Alta criminalità al Nord, e il Ministero smentisce che il Sud denuncia meno

Angelo ForgioneIndici di criminalità elaborati da Il Sole 24 Ore in base ai dati forniti dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e relativi al numero di delitti commessi e denunciati nel 2018. La maglia nera per numero di reati riportati nel corso del 2018 spetta alla provincia di Milano che, con 7.017 denunce ogni 100mila abitanti, mantiene la leadership poco lusinghiera fotografata già nei due anni precedenti. Subito dietro, Rimini e l’incalzante Firenze (in forte crescita), rispettivamente con 6.430 e 6.252 illeciti rilevati. Poi Bologna, Torino, Roma, Prato, Livorno, Imperia, Genova, Savona, Parma, Pisa, Venezia, Ravenna e Modena davanti alla prima città meridionale in classifica, Napoli, al diciassettesimo posto. Non è una novità, così come non è nuova l’analisi applicata: «Nord criminale, ma al Sud si denuncia poco», dicono quelli bravi. Ma sono veramente così bravi?
Che al Sud si denunci di meno lo sostengono i media, e così finisce per pensarla l’opinione pubblica. Lo ha detto persino il Tgr Campania, nell’edizione pomeridiana del 14 ottobre. Titolo: “Nella classifica criminalità del Sole 24 Ore, Napoli diciassettesima ma lo scarso numero di denunce condiziona il dato”. Guardi con attenzione il servizio e comprendi che si tratta di un dubbio (insinuato), non di uno studio del fenomeno:
«La fotografia è stilata tenendo conto delle denunce. È qui il primo nodo: risulta difficile credere che, nella classifica sulla criminalità, Napoli venga dopo Parma o Modena. Al Sud si denuncia molto meno rispetto al Centro-Nord».
Ma nessuna prova di tale teorema, che teorema resta.


Credere che Napoli venga dopo Parma o Modena risulta difficile perché siamo tutti abituati a credere che Napoli e il Sud siano il regno del crimine. È una visione discriminatoria della cosa non suffragata dai dati e neanche dallo stesso Ministero dell’Interno, che, nel recente Rapporto Criminalità, informa testualmente come il teorema delle mancate denunce al Sud sia falso e retaggio del razzismo positivista del secondo Ottocento, quello dei Lombroso, dei Niceforo e dei propagandisti della borghesia settentrionale che plasmarono l’opinione pubblica anti-meridionale, cioè il pregiudizio settentrionale, nei primi anni dell’Italia unita, e che ancora oggi sono pretesto per discutibili mostre che sbattono in faccia ai visitatori le faccia dei “delinquenti napoletani”.
Leggiamo, dunque, cosa è scritto nel Rapporto Criminalità del Ministero dell’Interno, perché magari l’autorevolezza della fonte, la stessa consultata da Sole 24 Ore, può aiutare a riflettere più profondamente:

Ogni reato ha una sua precisa distribuzione a livello territoriale che è riconducibile a quelle caratteristiche che distinguono i borseggi dagli scippi e dai furti in appartamento. Ad esempio, questi ultimi sono più diffusi al Nord, mentre al Sud si rileva un maggiore numero di scippi.
Questa è un’osservazione importante da tenere a mente perché smentisce l’opinione comune che tutti i reati siano in larga misura più frequenti nel Sud rispetto al Nord Italia. Si tratta di una credenza piuttosto diffusa e duratura nel tempo che si può far risalire alla scuola positivista italiana alla fine del XIX secolo quando venivano attribuiti i più alti tassi di delinquenza – sia violenta che contro la proprietà – al meridione sulla base di aspetti razziali e indicatori socioeconomici delle due aree geografiche. È invece possibile distinguere storicamente tra i reati contro la proprietà effettivamente più frequenti nel Nord e i reati violenti più diffusi al Sud. Nel caso dei furti, furti in appartamento e borseggi avvengono di più al Nord e gli scippi al Sud. Ciò non dipende, come sostengono alcuni, da una diversa propensione a denunciare i reati subiti da parte dei cittadini sulla base di un supposto maggior senso civico di chi vive nelle regioni settentrionali. Le indagini di vittimizzazione hanno infatti mostrato che si denuncia di più quanto più alto è il valore della refurtiva e quando è stata stipulata una relativa assicurazione. I diversi tassi di furti, scippi e borseggi tra Nord e Sud si spiegano meglio sulla base delle opportunità che si presentano sul territorio e in base agli stili di vita e alle attività della popolazione.

Tradotto in soldoni, il Ministero degli Interni avverte che i reati sono più frequenti al Nord perché lì c’è più benessere che al Sud, e questo alletta il crimine. Ciò accadeva anche a fine Ottocento, quando il positivismo plagiava le teste degli italiani, e lo mise nero su bianco il politico Napoleone Colajanni analizzando la delinquenza della città di Napoli in confronto a quella di Milano, dimostrando che, complessivamente, dati del triennio 1896-1898 alla mano, i reati nella città lombarda, allora senza meridionali ed extracomunitari, erano in numero maggiore che in quella campana, nonostante l’eccessiva pressione daziaria del Regno d’Italia dei Savoia cui erano stati sottoposti i napoletani, superiore a quella esercitata sui milanesi, avesse comportato, tra il 1872 e il 1899, sofferenti condizioni di povertà e parassitismo. I dati furono commentati da Francesco Saverio Nitti nella sua pubblicazione Napoli e la questione meridionale del 1903.

Qualche anno fa, anche un’indagine svolta dall’Università Suor Orsola Benincasa, fondazione Polis e centro Res Incorrupta, evidenziò che le denunce nel Meridione erano in linea con i dati europei, smentendo la teoria del Sud più restio del Nord a denunciare. Roba da lombrosiani che ancor ci travolge, e travolge anche le redazioni dei telegiornali locali, che dovrebbero essere invece in prima linea nel riportare, almeno in casa, quel che il Ministero degli Interni e le ricerche accademiche hanno evinto per ripristinare l’equilibrio di giudizio.

Qualcuno provi dunque a sfidare i luoghi comuni e a sostenere che Milano è la città della delinquenza, più di Napoli, e che il Nord è più criminale del Sud, come statistiche e rapporti dimostrano. Perché un conto è la criminalità reale e un altro è la criminalità percepita.

L’antropologia lombrosiana del napoletano e quella del milanese

Angelo Forgione – Hanno destato scalpore le parole dell’imprenditore brianzolo Gian Luca Brambilla pronunciate alla trasmissione Agorà (Rai 3) circa l’abitudine dei napoletani a non pagare il biglietto per viaggiare sui mezzi pubblici: “Antropologicamente, il napoletano vuole usare i mezzi pubblici gratis e deve avere servizi fatiscenti”.
Concetti lombrosiani basati su realtà specifiche. Napoli è effettivamente afflitta da un cospicuo problema di evasione tariffaria sui mezzi pubblici, sia pure in maniera molto inferiore che a Roma, Bari e Reggio Calabria e non troppo superiore a Firenze (a Milano, Atm fornisce solo il dato della metropolitana e non è possibile accertare il dato complessivo), ma si tratta in ogni caso di una realtà parziale sulla quale non è corretto esprimere un giudizio di carattere antropologico su un popolo. Se delinquere è peggio che viaggiare gratis sui mezzi pubblici, ad essere lombrosianamente arroganti come il Brambilla e stando alle statistiche sui reati in Italia, si potrebbe asserire, a buona ragione, che i milanesi sono “antropologicamente” delinquenti. Già alla fine dell’Ottocento, il politico Napoleone Colajanni, analizzando la delinquenza della città di Napoli in confronto a quella di Milano, dimostrò che, complessivamente, nel triennio 1896-1898, i reati nella città lombarda (senza meridionali ed extracomunitari) erano in numero maggiore che in quella campana, nonostante l’eccessiva pressione daziaria del Regno d’Italia dei Savoia cui erano stati sottoposti i napoletani, superiore a quella esercitata sui milanesi, avesse comportato, tra il 1872 e il 1899, sofferenti condizioni di povertà e parassitismo. I dati furono commentati da Francesco Saverio Nitti nella sua pubblicazione Napoli e la questione meridionale del 1903.

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Ancora oggi, Milano risulta la città italiana dove si registrano più reati. Secondo il rapporto Censis sulla filiera della sicurezza in Italia nel 2016, realizzato insieme a Federsicurezza e pubblicato a giugno 2018, nel capoluogo lombardo si consumano il 9,5% del totale di quelli commessi in Italia, e si registrano 7,4 reati denunciati ogni cento abitanti, dato che fa guadagnare alla città del Duomo il primato anche per il numero di crimini in rapporto alla popolazione. Le statistiche milanesi sono ben al di sopra della media italiana, pari a 4,1 reati ogni 100 abitanti.
Qualcuno provi dunque a sfidare i luoghi comuni e a dire in tivù che Milano è la città della delinquenza, più delinquente di Napoli, e poi veda cosa accade.

La volgare (e debole) difesa di Michele Emiliano: «Bari non è Napoli»

Angelo Forgione –  Nel finale di puntata del 23/02/16 di L’aria che tira (La7) Myrta Merlino ha trattato il tema dell’emergenza sicurezza nelle periferie di Bari, città purtroppo interessata dall’erosione sociale della malavita organizzata come le maggiori del Sud. Ospite in studio il Governatore della Puglia Michele Emiliano, che, dopo un reportage filmato sulla delinquenza nel quartiere San Pio, si oppone affermando che «il servizio è completamente sconnesso dalla verità, perché gli autori del triplice omicidio di cui si è parlato sono stati immediatamente catturati». Per rinforzare la difesa, l’ex sindaco di Bari ha poi usato un termine di paragone, il più classico, il più volgare: «Noi ci siamo eccome. C’è la Regione, c’è il Comune, c’è la Questura, ci sono i magistrati. Cioè… la Puglia (Bari) non è Napoli, e rappresentare Bari in quella maniera è un errore catastrofico. In quel quartiere nessuno si può permettere di commettere reati senza finire in galera regolarmente, perché è noto che gli uffici giudiziari della città di Bari e della Puglia reagiscono puntualmente».

Punto 1: Il sistema giudiziario di Napoli non è diverso da quello di Bari, ed Emiliano non può insinuare che gli uffici giudiziari di Napoli e della Campania reagiscono diversamente e meno prontamente nei confronti di chi commette reati. Che poi lo Stato al Sud sia sostanzialmente assente è certo, ma Bari e Napoli sono entrambe meridionali. Irrispettoso!
Punto 2: Il tasso di omicidi di Napoli e Bari (per 100.000 abitanti) è pressoché identico. Il Rapporto ISTAT 2015 (riferito ai dati 2013) dice che, circa gli omicidi volontari (tentati e consumati) nei grandi comuni, Napoli e Bari hanno gli stessi valori, e che nel quinquennio 2009-2013 Napoli ha visto migliorare la sua situazione mentre per Bari gli omicidi sono in aumento. Disinformato!
Punto 2: Rappresentare Bari (e Napoli) in maniera distorta, diffondendo la sensazione che tutta la città sia interessata da fenomeni di criminalità è sicuramente un errore, ma è davvero catastrofico, non per Bari ma per Napoli, tentare di migliorare la percezione della città pugliese attraverso la denigrazione di quella campana. Scorretto!
Punto 3: Emiliano, evidentemente, ha idea di quale catastrofe rappresenti per Napoli il perpetuo uso del suo nome in termini negativi, giorno dopo giorno, nelle emittenti nazionali, e perciò non vuole che questo accada per la sua città. Però poi violenta Napoli. Ipocrita!
Punto 4: Il fatto che vengano catturati degli assassini vuol dire che quegli assassini esistono, e quindi esiste un’emergenza sicurezza. La cattura segue il reato, non lo cancella. Sballato!

Dispiace davvero vedere un politico d’impronta meridionalista, che legge libri meridionalisti, governatore di una regione del Sud, ex sindaco di un’importante città meridionale qual è Bari, fare la guerra dei poveri e infangare inopportunamente un’altra città del Sud, peraltro la più rappresentativa, quella di cui conosce bene la storia e i motivi del declino. Proprio colui che, più degli altri, ha sollecitato in passato una sinergia tra le amministrazioni meridionali da opporre alle politiche filosettentrionali.

Calcio italiano “game over”

la discriminazione territoriale scoperchia l’infiltrazione della malavita che ricatta le società e la società

Angelo Forgione È andata come peggio non poteva la finale di Coppa Italia. In scena, l’ennesima figuraccia del nostro calcio agli occhi d’Europa, proprio mentre il Portogallo superava l’Italia nel ranking europeo, come è logico che sia quando la prima e la terza lusitane eliminano dall’Europa League la prima e la terza italiane. Le immagini in diretta dallo stadio Olimpico ci hanno descritto di un colloquio tra Hamsik e responsabili del Napoli coi capiultrà (non tifosi, sia chiaro) seduti sulle recinzioni, utile ad allentare la tensione e far svolgere la partita per ordine pubblico, tra petardi lanciati all’indirizzo di addetti alla sicurezza e notizie ufficiali che si rincorrevano all’insegna della modifica ad arte con lo scopo di calmare gli animi. Tutto in una sera è venuto a galla la melma corrosiva sedimentata nel calcio italiano e nel Paese di cui è specchio.
Il presupposto di riflessione è unico: se la Digos segue i flussi delle tifoserie nelle trasferte è perché sa che tra di loro ci sono elementi pericolosi. Accade troppo spesso. I tifosi, quelli veri, sono di fatto schiavi di un passione e ostaggi di personaggi con un’etica e una mentalità tutta propria che non ha nulla a che vedere con la civiltà e che, da protagonisti di un torbido intreccio, assurgono al ruolo di chi comanda e di chi ha il potere di accendere gli animi o sedarli, sospendere o riprendere una partita, interfacciarsi o scontrasi con i rappresentanti e i tutori della pubblica sicurezza. Così accade in ogni aspetto della società in cui in ballo ci sono introiti facili e interessi personali, da sempre; dunque, perché scandalizzarsi solo quando le telecamere puntano gli obiettivi su una partita di calcio?
Potremmo star qui a parlarne all’infinito, e non avremmo nemmeno iniziato a farlo se non fosse successo quello che è successo all’esterno dello stadio. Il battito della farfalla dall’effetto devastante è di un altro capoultrà, della tifoseria estrema della Roma, già noto per le sue nobili gesta. È Daniele De Santis “Gastone”, destinatario di daspo, co-protagonista della sospensione di un Roma-Lazio del 2004 per l’omicidio (falso) di un un bambino da parte della polizia per cui se la cavò con la prescrizione, arrestato nel 1996 per ricatto all’allora presidente della Roma Franco Sensi, obbligato a fornire biglietti: «se non ci dai i biglietti – disse in un’intercettazione telefonica – facciamo lo sciopero del tifo e allo stadio non verrà più nessuno, e sfasciamo tutto, vedi un po’ se ti conviene». Questo è il profilo di un esercente in un chiosco nei pressi dell’Olimpico, sceso di casa per recarsi al lavoro con fumogeni, pistola ed, evidentemente, tanta premeditazione. Sapeva che gli odiati napoletani sarebbero passati nei suoi paraggi e invece di starsene buono pare abbia pensato di provocarli lanciandogli i fumogeni al grido «vi ammazzo tutti». All’inevitabile reazione, avrebbe risposto esplodendo colpi di pistola, colpendo alla colonna vertebrale Ciro Esposito. A terra ci è rimasto anche lui, pestato per vendetta, ma con “solo” una gamba rotta. Entrambi in ospedale, lo stesso, ma solo uno in rischio di vita. È questo il vero atto da condannare, e si è fatto grottesco l’accanimento nei confronti della “carogna” con la sua vergognosa maglietta, che non ha sparato contro un uomo come ha fatto “Gastone”, vero colpevole lontano dalle telecamere e dal clamore mediatico.
Dobbiamo discutere alla stessa maniera del problema delle curve inquinate, delle società ostaggio degli ultras, delle rapine in serie ai calciatori del Napoli per ricattare De Laurentiis che non cedeva e della caccia al tifoso napoletano ormai troppo evidente. C’è un filo logico che unisce questi aspetti, e l’applicazione della discriminazione territoriale l’ha reso più evidente. Ormai il sistema è saltato, ma non da oggi, ed è tempo sprecato la ricerca delle responsabilità e delle attenuanti tra questa o quella tifoserie. Di sane non ce ne sono più. Le responsabilità arrivano da lontano e hanno radicato un modo di pensare e agire deviato che ha contagiato anche gli addetti ai lavori. Un esempio? La scorsa settimana, prima di Inter-Napoli, gli interisti avevano reclamato con un grosso striscione la loro importanza vitale sugli spalti. Due pagine di libro chiuse così: “È la tifoseria che fa diventare il calcio una cosa importante”. Era un ricatto a Lega e FIGC, bello e buono, al quale le istituzioni del calcio pure stanno. I tifosi portano abbonamenti alle tv e allo stadio e alimentano il merchandising, che è voce importantissima nei bilanci moderni dei club italiani, tutti dipendenti da banche o risorse esterne della proprietà (eccetto il Napoli). I conti sono diventati l’unica emergenza delle società italiane, e nel frattempo la qualità e la competitività se ne sono andate a farsi benedire. Il segno della sottomissione di alcuni club ai gruppi organizzati? Se da una parte i cori razzisti contro Napoli durante la stessa partita hanno poi fruttato una sanzione come da regolamento (2 giornate di chiusura della curva nerazzurra), dall’altra si prepara per giugno una revisione non ancora ben chiara delle punizioni. Chissà cosa ne verrà fuori, dopo 40 anni di impunità e uno solo di applicazione. Il problema è diventata la sanzione, non il reato (commesso anche dai tifosi della Fiorentina durante la finale di Coppa), e allora ci si è messo – e non da ora – anche il telecronista Mediaset Sandro Piccinini in telecronaca, subito dopo i cori, a dar ragione ai ricattatori e a chiedere libertà di “sfottere”, invece di condannare certi atteggiamenti. Il condizionamento parte dagli stessi club coinvolti, i quali, dalla loro posizione di ricattati, invece di lavorare al cambio di mentalità, sbertucciano la discriminazione territoriale, la quale viene contestata perché presta il fianco ai ricatti delle curve e le svuota per decisione dei loro capi. Il problema è tutto lì: la norma sulla discriminazione territoriale, fornendo agli ultrà un’ulteriore arma di ricatto, ha scoperchiato indirettamente un problema ben più ampio, o meglio, il vero problema da risolvere, che appresso si porta anche l’amplificazione del razzismo. Prima si saneranno le curve e prima guarirà il calcio. Ma è possibile guarire il calcio prima di aver guarito l’Italia?
Un passo indietro delle istituzioni è impensabile, sarebbe una sconfitta gravissima. Dovrebbero farlo i club, che con le curve hanno da tempo frequentazioni poco raccomandabili e per nulla educative. A costo, se proprio occorre, d’avere stadi semivuoti per un po’. Un mito del calcio italiano come Maldini ha lasciato l’attività tra i fischi dei suoi “tifosi”, coi quali non ha mai legato. I ricatti dei capiultrà del Milan colpivano Galliani, messo sotto scorta, e Paolo non ha mai avuto atteggiamenti accondiscendenti verso i gruppi del tifo organizzato rossonero che pretendevano biglietti e vario merchandising a prezzi più bassi per poi rivenderli all’interno della curva.
Prima della finale tra Napoli e Fiorentina l’inno nazionale è stato sonoramente fischiato, ma lo sarebbe stato anche senza quel che è accaduto. Nascondere il dissenso dietro gli eventi drammatici di ieri significa censurare un malessere che è anche tra i tifosi normali, che vanno allo stadio solo per coltivare la passione per la propria squadra dopo una settimana di malpagato lavoro, quando c’è. Il presidente del Consiglio, il presidente del Coni, il presidente della Lega e il presidente della FIGC erano tutti all’Olimpico, testimoni oculari dell’evidente fallimento di un calcio malato che è immagine riflessa di un Paese senza cultura e con troppa delinquenza. E nulla fa per curarsi seriamente. Gamer over, si fa per dire. La giostra ricomincia fino al prossimo stop.