Il Governo non vede i vantaggi di localizzazione calcistica

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Angelo Forgione Sul tavolo del Governo vi è da qualche mese il cosiddetto “Decreto crescita”, una proposta di legge per provare a contrastare il fenomeno della fuga dei cervelli e incentivare l’occupazione in Italia. Come? Tassazione agevolata per chi accoglie lavoratori che scelgono il nostro paese dopo due anni di lavoro contrattualizzato all’estero. “Bonus” fiscale fissato al 70% per chi verrà nel nostro Centro-Nord e al 90% per chi sceglierà le più depresse regioni del Mezzogiorno. Incentivo opportunamente calcolato tenendo conto delle sperequazioni economiche del Paese, dunque, ma poi altolà, qualcuno ha pensato che il decreto potesse agevolare il Sud sotto il profilo sportivo. Già, perché le società sportive italiane avrebbero avuto diritto, per i trasferimenti di calciatori in entrata dall’estero, ad un considerevole sconto sula tassazione dei nuovi contratti firmati, e quelle del Sud in misura maggiore. E allora si è deciso di unificare l’Italia, almeno nel calcio, creando un doppio binario con un emendamento chirurgico: vantaggio fiscale più alto per le imprese ddel Sud rispetto a quelle del Nord in tutti i settori tranne uno, lo sport professionistico, dove sarà uguale per tutti e ridotto al 50%; come se una ditta che produce conserve di pomodoro e una che produce calcio operino in due territori diversi.
In Parlamento qualcuno l’ha definita “norma anti Napoli”, perché è chiaro che la modifica nasca per non concedere un vantaggio fiscale più alto al Napoli, l’unica società dello svantaggiato Sud a contrastare quelle del più ricco Nord e pronta a contendergli qualche grande calciatore. I grandi club settentrionali hanno storto il naso e Sandro Sabatini, tra i volti più noti di Mediaset, ha manifestato il suo disappunto: “ingiusto offrire un vantaggio alle squadre del Sud. Il Napoli potrebbe approfittarne”. Approfittarne, non beneficiarne, e la differenza è sostanziale, anche per Cagliari e Lecce, restando alla sola Serie A. 3 club su 20, e già nei numeri si capisce che il calcio meridionale non equivale a quello del resto del Paese.

Io che ho scritto un libro sulla Questione meridionale nel calcio (‘Dov’è la Vittoria’, Magenes) posso solo rabbrividire di fronte a un Governo che accoglie le richieste di chi teme un vantaggio per il Calcio Napoli e lo vuole differenziare da un’azienda che produce merci e servizi perché produce spettacolo sportivo. Va bene ridurre il “bonus” per il calcio, che è settore di altissimi fatturati, ma non va assolutamente bene far finta che le condizioni in cui operano i football club siano uguali per tutti. Esistono dei “vantaggi di localizzazione” a favore delle società del Nord, derivanti dall’ubicazione geografica, che si traducono in maggiore competitività, ma qualcuno fa finta di non riconoscerli. E sono esattamente questi “vantaggi di localizzazione” ad aver generato fenomeni di concentrazione e polarizzazione a favore delle “grandi del Nord”.

Se volessimo fare un esempio pratico per spiegare le differenze tra Nord e Sud del calcio, e cosa significano i “vantaggi di localizzazione”, basta confrontare le città di Napoli e Torino, popolate più o meno in egual misura. Quando, nel 1986, la macchina organizzativa del Mondiale di Italia ‘90 si mise in moto, a Napoli si giocava allo stadio San Paolo e a Torino al Comunale. Il primo fu rovinosamente rimodernato e il secondo fu scalzato dalla costruzione del nuovo Delle Alpi in un’altra zona della città. Mentre lo stadio napoletano degradava velocemente e sempre più, le Olimpiadi Invernali di Torino 2006 fornivano l’occasione per rifare il vecchio Comunale, che sarebbe diventato lo stadio del Torino. La Juventus, forte di un’egemonia Fiat sulla città e sulle politiche industriali d’Italia che il Napoli non ha mai avuto, riusciva a ottenere nel 2008 la concessione a prezzi di estremo favore dei terreni dove sorgeva il Delle Alpi, per demolirlo e sostituirlo col modernissimo Juventus Stadium di proprietà. Risultato: in un ventennio, Napoli ha visto il suo tempio del Calcio divorare enormi risorse comunali per la manutenzione ordinaria e straordinaria, sempre al limite dell’agibilità e della fruibilità, con la SSC Napoli a compartecipare alle spese di gestione. Nello stesso ventennio, Torino ha visto sorgere di fatto tre stadi nuovi, e se n’è ritrovati due di Categoria 4 UEFA, quella di maggior livello tecnico, per le squadre cittadine, una delle quali (la più potente) ha tratto dal suo stadio un sensibile aumento di fatturato.

Se il mio parallelo non bastasse, viene a supporto il rigore scientifico dei docenti universitari con i loro studi tematici. Nell’indagine ‘Il business del Calcio – Successi sportivi e rovesci finanziari’ (Egea, Milano), un’analisi condotta dai docenti universitari Umberto Lago, Alessandro Baroncelli e Stefan Szymanski, è evidenziato un effettivo vantaggio competitivo derivante proprio dalla diversa localizzazione tra squadre del Nord e del Sud.
E ancora, lo studio ‘Localizzazione geografica e performance sportiva: una analisi empirica sulla Serie A’ (Rivista di Diritto ed Economia dello Sport, vol. IV – n.3) del professor Marco Di Domizio, ricercatore di Economia politica dell’Università degli Studi di Teramo, ha rapportato l’ubicazione geografica e le prestazioni sportive delle principali squadre italiane sulla base dell’intero arco temporale dei tornei a girone unico, inaugurati nel 1929, con l’intento di valutare l’incidenza dei fattori geografici ed economici sui risultati osservati. Lo studio ha evidenziato che i risultati complessivi del Napoli (ma anche quelli di Roma e Fiorentina) sono a tutti gli effetti da considerarsi a livello di quelli di Inter e Milan, più vicini a quelli della Juventus di quanto non dica la differenza di scudetti in bacheca, e nettamente superiori a quelli di Torino, Sampdoria e Bologna, tre società che non sono riuscite a sfruttare le potenzialità economiche del proprio territorio.

Ma c’è davvero bisogno di chiamare in causa gli analisti universitari per dimostrare che il Nord è storicamente e geograficamente avvantaggiato anche nel calcio? Su 115 scudetti solo 3 sono finiti in due città, Napoli e Cagliari, con svantaggi territoriali marcati, tutti supportati dalla politica democristiana e uno, quello del Cagliari, addirittura anche dai capitali dell’imprenditoria lombarda. Il rapporto degli scudetti vinti è impietoso come lo è anche la presenza storica del Sud in Seria A, che non raggiunge il 20%, a fronte di una percentuale demografica della popolazione meridionale sempre bilanciata a quella del resto del Paese. E contando i comuni che sono riusciti ad approdare almeno una volta in Massima Serie dal primo campionato con squadre del Nord e del Sud riunite in un unico torneo (1926-27) a oggi, se ne contano 43 settentrionali e 17 meridionali (rapporto approssimativo: 2,5 a 1). Manca all’appello Taranto, sesta città del Mezzogiorno e sedicesima d’Italia, così come anche capoluoghi di regione come L’Aquila, Campobasso e Potenza.
La maggiore agevolazione fiscale ai club del Sud avrebbe potuto aiutare il calcio meridionale a crescere, così come negli intenti del decreto stesso, volto a incentivare l’occupazione nel Sud in proporzione al più sviluppato Nord.

Ma fa davvero sorridere la volontà di considerare il Sud del calcio uguale al Nord. Fu ghettizzato per un trentennio al principio, dal 1898 al 1926, vietandogli di misurarsi direttamente con il calcio settentrionale. E quando il Coni fascista impose alla FIGC di includere nel campionato nazionale tre squadre centro-meridionali, il Napoli e le due romane che poi fondendosi l’anno seguente avrebbero dato vita alla Roma, i sodalizi del Nord pure protestarono, riunendosi più volte a Genova, Torino e Milano per far valere la tesi che i tre posti spettassero a squadre settentrionali. Qualcuno dirà che è passato un secolo, ignorando che in questo secolo il divario Nord-Sud non è stato annullato, neanche nel calcio, che è emanazione riflessa del Paese. Ma il Napoli, prodigiosamente competitivo in questo scenario, fa paura, e non è il caso di avvantaggiarlo fiscalmente. E allora via alla “norma anti Napoli”, con l’alibi che il calcio non sia soggetto a differenze territoriali e che le diverse economie dei territori in cui operano i club non influiscano sui destini della loro vita sportiva, agevolata o penalizzata a seconda che si trovino in una zona opulenta o depressa.

Il PD ha affossato il Mezzogiorno

Angelo Forgione Dicono che il Mezzogiorno parassita ha votato per il reddito di cittadinanza. Letture semplicistiche, cariche di stereotipi, di chi non sa e non vuole andare al cuore delle questioni. Sì, certo, il cavallo di battaglia pentastellato ha indubbiamente suggestionato qualcuno, ma il voto ai 5 Stelle è arrivato anche da larghi settori della borghesia, da quelle famiglie che un’occupazione e un reddito sufficiente ce l’hanno. Il Mezzogiorno non è come lo raffigura certa stampa, così come il resto del Paese non è tutto razzista, perché così, alla rovescia, si potrebbe interpretare la crescita della Lega (Nord). Il 5 Stelle ha preso voti al Sud, al Centro e al Nord, altro che solo Meridione, ed è accaduto per i salvataggi alle banche (del Nord), per i criteri scellerati della “buona scuola” e per diversi altri buoni motivi offerti dal Partito Democratico. E se nelle regioni del Mezzogiorno ha fatto il pieno è perché lì è palpabile una condizione di regresso sempre più drammatico.
I dati Eurostat, l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea, sono a disposizione di tutti sul web e raccontano coi numeri perché il PD ha fallito soprattutto al Sud, nonostante Renzi e i suoi abbiano più volte annunciato la fine della Questione meridionale. Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Sardegna continuano ad essere tra le Regioni europee coi più alti tassi di disoccupazione, superiori almeno al doppio della media Ue. Basilicata, Molise e Abruzzo vanno leggermente meglio. La ricchezza pro-capite delle regioni del Mezzogiorno è inferiore del 30/40% della media Ue. Il dato inappelabile è che nell’ultima legislatura 2013-2017, tutta targata PD, i tassi di occupazione delle regione del Sud sono calati, mentre altrove sono rimasti più o meno stabili. La Calabria, la regione italiana con meno occupati, è piombata dal 44% al 36%. I dati SVIMEZ dicono che, nell’ultima legislatura, nel Sud sono diminuite le esportazioni, meno 9%, mentre il resto del Paese ha fornito un più 9%. È aumentata anche l’emigrazione, e fermiamoci qui.
Gli elettori non leggono i dati ma ascoltano il proprio umore prima di votare. I proclami non potevano bastare, tantomeno quelli di Renzi, tronfio nell’avvisare che il suo esecutivo si sarebbe ripreso il Sud “pezzo dopo pezzo”. Non gli era bastato che i suoi predecessori l’avessero smontato più di un secolo prima; lui era pronto a proseguire sulla stessa strada, a tagliare risorse e investimenti nel Mezzogiorno affinché restasse ancora colonia interna e mercato di sbocco della produzione settentrionale, e a nascondere il disastro certo nelle dichiarazioni di facciata. Il dramma è palpabile, lo avvertono addosso i meridionali, molto meno gli opinionisti e gli avversari politici che i dati avrebbero pure il dovere di divulgare.
La sconfitta del PD è soprattutto al Sud, dove il M5S ha sbancato non perché ha promesso assistenzialismo ma perché i governi Letta-Renzi-Gentiloni, come quelli precedenti, hanno fatto danni, e li hanno fatti perché non hanno capito che alla più antica ed esiziale delle questioni italiane, quella meridionale, era legata la possibilità che il Paese si rimettesse in moto davvero e che un ciclo politico potesse durare più di cinque anni. Il Presidente della Repubblica non può dare fiducia alla Lega (Nord), che per il Sud non ha alcun interesse e che, come recita il suo statuto, ha per finalità “il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”.
Una cosa è certa: chiunque governerà, ammesso che gli sia possibile farlo, dovrà capire che per non fare la stessa fine degli altri dovrà mettere mano alla Questione meridionale, l’unica via affinché l’intero Paese abbia un futuro.

Napoli fannullona? Anche Lavezzi ci casca.

Napoli fannullona? Anche Lavezzi ci casca.
ora è ufficiale, l’argentino si è perfettamente ambientato in Italia

Angelo Forgione – Gaffe innocente di Lavezzi nel dopopartita di Manchester-Napoli di Champions League che non è passata inosservata neanche a qualche quotidiano nazionale del nord. Intervistato da SKY, il campione argentino ha chiuso il suo intervento con una battuta certamente innocente ma figlia di un luogo comune ampiamente analizzato nei giorni scorsi (link in basso).
Dopo la splendida prestazione degli azzurri, Fabio Caressa dallo studio gli ha domandato se fosse cosciente che a Capodichino avrebbero trovato i Napoletani ad accogliere la squadra e la risposta, accompagnata da un sorriso sornione, è stata: «Non penso, la gente a Napoli lavora!». Subito sono scoppiate le fragorose risate di Ancelotti, Vialli, Rossi e dello stesso Caressa che poi sottolineava la battuta sdrammatizzandola con un «non se la prenderanno naturalmente (i Napoletani)… detta dal pocho…»
Purtroppo l’argentino del Napoli, magari infastidito dall’assedio dei tifosi in Via dei Mille di qualche giorno fa in pieno giorno (a proposito, ma quando capiremo che i giocatori sono uomini come gli altri?), non si è calato nella realtà identitaria di una Napoli che cerca di combattere gli stereotipi ma è vittima, non per sue colpe, della realtà italiana fatta di pregiudizi e luoghi comuni verso la totalità della gente che lui stesso rappresenta. Tuttavia, pur nella goliardia del siparietto, passa un messaggio negativo perchè trattasi di una battuta pronunciata da uno che a Napoli vive e che non è Napoletano, e per questo viene preso indirettamente sul serio. Lavezzi non si rende conto del danno d’immagine che arreca alla gente di cui difende i colori; ma non se ne può fargliene certo una colpa, anzi, va compreso.
Ritornano però in mente le “bacchettate” di De Laurentiis che alla vigilia della stagione ha indirizzato al suo calciatore la frase «Lavezzi faccia più il Napoletano e meno l’argentino», invitandolo a lavorare di più e ad evitare di tirar tardi la notte.
Certo, sono lontani i tempi di quell’altro argentino chiamato “sudaca” a Barcellona che non accettò i luoghi comuni contro i Napoletani. Quell’argentino si oppose al sistema come sempre nella sua vita per difendere, in ogni modo e finchè li ha rappresentati, anche i “suoi” Napoletani. E pagò pure quello.
Inutile evidenziare che i soliti buontemponi di turno hanno subito strumentalizzato la battuta di Lavezzi con titoli del tipo “anche Lavezzi prende per il culo i Napoletani”. Così come è inutile dire che stamane Napoli era già dalle primissime ore ingolfata dal solito intenso traffico quotidiano, e non si trattava certo di gente che tornava da Capodichino.
Per far festa al lavoro ci sarà tempo Lunedì 19, festività patronale di San Gennaro, almeno per l’ultima volta. Sperando che le cose vadano bene Domenica sera per il Napoli contro il Milan. Allora si che ci si potrà permettere di distrarsi per il Napoli senza il timore che qualcuno rida.

Spot e slogan su Napoli fannullona che non c’è

Approfondimenti

UN DISCORSO NAPOLITANO – Analisi del discorso del Presidente della Repubblica

UN DISCORSO NAPOLITANO,
l’analisi del discorso del Presidente della Repubblica

Il tradizionale discorso di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ad aprire l’anno delle celebrazioni dei 150 anni d’unità d’Italia, non può non incentrarsi sui valori dello stato unitario. Ma il discorso è fortemente contraddittorio poichè da una parte pone l’accento sulla reale spaccatura sociale ed economica tra nord e sud di un paese comunque in grosse difficoltà, e dall’altra spinge per delle celebrazioni definite “non retoriche” ma che invece continuano a non restituire la verità sulle vicende che portarono all’unificazione ed appaiono prive di significato, alla luce di una compattezza reale che non solo non c’è mai stata ma che è tutt’altro che vicina.