella che ancora oggi è identificata dalla tradizione come la tomba di Virgilio, ma che in realtà è un simbolico cenotafio.

Che la cavità posillipina facesse funzione di mitreo è fortemente indicato dal ritrovamento, avvenuto nel XVI secolo, di un bassorilievo del culto di Mithra, datato tra la fine del III e l’inizio del IV sec. d.C., e oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale, sul quale sono riportate le simbologie poi riprese dal Cristianesimo, responsabile probabilmente di avere raccontato dei riti orgiastici in onore di Priapo per sovrapporre alla festa la simbologia del Santuario di Piedigrotta, edificato nel 1353 davanti la Crypta, e dell’apparizione della Madonna ai tre religiosi, in onore della quale la festa religiosa fu fissata l’8 settembre, giorno della Natività della Beata Vergine Maria (concepita senza peccato originale l’8 dicembre). Forse per opporsi a quel luogo di baccanali orgiastici pagani, l’orientamento della chiesa fu invertito nel Cinquecento, in piena Controriforma, con la facciata rivolta in direzione opposta all’ingresso della Crypta.
In realtà, dopo le processioni in onore di Mithra, non era stato Priapo ad attirare i napoletani nella cavità posillipina ma Dioniso, al quale, nel mondo antico greco che aveva dato origini a Napoli, erano dedicate le feste di vendemmia d’autunno. Pare che le danze in onore della divinità del vino mostrassero gli stessi movimenti della tarantella, più tardi inventata e adottata nella Festa.

Le trasformazioni della Piedigrotta si sono ripetute nei secoli, tra sovrapposizioni religiose ma anche dinastiche operate dai vari regnanti che hanno cavalcato la Festa. Oltre ai canti, le processioni si arricchirono di carri e di elementi caratteristici che con il passare del tempo sono stati sottratti al popolo, il vero protagonista, divenuto man mano spettatore.
La fama internazionale fu raggiunta nel Settecento, dopo la vittoria di Carlo di Borbone a Velletri contro gli austriaci nell’agosto del 1744 con cui fu blindata l’indipendenza di Napoli. La data dell’8 Settembre fu resa Festa nazionale del Regno di Napoli e del suo esercito e la Madonna di Piedigrotta, il simbolo religioso della festa, fu innalzata alla venerazione borbonica della Capitale. La “Piedigrotta” divenne l’appuntamento di Napoli per stringersi attorno alla Nazione Napolitana con una celebrazione ricca di sfarzose parate militari e cannonate dai cinque castelli cittadini. Carlo di Borbone volle che diventasse un Carnevale celebrato con sfilata di carri più ricchi di quelli allestiti sobriamente coi prodotti della terra dagli abitanti delle zone limitrofe che confluivano a Napoli anticamente. Dovevano essere preceduti da bande musicali e ritraenti personaggi della storia e della tradizione napoletana quali san Gennaro, la Sirena Parthenope, Pulcinella, Masaniello ed altri, che dovevano procedere in direzione del Palazzo Reale, nei cui pressi era allestito il palco reale, meta di un rituale “inchino”. Gran protagonista, come detto, era il popolo, invitato a cantare, a fare baccano e a unirsi alla nobiltà e alla corte nei festeggiamenti per le strade, insieme ai viaggiatori che giungevano per toccare con mano ciò di cui si sentiva parlare in tutt’Europa. La “Piedigrotta” divenne la festa più famosa del Continente e Napoli, anche durante la Festa, fu meta dei ricchi turisti del Grand Tour a cavallo tra Sette e Ottocento che intendevano toccare con mano quell’atmosfera unica di cui si sentiva parlare in tutte le capitali.

La gara canora di Piedigrotta fu ufficialmente inaugurata l’8 settembre del 1839, con il trionfo di Te voglio bene assaje. E però, qualche anno più tardi, dopo l’unità d’Italia, la festa pagò il doppio significato religioso e dinastico borbonico. Garibaldi entrò a Napoli il 7 settembre del 1860, e il giorno seguente, in piena Festa, si recò a far visita alla Madonna di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia, accolto sinistramente da un tremendo temporale che inzuppò il corteo, nel quale marciavano anche il ministro voltagabbana Liborio Romano e tutti i “compagnoni” (camorristi ante litteram) a protezione del Generale.

La Festa fu sospesa nel 1862 dal nuovo potere massonico, a seguito del decreto nazionale di soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della Chiesa, compreso il santuario di Piedigrotta.
Ripartì diversi anni più tardi, ma andò incontro al suo declino con l’avvento del fiorente business delle industrie discografiche di fine Ottocento, convogliata in una preziosa rassegna di canzoni che però sostituirono i canti del popolo. Mentre guadagnava il suo grande patrimonio musicale, Napoli perdeva definitivamente la vera essenza della Piedigrotta. I canti popolari, anticamente eseguiti nei pressi della Crypta, divennero canzoni, eseguite in piazze e spazi più ampi. Il popolo neanche sfilava più, avendo perso il suolo ruolo di attore per assumere quello di spettatore.

Con la nascita del Festival della Canzone Napoletana, nel 1952, anche la rassegna canora di Piedigrotta declinò, insieme alla Festa che l’industria discografica aveva conquistato.
La sospensione del 1982 seguì ai disagi del terremoto d’Irpinia, anche se la sfilata dei carri fu comunque sovvenzionata da un’associazione privata per qualche anno ancora.
Dal 2007, sotto l’amministrazione Iervolino, gli ultimi discutibili tentativi di riaccendere l’appuntamento settembrino. Tentativi definitivamente abortiti nel 2012 dall’amministrazione De Magistris, con l’evento ormai sradicato dall’identità e dalla memoria dei napoletani.

Portosalvo, la guglia della storia avversata torna a splendere

portosalvo_restauratoAngelo Forgione Immacolata, San Gennaro, San Domenico, Materdei e Portosalvo. Sono i cinque obelischi di Napoli. Uno di questi è uscito dall’abbandono in cui era caduto da decenni. È quello antistante la chiesa cinquecentesca di Santa Maria di Portosalvo e la Fontana della “Maruzza”, all’altezza dell’Immacolatella, alla biforcazione di Via Marina e Via De Gasperi.
È un simbolo di una vicenda saliente della storia di Napoli, realizzato dopo la riconquista del Regno da parte del Cardinale Fabrizio Ruffo che, alla testa dell’esercito della Santa Fede, scacciò i giacobini e restituì ai Borbone quanto sottratto dalle truppe francesi al comando del generale Championnet. A dieci anni dalla Rivoluzione Francese, la Repubblica Napoletana ebbe vita breve e la guglia fu innalzata in ricordo dell’esito favorevole ai reali napoletani in una vicenda epocale destinata a far discutere nei secoli.
L’obelisco celebrativo fu realizzato in piperno, con terminale piramidale sormontato da una croce, e vi furono apposti sui quattro lati dei medaglioni di marmo raffiguranti la Madonna di Portosalvo, Sant’Antonio, San Francesco di Paola – a cui i Borbone erano devoti – e San Gennaro, con cui ci si volle in qualche modo riconciliare. Che aveva combinato?
I militari francesi, appena entrati in città, avevano instaurarono un deciso anticlericalismo e politicizzato il venerato Santo per placare il dissenso dei partenopei, che li consideravano l’esercito dell’anticristo. Championnet, ben informato da Eleonora Fonseca Pimentel sui costumi locali e favorito da alcuni massoni della Deputazione del Santo, aveva imposto con la forza all’Arcivescovo di Napoli, Capece Zurlo, di annunciare lo scioglimento del sangue per salutare l’arrivo dei suoi e legittimarne l’occupazione.

[…] Pure san Gennaro si è fatto giacobino! Ecco il commento del popolo. Ma può il popolo napoletano non essere quello che è san Gennaro? Dunque… Viva la Repubblica!

Questo scrisse Eleonora Pimentel Fonseca sul suo Monitore Napolitano, ma il popolo di Napoli non gradì né i francesi né i giacobini napoletani, e tantomeno l’atteggiamento del Santo. Il cardinale Ruffo aveva destituito San Gennaro, sostituendolo con Sant’Antonio da Padova, la cui festività era coincisa con l’ingresso a Napoli alla guida dell’esercito dei sanfedisti, ingrossato dal popolo di Napoli urlante a gran voce “Viva ‘o Rre!”. Nonostante l’amnistia concessa dal Cardinale, iniziarono a saltare diverse teste in piazza Mercato per la sete di vendetta dell’ammiraglio inglese Nelson, fiero oppositore dei francesi, e della Regina Maria Carolina, ancora traumatizzata dalla decapitazione della sorella Maria Antonietta a Parigi e dal massacro di decine di migliaia di popolani del Regno.
I realisti, San Gennaro non ce lo volevano sul monumento, e nemmeno il popolo, che aveva cominciato a chiedere grazie a Sant’Antonio. Ma Ferdinando IV pronunciò parole di pacificazione in vista della ricorrenza del 19 settembre e fece in modo che la città non ripudiasse il suo Santo, cui era dedicato tra le altre cose il più importante Ordine morale del Regno, riservato ai capi delle grandi famiglie e ai fedeli alla dinastia. San Gennaro ebbe un suo spazio sull’obelisco, ma per riottenere il patronato della città dovette attendere la fine definitiva del giacobinismo e dei Napoleonidi, nel 1815.
Qualche anno dopo, l’obelisco divenne il simbolo di una memoria dannata, quella della monarchia napoletana cacciata da Garibaldi e dai Savoia, e ha del prodigioso il fatto che sia scampato alla furia iconoclasta dei liberali, probabilmente perché simbolo religioso. L’abbandono e la razzia dei bassorilievi condussero la guglia di Portosalvo a un sostanziale oblio e a un grave degrado.

Nel 1998, il Consiglio Comunale di Napoli discusse l’opportunità di un’integrazione culturale che accogliesse una più ampia valutazione storica nel corso delle celebrazioni del bicentenario del 1799. In sostanza, la città decise la rivalutazione di ogni periodo storico, a prescindere che si trattasse di vinti o vincitori. Fu proposto che la degradata guglia borbonica e l’area circostante fossero restaurate. La discussione trovò il consenso dell’allora sindaco Bassolino e fu approvata all’unanimità. 
A quella decisione seguì l’avvio dei lavori di restauro nel 2004, poi interrotti senza che l’obelisco uscisse della rovina. La guglia, con gravi problemi di staticità, restò ingabbiata da una struttura metallica, circondata da rifiuti, avanzi di cibo e bottiglie rilasciati dagli extracomunitari che bivaccavano ed esercitavano l’attività di lavavetri in zona.
Nel frattempo, in epoca di celebrazioni dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia, i monumenti e le statue dedicati agli eroi del Risorgimento ritrovavano splendore e visibilità. Poi l’avvento del finanziamento privato del progetto Monumentando a dare finalmente dignità e visibilità all’obelisco borbonico.

8 dicembre, Festa napoletana nel mondo cattolico

Dalla guglia di Napoli alla colonna di Roma, Napoli decisiva nella la definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, Patrona delle Due Sicilie

La solennità dell’Immacolata Concezione è antica, importata nell’Italia meridionale dai monaci bizantini e inserita nel calendario della Chiesa universale da papa Alessandro VII con la bolla Sollicitudo omnium ecclesiarum dell’8 dicembre 1661. La Festa in suo onore celebra un dogma cattolico proclamato l’8 dicembre 1854 da papa Pio IX, che, con la bolla Ineffabilis Deus, fece della Vergine Maria l’unica creatura concepita senza quel peccato originale che invece appartiene a ogni essere umano alla nascita. Tre anni dopo fu eretto un monumento celebrativo a Roma, in piazza Mignanelli, adiacente a piazza di Spagna. Il Pontefice fece installare una colonna con una statua bronzea della Madonna alla sua sommità, inaugurata l’8 dicembre 1857 col fondamentale aiuto di 220 pompieri. Dal 1953, il Papa di turno esce dal Vaticano ogni 8 dicembre e si reca ai piedi della Colonna per presenziare all’affollata cerimonia dell’offerta di una corona di fiori apposta proprio dai Vigili del Fuoco sulla statua della Madonna, una tradizione inaugurata nel 1923.
Nel percorso di definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione, fondamentale importanza la ricoprì il vicino Regno delle Due Sicilie. Dietro il monumento romano si intrecciano infatti le storie delle cattolicissime Roma e Napoli, a quel tempo preunitario vincolate dall’amicizia tra Pio IX e Ferdinando II delle Due Sicilie, tant’è che, nel 1852, il Re di Napoli era stato ospite con tutta la famiglia a Castel Gandolfo, dopo che, nel novembre 1848, il Papa era stato ospitato nella napolitana Gaeta durante il suo riparo dalla Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini. Fu proprio a Gaeta che il Santo Padre, preoccupato per le sorti della Chiesa di Roma, ascoltò le parole del Cardinale Luigi Lambruschini: «Beatissimo Padre, Voi non potrete guarire il mondo che col proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione. Solo questa definizione dogmatica potrà ristabilire il senso delle verità cristiane e ritrarre le intelligenze dalle vie del naturalismo in cui si smarriscono». Da Gaeta, Pio IX indirizzò a tutto l’episcopato cattolico l’enciclica Ubi Primus Nullis per accogliere i pareri (in larga parte favorevoli) dei Vescovi sull’eventuale proclamazione del dogma. Il Papa vi rimase fino al settembre 1849, per trasferirsi a Napoli, dove alloggiò alla Reggia di Portici, che lasciò nell’aprile del 1850 per rientrare finalmente nella liberata Roma, dirigendosi direttamente al Vaticano, scelto come sua nuova residenza in luogo del Quirinale.
Durante la permanenza nella capitale dello Stato borbonico, il Papa benedisse i napoletani dal balcone del Palazzo Reale, sperimentò per la prima volta un viaggio in treno sulla linea Napoli-Nocera, visitò le officine ferroviarie di Pietrarsa, andò alla Reggia di Caserta e nell’enclave di Benevento. Il lungo soggiorno nei territori borbonici gli diede modo di avvertire di persona la grande devozione napoletana alla Vergine Maria. Lì, a Napoli, esisteva già un monumento dedicato all’Immacolata, eretto tra il 1747 e il 1750. Re Carlo di Borbone e la consorte Maria Amalia si erano fatti promotori della realizzazione di un monumento barocco dedicato alla Vergine, una scultura che ricalcasse una “macchina da festa”, da collocarsi nel centro della piazza del Gesù Nuovo. Il delegato alla raccolta dei fondi necessari, il gesuita Francesco Pepe, evangelizzatore instancabile che attirava moltitudini di fedeli, aveva messo insieme le tantissime elemosine dei cittadini devoti alla Vergine Maria, vogliosi di vedere presto nello slargo un monumento alla Patria Napolitana che ne rappresentasse la fede del popolo. La Guglia significò i tre componenti della Nazione partenopea tornata indipendente: la Chiesa, la Famiglia reale e il Popolo. Un’altra guglia era, sin dal 1733, pure a Bitonto, dove il culto mariano era fortissimo già dal forte terremoto che nel 1731 aveva colpito la cittadina pugliese. La successiva battaglia del maggio 1734, combattuta dalle truppe di Carlo di Borbone contro quelle austriache, i cui esiti avevano consegnato definitivamente il Regno di Napoli alla nuova indipendenza, aveva convinto la risparmiata popolazione locale che la Vergine vegliasse su Bitonto, proclamata perciò Patrona della città. E sempre Carlo di Borbone volle la costruzione del monumentale Palazzo dell’Immacolatella nella zona portuale di Napoli, caratterizzato dalla statua della Vergine Maria alla sommità dell’edificio e da altri simbolismi mariani.
La festività dell’8 dicembre era già molto sentita nello Stato meridionale perché celebrativa della Patrona speciale della Patria Napolitana dal 1748. Fu proprio l’8 Dicembre del 1816 la data in cui, dopo il periodo napoleonico e il Congresso di Vienna, i due regni di Napoli e di Sicilia erano stati riuniti nel Regno delle Due Sicilie con la “Legge fondamentale del Regno”, un’entità statale spiccatamente mariana.
Pio IX, profittando del suo esilio napoletano, visitò chiese e istituti religiosi per toccare con mano quanto il clero del Mezzogiorno considerasse Napoli la vera autorità di riferimento, e non Roma, riscontrando una fortissima attesa della definizione del dogma dell’Immacolata. Conobbe don Placido Baccher, devotissimo alla Madonna e noto come “l’apostolo dell’Immacolata”, colui che aveva reso la Basilica del Gesù vecchio il luogo per eccellenza di venerazione della Vergine. Anche il Pontefice pregò davanti alla statua dell’Immacolata a bella posta per volontà del sacerdote napoletano, e fu proprio dinnanzi a quell’immagine che si convinse a proclamare il dogma mariano qualora ci fosse stata la restaurazione dello Stato pontificio. L’episcopato del Regno napoletano aveva già avviato delle petizioni che furono presentate il 27 settembre 1849 al Papa, allorché si recò al Gesù Nuovo per venerare l’Immacolata, e integrate da numerose altre una volta rientrato in Vaticano nel 1850, quando iniziò a lavorare per approntare la bolla definitoria dell’Immacolata Concezione. L’8 dicembre 1854, Pio IX celebrò in San Pietro la proclamazione del dogma e Ferdinando II, durante la consueta parata al Campo di Marte (attuale zona aeroportuale di Capodichino), ne ricevette l’annuncio telegrafico, ordinando un solenne Te Deum di ringraziamento. Il Popolo Napolitano accolse con gioia l’evento che rendeva universali i festeggiamenti per la Protettrice del Regno delle Due Sicilie in tutto il mondo cattolico.
Nel 1857, dunque, Roma ebbe il suo monumento mariano, analogo a quello di Napoli. Affine fu il metodo di finanziamento, perché se quello napoletano era stato realizzato con le offerte del popolo, quello romano fu realizzato proprio con soldi napoletani. Li elargì Ferdinando II a Pio IX in cambio dell’abrogazione definitiva di un antico tributo di sudditanza feudale, la cosiddetta “Chinea”, che Napoli aveva pagato in tempi antichi a Roma con la consegna affidata a un cavallo bianco condotto davanti la basilica di San Pietro ogni 29 giugno. L’omaggio era sorto coi Normanni nel 1059 e il suo plateale cerimoniale fu cessato da Ferdinando IV nel 1788, dopodiché la fiera e illuminista Napoli, non più disposta alla sudditanza, aveva dato sempre meno importanza alle annuali pretese della Santa Sede. Il 25 giugno 1855, Ferdinando II chiese a Pio IX di desistere dalle mai cessate richieste e, in forma di “buona uscita”, propose 10.000 scudi pontifici per l’erezione in piazza di Spagna di una colonna da dedicare all’Immacolata Concezione, sulla falsa riga di quella napoletana. Il Papa accettò, e il 5 luglio fece registrare ufficialmente la cessazione del tributo.
L’8 dicembre del 1856, durante la festosa sfilata delle truppe nazionali al Campo di Marte, Ferdinando II subì l’attentato di Agesilao Milano, un soldato che uscì dalle righe e gli si scagliò contro colpendolo due volte con la lama della baionetta. Il Re fu ferito ma rimase stoicamente al suo posto e, dopo essere tornato a Palazzo Reale, fu visitato dai medici con esito tranquillizzante. Per ringraziare la Patrona del “miracolo”, fu decisa l’edificazione di un tempio all’Immacolata al Campo di Marte, la cui prima pietra fu posta dopo otto mesi di raccolta di offerte volontarie. La chiesa dell’Immacolata Concezione è ancora oggi molto popolare a Capodichino, affollata dai fedeli in piazza Giuseppe Di Vittorio, all’imbocco del Corso Secondigliano.
Secondo il parere del professor Gino Fornaciari, ordinario di Storia della Medicina e Direttore della Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, l’attentato ebbe probabilmente la sua importanza postuma poiché forse causò la morte per male oscuro di Ferdinando II dopo qualche anno, a causa delle ferite trascurate. Scomparso nel 1859 l’autoritario sovrano, gli eventi per il Regno di Napoli precipitarono e la protestante Londra armò il Piemonte per spazzare via la cattolicissima Napoli dallo scacchiere geopolitico e fare del Risorgimento una guerra contro la Chiesa cattolica di Roma e contro la concorrente Napoli. Proprio a Gaeta si rifugiò l’erede Francesco II per risparmiare alla sua capitale le sofferenze di una guerra all’ultimo stadio. E proprio l’8 dicembre del 1860, il giovane Re decretò la resa al Piemonte con uno struggente proclama che si chiudeva con una preghiera al “sommo Iddio” e alla “invitta Immacolata protettrice speciale del nostro paese”. La “fedelissima” Gaeta pagò l’ospitalità al Papa del 1848 e fu rasa al suolo dai cannoni rigati piemontesi. La Francia cattolica di Napoleone III assicurò ancora protezione a Roma, sostenendo l’Unità d’Italia ma assicurando il potere temporale di Pio IX. E fu proprio il piroscafo francese Mouette ad accompagnare in esilio Francesco II e Maria Sofia, per essere ospitati proprio a Roma dal Santo Padre, in segno di gratitudine per quanto fatto in passato. Nel 1870, con la breccia di Porta Pia, il potere temporale crollò definitivamente, ma la nuova Italia doveva restare cattolica e Vittorio Emanuele II, dopo lo spostamento della capitale da Torino a Firenze (per volontà di Napoleone III) e la successiva invasione di Roma, dovette riconoscere al Pontefice speciali immunità, gli onori di Capo di Stato, una rendita annua e il controllo sul Vaticano e su Castel Gandolfo. Pio IX scomunicò Casa Savoia per la politica ostile alla Chiesa, provvedimento reiterato tre volte e ritirato nel 1878, in punto di morte di Vittorio Emanuele II, ma solo perché il Re dell’Italia cattolica non poteva morire senza sacramenti.
L’Italia era divenuta politicamente e militarmente piemontese per volontà francese e inglese, ma napoletana e romana nel costume, nella religione e nella cultura. Compresa la celebrazione dell’Immacolata dell’8 dicembre, che, non per caso, vede continuare Napoli e Roma a procedere a braccetto nei festeggiamenti. Se a Roma è il Papa a presenziare all’omaggio dei Vigili del Fuoco alla colonna mariana, a Napoli è sono il Sindaco e il Cardinale a porgere sempre ai pompieri un fascio di rose da deporre tra le mani della statua della Vergine sulla Guglia. In altre città italiane, dopo l’affermazione del dogma mariano, sono sorte colonne dedicate alla Vergine Maria, la Regina che Napoli volle innalzata al cielo.

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