Angelo Forgione – Dicono che il Mezzogiorno parassita ha votato per il reddito di cittadinanza. Letture semplicistiche, cariche di stereotipi, di chi non sa e non vuole andare al cuore delle questioni. Sì, certo, il cavallo di battaglia pentastellato ha indubbiamente suggestionato qualcuno, ma il voto ai 5 Stelle è arrivato anche da larghi settori della borghesia, da quelle famiglie che un’occupazione e un reddito sufficiente ce l’hanno. Il Mezzogiorno non è come lo raffigura certa stampa, così come il resto del Paese non è tutto razzista, perché così, alla rovescia, si potrebbe interpretare la crescita della Lega (Nord). Il 5 Stelle ha preso voti al Sud, al Centro e al Nord, altro che solo Meridione, ed è accaduto per i salvataggi alle banche (del Nord), per i criteri scellerati della “buona scuola” e per diversi altri buoni motivi offerti dal Partito Democratico. E se nelle regioni del Mezzogiorno ha fatto il pieno è perché lì è palpabile una condizione di regresso sempre più drammatico.
I dati Eurostat, l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea, sono a disposizione di tutti sul web e raccontano coi numeri perché il PD ha fallito soprattutto al Sud, nonostante Renzi e i suoi abbiano più volte annunciato la fine della Questione meridionale. Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Sardegna continuano ad essere tra le Regioni europee coi più alti tassi di disoccupazione, superiori almeno al doppio della media Ue. Basilicata, Molise e Abruzzo vanno leggermente meglio. La ricchezza pro-capite delle regioni del Mezzogiorno è inferiore del 30/40% della media Ue. Il dato inappelabile è che nell’ultima legislatura 2013-2017, tutta targata PD, i tassi di occupazione delle regione del Sud sono calati, mentre altrove sono rimasti più o meno stabili. La Calabria, la regione italiana con meno occupati, è piombata dal 44% al 36%. I dati SVIMEZ dicono che, nell’ultima legislatura, nel Sud sono diminuite le esportazioni, meno 9%, mentre il resto del Paese ha fornito un più 9%. È aumentata anche l’emigrazione, e fermiamoci qui.
Gli elettori non leggono i dati ma ascoltano il proprio umore prima di votare. I proclami non potevano bastare, tantomeno quelli di Renzi, tronfio nell’avvisare che il suo esecutivo si sarebbe ripreso il Sud “pezzo dopo pezzo”. Non gli era bastato che i suoi predecessori l’avessero smontato più di un secolo prima; lui era pronto a proseguire sulla stessa strada, a tagliare risorse e investimenti nel Mezzogiorno affinché restasse ancora colonia interna e mercato di sbocco della produzione settentrionale, e a nascondere il disastro certo nelle dichiarazioni di facciata. Il dramma è palpabile, lo avvertono addosso i meridionali, molto meno gli opinionisti e gli avversari politici che i dati avrebbero pure il dovere di divulgare.
La sconfitta del PD è soprattutto al Sud, dove il M5S ha sbancato non perché ha promesso assistenzialismo ma perché i governi Letta-Renzi-Gentiloni, come quelli precedenti, hanno fatto danni, e li hanno fatti perché non hanno capito che alla più antica ed esiziale delle questioni italiane, quella meridionale, era legata la possibilità che il Paese si rimettesse in moto davvero e che un ciclo politico potesse durare più di cinque anni. Il Presidente della Repubblica non può dare fiducia alla Lega (Nord), che per il Sud non ha alcun interesse e che, come recita il suo statuto, ha per finalità “il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”.
Una cosa è certa: chiunque governerà, ammesso che gli sia possibile farlo, dovrà capire che per non fare la stessa fine degli altri dovrà mettere mano alla Questione meridionale, l’unica via affinché l’intero Paese abbia un futuro.
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Se ne va Re Giorgio, garante dei poteri forti d’Europa
Angelo Forgione – Ha lasciato il Quirinale l’undicesimo Capo dello Stato, dal 1948 ad oggi. Otto anni e sette mesi, il periodo più lungo di presidenza, in cui la Costituzione del nostro Paese ha subito continui stravolgimenti e manomissioni. Giorgio Napolitano avrebbe dovuto essere il garante della Costituzione e invece ha avallato tutte le violazioni più gravi della sovranità del Parlamento, firmando una serie di leggi inique e decreti che sono stati annullati dalla Consulta perché evidentemente non costituzionali. È uscito più volte dal seminato del terreno costituzionale che aveva giurato di rispettare.
Nel nostro ordinamento, la figura del Capo dello Stato fu pensata dai padri costituenti come quella di un arbitro, di un soggetto estraneo alle sfide tra le forze politiche, in quanto supremo garante del funzionamento della democrazia parlamentare. Napolitano è invece intevenuto nel dibattito tra le forze democratiche del Paese, prendendo posizione nei confronti di questo e quel partito; ha agito da vero e proprio attore politico, condizionando pesantemente l’azione dei partiti in momenti delicatissimi in cui egli avrebbe dovuto attenersi al ruolo di silenzioso osservatore. Ha preso a riunire presso di sé i capigruppo della maggioranza, una prassi che nessun suo predecessore aveva mai adottato. Ha interagito direttamente con gli altri organi costituzionali a carattere decisionale (il Parlamento e l’Esecutivo) al fine di orientarne le scelte fondamentali, intimando loro l’adozione di precise scelte politiche attorno a questioni fondamentali in materia macroeconomica. E così ha decretato la fine del Governo Berlusconi e la successione a Palazzo Chigi, imponendo la formazione senza elezioni del Governo dei banchieri a guida Mario Monti (novembre 2011). Perché Napolitano non è stato supremo garante degli interessi del popolo italiano bensì il curatore degli interessi del capitalismo finanziario europeo e dei suoi organismi tecnocratici. Se l’Europa ci ha imposto serenamente stangate e austerità è grazie a Re Giorgio, che nel frattempo si aumentava lo stipendio. Il fallimento di Monti è stato surrogato dal Governo Letta, che ha fatto anche peggio del predecessore. Eppure Napolitano ha provato a tenerlo in piedi in ogni modo prima di affidare le redini dell’Esecutivo a Matteo Renzi. Tre governi non della Repubblica ma del Presidente. Dunque, la prassi di Napolitano suggerisce l’immagine di un Capo dello Stato che ha perseguito un indirizzo politico e, soprattutto, un preciso obiettivo sovranazionale con tutti i mezzi a sua disposizione. Tutto apparentemente normale, se non fosse che un Capo dello Stato non può avere indirizzi e obiettivi politici.
È importante sottolineare che, nell’arco di questi nove anni o quasi di presidenza, Napolitano si è reso protagonista della richiesta al C.S.M. della distruzione delle scottanti intercettazioni con Mancino che lo vedevano come (indiretto?) protagonista; ha intimato a Berlusconi (nel 2011) di dare il suo pieno avallo ai bombardamenti NATO sulla Libia di Gheddafi; ha condotto i festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia con una retorica stomachevole; non ha mai sollecitato delle politiche di riduzione del divario tra Nord e Sud del Paese; ha taciuto sul dramma della Terra dei Fuochi, lasciando senza risposte le mamme orfane dei loro figli, proprio lui che nel 1997, da ministro degli interni, aveva fatto secretare le dichiarazioni del pentito Carmine Schiavone.
Si chiude una brutta stagione. Il monarca stanco, forse il peggior Capo dello Stato che l’Italia abbia mai avuto, se ne va, lasciando il Paese sull’orlo del baratro.
Renzi e le sue contraddizioni
«La Germania ha unito Est e Ovest. Noi ancora burocraticamente borbonici»
Due settimane fa aveva elogiato il modello delle Due Sicilie.
Angelo Forgione – Ci ha messo dodici giorni il premier Matteo Renzi, trionfatore indiscusso delle votazioni europee, per cadere in contraddizione. Il 14 maggio era stato a Napoli, in prefettura, e si era riferito al modello borbonico delle Due Sicilie per il rilancio del Sud, seppur apparendo già contraddittorio rispetto ad alcune sue dichiarazioni del passato. Storico Matteo! Non lo aveva fatto nessun Primo Ministro o alta carica dello Stato in 153 anni di storia unitaria.
Durante la trasmissione Rai Porta a Porta del 26 maggio, Renzi, da forza emergente al tavolo dell’Unione Europea, ha parlato di rapporti tra Italia e Germania in chiave continentale, anticipando le sue intenzioni rispetto alla cancelliera Angela Merkel. Ed eccolo di nuovo giocare con le parole:
«Siamo in grado di andare dalla Merkel e dire “questa è la semplificazione della pubblica amministrazione italiana, che non può essere borbonica”?».
Certo, si tratta di uso di una parola sbattuta sul dizionario con l’accezione denigratoria della Storia del Sud che ormai non regge più, come da Renzi stesso evidenziato. E pure il suo predecessore Enrico Letta, nel corso del summit dei capi di Stato e di governo dell’Ue dello scorso ottobre, aveva affermato che «bisogna lavorare affinché l’Italia non sia guardata più come il Paese più burocratico e borbonico». Inutile – ma non lo è – ricordare ancora una volta che la burocrazia italiana è sabauda, non borbonica, e che sono stati i piemontesi a imporre e condurre la loro Italia, non i napoletani.
Renzi sia più fedele a quel che dice e non metta maschere diverse in base al palcoscenico che calca. Tanto più se cita l’esempio dell’unione tedesca, vera: «La Germania, negli anni Duemila, che cosa ha fatto? Ha fatto quello che noi non abbiamo fatto: ha fatto delle riforme strutturali per unificare Est e Ovest, investendo fortemente sul mercato del lavoro, e adesso è leader in Europa e fa registrale percentuali di crescita come nessun altro Paese».
Tutto giusto, tutto perfetto, a parole. Dunque, Renzi, ha la ricetta per unire l’Italia – ma non da oggi – e sa come cancellare il divario Nord-Sud, anche quello di stampo sabaudo, non borbonico. Se non lo farà, la colpa non sarà della Merkel.
tratto da Made in Naples (Magenes, 2013):
Sono stati i Savoia a governare l’Italia piemontesizzata per circa ottantacinque anni, non i Borbone. Dunque, può mai essere borbonico il retaggio governativo della Nazione italiana? La burocrazia italiana non è borbonica ma, semmai, figlia di quella sabauda e piemontese instaurata negli anni del Regno d’Italia, esasperata e finalizzata alla sparizione di soldi pubblici. Un modo d’intendere l’amministrazione statale da cui derivò una sfrenata “creatività” tributaria a Torino e la necessità di unirsi con chi aveva i conti in ordine e poche tasse. Perché, dopo il 1855, il Regno di Sardegna non compilò più il bilancio statale? Forse “per oscurare le informazioni”, come denunciò nel 1862 l’economista Giacomo Savarese. Fu questa l’origine del debito pubblico italiano, prettamente piemontese, come conferma la ricerca Un’Italia unificata? – Il Debito Sovrano e lo scetticismo degli investitori di Stéphanie Collet, pubblicata nel luglio 2012.
Premier Letta: «basta con l’Italia considerata Stato borbonico»
Angelo Forgione – Il presidente dei Consiglio Enrico Letta, in un incontro sulla semplificazione normativa nel programma del summit dei capi di Stato e di governo dell’Ue, ha affermato che «bisogna lavorare affinché l’Italia non sia guardata più come il Paese più burocratico e borbonico».
Un classico modo di comunicare con quell’aggettivo dall’accezione sbagliata e offensiva della Storia del Sud che ormai non regge più. Traggo dal “passepartout” Made in Naples la già pronta risposta:
Sono stati i Savoia a governare l’Italia piemontesizzata per circa ottantacinque anni, non i Borbone. Dunque, può mai essere borbonico il retaggio governativo della Nazione italiana? La burocrazia italiana non è borbonica ma, semmai, figlia di quella sabauda e piemontese instaurata negli anni del Regno d’Italia, esasperata e finalizzata alla sparizione di soldi pubblici. Un modo d’intendere l’amministrazione statale da cui derivò una sfrenata “creatività” tributaria a Torino e la necessità di unirsi con chi aveva i conti in ordine e poche tasse. Perché, dopo il 1855, il Regno di Sardegna non compilò più il bilancio statale? Forse “per oscurare le informazioni”, come denunciò nel 1862 l’economista Giacomo Savarese. Fu questa l’origine del debito pubblico italiano, prettamente piemontese, come conferma la ricerca Un’Italia unificata? – Il Debito Sovrano e lo scetticismo degli investitori di Stéphanie Collet, pubblicata nel luglio 2012.
Magari l’Italia fosse considerata borbonica all’estero! Avrebbe ancora il rispetto perduto e che è ancora vivo per Napoli nelle corti europee esistenti per le quali la città è vista ancora come una capitale, più capitale delle capitali d’Italia Torino, Firenze e Roma.
Chissà poi cosa pensano di certe affermazioni i colleghi spagnoli di Letta. A giudicare dai radiosi sorrisi dei Borbone-Spagna alla parola “napoletano” pronunciata da Riccardo Muti (clicca qui per vedere) nel corso della consegna del “Premios Príncipe de Asturias” a Oviedo, tutto questo sdegno proprio non si avverte.
Enrico Letta l’illuminato e quel dibattito meridionalista
Angelo Forgione – In un Paese dove ogni decisione è presa dall’alta politica e non dal popolo che non ha più il potere sovrano, il rieletto presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha incaricato il 46enne Enrico Letta a ricoprire il ruolo di premier. Il vicesegretario del Partito democratico, membro come Monti di Bilderberg e componente del comitato esecutivo dell’Aspen Institute Italia (un’organizzazione americana finanziata anche dalla Rockefeller Brothers Fund, che si pone come obiettivo quello di incoraggiare le leadership illuminate), ha accettato con riserva di formare un governo di larghe intese. E promette un esecutivo “di servizio” che dia risposta alle emergenze.
In occasione di questo incarico, propongo l’intervento di Letta durante la presentazione del libro Domani a Mezzogiorno di Gianni Pittella del 29 Aprile 2010. In un dibattito meridionalista (in cui partecipò anche Marco Esposito, attuale assessore allo sviluppo del Comune di Napoli), il neo-presidente del Consiglio snocciolò le sue idee sul Sud arretrato che necessita di una classe dirigente adeguata. Concordo… sulle chiacchiere. Perchè tali restano, insieme a tutti i bei discorsi.
Per ascoltare, cliccare qui e premere il tasto play sul quinto intervento