Treccani: il “sarrismo” non è più napoletano

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Angelo Forgione Un po’ di correttezza linguistica: i neologismi “sarrismo” e “sarrista” di Treccani non hanno più attinenza con l’identità napoletana.
Ho suggerito all’Istituto enciclopedico di rivedere le due voci per opportunità ormai conclamata dopo l’ammissione di Maurizio Sarri di sentirsi ormai “Gobbo”, ovvero parte integrante dell’identità juventina perché i napoletani lo hanno fischiato e i fiorentini hanno insultato sua madre («e quando sei così odiato dall’esterno poi ti attacchi all’interno, e questo ti porta a innamorarti della tua realtà, a diventare Gobbo»).


Lo stesso Istituto, lo scorso giugno, ovvero al passaggio di Sarri dal Chelsea alla Juventus, mi aveva notificato che l’identità napoletana incarnata nell’allenatore era “un elemento tuttora ben presente nella memoria collettiva, perlomeno in quella degli appassionati di calcio” ma che “il giorno in cui i lessicografi percepiranno che in tale memoria si è allentato il legame tra il segno linguistico e la parte di significato pertinente alla realtà locale napoletana, allora – secondo noi – sarà lecito riflettere sull’opportunità di modificare la definizione” (quella stessa sera ne nacque una
polemica televisiva tra me e Mughini, ndr).
Con un Sarri che si è detto legato alla juventinità di parte era ormai opportuno asciugarne il credo calcistico sradicandolo dall’identità di un popolo che è agli antipodi da chi si definisce “Gobbo”. La Sacra Rota ha definitivamente annullato il matrimonio. Amen!

Intervento a Radio Marte sulla vicenda: https://fb.watch/j2Q2ECdFXw/

Mughini, si informi!


Angelo Forgione 
Ospite dello speciale “C’era una volta il Sarrismo” (Canale 21) dal lungomare di Napoli, sto commentando la presentazione di Sarri alla Juventus quando Giampiero Mughini, dallo studio di Agnano, decide di entrarmi a gamba tesa, visibilmente irritato dalla lettura del mio scritto di commento alle (ipocrite) parole del nuovo allenatore bianconero. Un passaggio lo ha sconquassato, ovvero quello in cui è scritto “nessuno però ha chiesto a Sarri come si sente ad essere l’allenatore di una squadra che impoverisce il sistema”.

Non sa, Mughini, che la paternità della definizione non è mia ma di Maurizio Sarri in persona, pronunciata in conferenza stampa nel post Fiorentina-Napoli, match dello “scudetto perso in albergo”, riferita all’ininterrotta sequela di tricolori bianconeri che fa male a tutto il calcio italiano.

La ritiene, il disinformato Mughini, una mia «pagliacciata», e allora non vede l’ora di cogliermi in castagna. ‪Netta la sensazione che in passato abbia già letto qualcosa su di lui scritto da me quando chiede a Titti Improta se io sia Angelo Forgione. Riceve conferma e crede di farsi giustizia. ‬Gli andrà molto male.

Il canuto juventino scatta con la solita arroganza a base di urla e sbraiti, tra cui faticosamente gli arriva alle orecchie la mia risposta: «L’ha detto Sarri, non l’ho detto io. Mughini, Lei è disinformato!». E allora il catanese rinnegato la gira sull’opportunità, cioè sulla necessità da parte di Sarri di non ripetere una simile affermazione in casa Juve, che poi è esattamente quello che ho evidenziato ironicamente nel mio post.

Sono tra gente che cena e si volta capendo che sta accadendo qualcosa. Mi preoccupo di non disturbare e cerco di tenere i toni bassi, per quanto possibile, mentre il mio interlocutore, che sento ma non vedo, la butta in caciara. Svantaggiato dalla mancata sincronizzazione audio rispetto a quanto arriva dallo studio, ammonisco Mughini della sua incoerenza, di cui è maestro, ricordandogli che lui è la stessa persona che da una parte ha rimproverato ai napoletani di non tifare per la Juventus in Europa perché non si sentono italiani e dall’altra si è dichiarato uno sfortunato catanese che purtroppo non è nato a Parigi.

Più irritato che mai, colpito al centro, il mancato francese, mi dà del “pagliaccio”, anzi, «pagliaccio che non sa niente», incrociando le braccia in atteggiamento di difesa. Ed è lì che prende il colpo in pieno volto, realizzando che la frase incriminata è di Sarri, non di Forgione.
Risposta: «Non sapevo che Sarri avesse detto una tale cretineria. Non immaginavo possibile che avesse detto una tale cretineria». E chissà se il gran tifoso juventino ha capito che fariseo è l’allenatore che si è messo in casa la sua Juve.
Braccia aperte e la resa: «Le chiedo scusa, Angelo». Mughini in silenzio.

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Sarri al potere, il colpo è gobbo

Angelo Forgione per Vesuvio Live – E venne il gran giorno: Maurizio Sarri ha fatto ingresso a “palazzo”, entrandovi senza ariete, senza sfondare portoni o finestre ma calcando sorridente il tappeto rosso srotolatogli sotto i piedi. Doveva fare il colpo di stato e ora sarà egli stesso lo stato. Rischiò di essere la rivoluzione napoletana del calcio italiano e ora sarà la rivoluzione interna alla Juventus.
Benservito e cordiali saluti di facciata al pluriscudettato Allegri per virare sull’opposta filosofia, proprio quella che aveva provocato una crisi di nervi al licenziato. «Lo spettacolo, al circo», ammonì il defenestrato, ed ecco spuntare proprio il tendone a strisce bianconere, in attesa di capire se spettacolo sarà e se Champions finalmente arriverà.

Sarri al posto di Allegri è un guanto completamente rivoltato, e che lo si rovesci ora, a distanze dal Napoli aumentate, è ammissione implicita di uno scudetto immeritato, quello del 2018, anno di una rivoluzione azzurra riuscita sul campo e sventata fuori.

Ora che Sarri è alla corte di Andrea Agnelli sarebbe inelegante parlarne in termini diversi, quantunque ci abbia già pensato lui stesso a farlo, mostrandosi controfigura di quel che fu sulle pagine di Vanity Fair: «Il “sarrismo” è un modo di giocare a calcio e basta». E basta?

Così il tecnico di Figline Valdarno, nonostante le dediche europee ai napoletani, ne ha preso le distanze e recintato la fecondazione del “sarrismo” a una vicenda del tutto personale, attribuendone la nascita esclusivamente alle sconfitte e agli schiaffi presi, a prescindere dall’ambiente in cui è stata sublimata la sua idea di calcio. Vero è che Sarri si è fatto caparbiamente da sé, ma nessun suffisso era mai stato agganciato al nome di un allenatore italiano, neanche di quelli più vincenti della nostra storia. Se è accaduto con Sarri è perché Sarri, che nulla aveva vinto, ha esaltato il Napoli e Napoli ha esaltato Sarri. “Sarrismo” e “sarristi” sono sbocciati a Napoli, dopo una lunga e impervia gavetta dell’allenatore in giro per l’Italia.

Il fatto è che il mister ha preso le distanze anche dai linguisti della Treccani, che il neologismo l’hanno sdoganato sul loro dizionario di lingua italiana. Non lo avrebbero fatto se l’accezione non fosse ampiamente condivisa da Bolzano a Pantelleria. Lungo lo Stivale, tutti hanno ammirato e lodato la fantastica storia di Sarri a Napoli, quella di un pifferaio che scacciò i topi al suono del suo strumento magico mentre la folla lo portava in trionfo. Là, dove l’estetica concessa anche nella provincia empolese beneficiò dell’afflato partenopeo, del sostegno di un popolo che creò il personaggio. I napoletani gli infilarono i panni del condottiero, e a lui piacquero tantissimo.

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Sarri e le sue idee esistevano prima del loro travaso in quel fecondo bacile che è Napoli, dove fiorì il “sarrismo”, e perciò quelli della Treccani l’hanno sintetizzato per estensione ne “l’interpretazione della personalità di Sarri come espressione sanguigna dell’anima popolare della città di Napoli e del suo tifo“. Tanto vale pure per l’aggettivo “sarrista”, ovvero “chi vede nella figura di Sarri l’espressione sanguigna della passione dei tifosi napoletani”.

Anche se Sarri minimizza il neologismo per non estenderne il significato al mondo al di fuori di sé, il “sarrismo” è nato in quanto sintesi di una personalità calzata alla napoletanità, in quanto filosofia di un genio consacrata da un ambiente a lui congeniale. E i “sarristi” si sono moltiplicati perché esiste la smisurata passione calcistica napoletana, totalmente riflessa nella squadra della città più identitaria d’Italia.

Non Sarri ma la sua emanazione in un luogo preciso ha conquistato un posticino nella terminologia della lingua italiana. Nella Treccani è entrato un sostantivo, non un nome. Vi è entrato Sarri a braccetto con la gente di Napoli, non da solo. È accaduto nel settembre 2018, ad avventura finita, consegnata alla storia del calcio italiano, quando Maurizio era ormai a Londra, e nessun linguista, in questi nove mesi inglesi, è tornato sul significato dei due nuovi lemmi, perché il Sarri-ball londinese non era in antitesi e conflitto con il “sarrismo”. Il Sarri juventino sì, e depaupera automaticamente l’essenza semantica del neologismo, esattamente come ha fatto lo stesso Sarri riducendolo a solo gioco, così privandolo della sua grande forza: l’identità.

Il “sarrismo” puro è legato a una tifoseria omogenea che parla un solo dialetto ed è in cerca di una rivincita sportiva contro il Nord egemone e predone, e non può rifiorire con una tifoseria eterogenea che non ha polis e non è popolo, che non deve ribaltare nulla (in Italia) ma ha solo da mantenere lostatus quo. Il “sarrismo” che fu si annacqua e qui finisce, restando parola svuotata del suo intrinseco significato.

Sarri è pronto anche a spogliarsi della tuta, se dovessero vietargliela a corte, e a passare dal sarto a farsi prendere le misure per un nobile vestito. È il proletario che diventa dirigente. È il sindacalista che passa dalla difesa dei diritti dei lavoratori alla protezione degli interessi degli imprenditori. È l’anima popolare che lascia il posto all’aristocrazia del “palazzo”.

Sbaglia chi pensa che Sarri abbia tradito oggi. L’infedeltà è d’altri tempi, quelli in cui al Napoli era sposato e flirtava con il Chelsea nel bel mezzo del tentativo di golpe. Proclamò l’intenzione legittima di arricchirsi, ma attese l’abbraccio inglese perché in fondo il matrimonio non funzionava più come al principio. Mise il Napoli a bagnomaria, nascondendosi dietro l’amore dei tifosi e usandolo contro De Laurentiis. La voglia di separarsi chiara nelle dichiarazioni all’insegna del “ti lascio perché ti amo troppo“, cavalcando e acuendo il malcontento di parte della tifoseria verso un presidente spazientito che finì per lasciarlo per non rischiare di essere lasciato.

Oggi Sarri si appella alla sua professionalità, e non fa una piega per uno che ha imparato a fare egregiamente il suo lavoro e pure i suoi interessi. Perché mai avrebbe dovuto dire no alla Juventus? Quella è roba forte da veri revolucionari con gli attributi per dire «mai nessuno in Italia dopo il Napoli». Ma qui non si tratta di discutere il professionista quanto la persona, quella cui piacque prendere il comando di un popolo contro il potere d’Italia e ora ha preso il potere con l’alibi dell’umana nostalgia per l’Italia; non riesce più a stare lontano dagli affetti, e se gli si crede non si può pretendere che si autocondanni all’esilio.

È il professionismo ultraflessibile del dorato calcio a tirare strani scherzi al destino e al cuore dei più romantici appassionati. Difficile accettare di trovarsi contro chi ha ammiccato in modo spinto, quantunque credibile, alle lusinghe di una città storicamente mal abituata ad aggrapparsi a capipopolo e comandanti. Difficile digerire di vedere nella trincea nemica chi si schierò per la causa del popolo azzurro, chi evidenziò l’ipocrisia di un mondo del calcio sensibile al razzismo contro i neri e sordo alle violenze verbali contro i napoletani. Chissà come si comporterà quando, dall’altra parte della barricata, si leveranno le più classiche esortazioni al Vesuvio.

Che Sarri fosse un professionista bisognava capirlo quando strizzò l’occhio ad Abramovich. Bisognava capirlo quando fu l’unico ad abbracciare «come un figlio che ti ha fatto incazzare ferocemente per una scelta inaspettata e discutibile» l’inviso Higuain, mentre l’argentino neanche andava a salutare gli ex-compagni negli spogliatoi. Bisognava capire che Sarri era un professionista maniacale quando, concentratissimo su una partita ininfluente, non concesse a Maggio la dovuta passerella d’addio, lasciando che il suo commiato si consumasse mestamente fuori dal campo di gioco, a bocce ferme.

Ora che ha finalmente vinto qualcosa d’importante, Sarri piace ai vertici juventini, ma non a molti tifosi juventini, che hanno intercettato la dedica della vittoria ai tifosi napoletani. L’ex Comandante ha strizzato l’occhio al popolo azzurro persino a Baku, che poi è città gemellata con Napoli. Dal Tirreno al Caspio, l’onda lunga delle parole al miele fino al confine d’Europa, sgradite a chi vuole arrivare fino alla fine della Champions e ha messo nel conto le troppe frasi contro il potere bianconero, a strisce come le maglie che Sarri suggeriva ironicamente di cambiare al Napoli pur di ottenere un qualche rigore. Quel dito medio alzato a chi sputò al torpedone azzurro in arrivo allo Stadium, con tanto di volontà di scendere a menare le mani, se solo avesse potuto farlo. Gli striscioni d’amore azzurro intenso che fecero del Sarri fin qui quel che solo Maradona per sempre sarà.

Non hanno gradito, gli appassionati bianconeri, neanche le distanze prese dal concetto di vittoria ad ogni costo. “Dove pensa di essere questo filosofo del bel gioco?“, si chiedono ora gli adepti dell’avido pragmatismo juventino.

Sarri alla Juventus mette miracolosamente d’accordo tutti, napoletani e juventini con le rispettive delusioni, almeno al principio di questo nuovo matrimonio che impone alla nuova sposa di difenderlo dai nuovi parenti, come fatto con Allegri al principio. Sarri alla Juventus, via Londra, dopo il viaggio diretto di Giuda Higuain, con tutte le reazioni suscitate, è de facto la consacrazione di una rivalità reciproca, non unilaterale, come fa intendere il proverbiale snobbismo di parte bianconera.

«Il tifo è una cosa e la professione un’altra». Lo dice opportunamente Sarri, ora che, da tifoso di Napoli e Fiorentina, visceralmente antijuventino al quadrato, va ad allenare la squadra più detestata. A Napoli gli riuscì naturale coniugare tifo e professione ma a Torino dovrà prodursi in grandi equilibrismi. Pazienza, è la carriera, e lui ha tutto il diritto di scegliersi il posto di lavoro che crede, di arricchirsi sempre più. Dice che i napoletani sanno benissimo quanto amore prova per loro, ma saprà altrettanto bene che l’amore, autentico o no che sia, si fa in due, e che questo finisce evidentemente qui, perché i tifosi fanno tifo, non carriera.

Arrivederci in campo e niente drammi, l’abitudine agli sgarbi e all’imponderabile è fatta. Del resto, in un’Italia che ha visto la Lega Lombarda, poi Lega Nord, ora Lega e basta imporsi al Sud, non c’è da sorprendersi per un golpista che il colpo l’ha fatto davvero, sì, ma gobbo.

Ancelotti e la forza delle idee

Angelo Forgione – Io proprio non capisco che senso ha rimpiangere ancora il sarrismo nel Napoli di oggi. In troppi ancora non si sono affrancati dal dolcissimo ricordo della somma estetica e dei 91 punti. È come aver iniziato una nuova storia d’amore e pensare continuamente all’ex, che poi ci ha lasciato dopo una lunga pausa di riflessione.
Se l’intenzione era quella di allungare il filone, meglio ingaggiare Giampaolo, che è discepolo del “comandante” e non è Ancelotti, il quale ha la sua precisa idea di calcio e il suo nobile pedigree, e ce la sta mettendo tutta per far funzionare le cose alla sua maniera. L’intenzione, ovviamente, era ben altra!
Insigne al centro(destra) era una bestemmia per Sarri, che di Lorenzo apprezzava le assistenze ma non troppo la scarsa percentuale realizzativa. Hamsik in regia davanti la difesa, neutralizzandone gli inserimenti per sguinzagliare Zielinski sulla trequarti, era altra bestemmia. Roba impensabile per il credo passato, come pure il cambio di modulo in corsa e le rotazioni della rosa. E poi le aperture lunghe e, soprattutto, le verticalizzazioni da applicare al fraseggio. Una vera rivoluzione in atto. Meno spettacolo in cambio di più soluzioni, perché se una partita non la riesci a sbloccare in un modo – cosa avvenuta in passato – puoi provare a riuscirvi in un altro. E infatti il gol alla Fiorentina, prezioso e benefico, è venuto dall’unica verticalizzazione concessa dai viola, sull’asse di tre uomini nei panni mai vestiti dagli stessi con Sarri: Hamsik regista, Milik rifinitore e Insigne terminale offensivo. Tutto in verticale… quando si dice “la forza delle idee”.
È un altro Napoli, pur non abiurando il vecchio schema, che da dogma è diventato opzione, e i suoi assimilati movimenti. Il gioco continua a non rinunciare al controllo della palla e al recupero alto del possesso. Q
uel che invece la squadra di Ancelotti sta abiurando sono la rigidità e l’integralismo, imparando a fare cose diverse, a diversificare uomini, ruoli e disposizioni. È una fase di trasformazione profonda, lunga, ma in fieri. Le prime due partite sono state vinte sfruttando con intelligenza gli automatismi lubrificati nei tre anni del tiki-taka sarrista, in attesa di iniziare ad applicare le introduzioni, costasse anche qualche passo falso.
Sui cancelli di Castelvolturno è scritto il più classico dei “work in progress”, e in queste situazioni il risultato in termini di classifica non è per niente garantito, anzi. Eppure i 9 punti su 12, pur con un calendario ostico al via e mentre le dirette concorrenti non decollano, fanno pensare che la strada è quella giusta, e prima sarà sradicato da questo Napoli l’idea dell’antico amore e meglio sarà per tutti. State certi che i calciatori azzurri l’hanno già fatto, e da tempo. Loro sono i primi a voler dimostrare di poter fare ottime cose anche con un altro allenatore e un altro metodo. Chi vivrà vedrà.

Ciao, Maurizio.

Mai dimenticherò che hai alzato il dito medio al razzista di turno.
Mai dimenticherò che hai sollecitato un arbitro affinché sospendesse una partita per cori razzisti.
Mai dimenticherò che tu, toscano, hai sentito le tue radici napoletane e che hai sciolto il sangue nelle nostre vene.
Sei stato come Diego, e come Diego resterai eterno.
Sei entrato nella storia del Napoli. Sei entrato nei cuori dei napoletani.
Le strade si separano qui, ma noi continueremo a tifare per te. Tu continua a tifare per Napoli.
Grazie, Maurizio… per averci donato gioie, sogni, orgoglio e tutto te stesso.
Resta tantissimo di te. Resta il Napoli più bello di sempre.
Magari, chissà, è solo un arrivederci.

Il sarrismo napoletano al top in Europa, secondo il sereno Guardiola e il nervoso Allegri

Angelo Forgione «Mi piacerebbe vedere 11 facce di ca**o che abbiano la presunzione di palleggiare in faccia al Manchester City». Una parola forte in un concetto fortissimo che spiega il sarrismo. La verità è che Maurizio Sarri è uomo di poche parole e qualche parolaccia, che gli torna utile per entrare nella testa dei suoi calciatori. Fa parte proprio del sarrismo, sgarbato con il lessico ma molto rispettoso del calcio e del pubblico che paga per lo spettacolo. Diseducativo per il linguaggio dei giovani, ma maledettamente ed efficacemente evolutivo per il football. Il fatto è che, nell’era del calcio televisivo, le conferenze stampa e le interviste in quantità industriale inchiodano le svirgolate. E allora qualcuno storce il naso, come quando Sarri diede del «frocio» in campo a Roberto Mancini. Allora, a caldo, si disse che l’allenatore del Napolisi era giocato la reputazione. E invece eccolo ancora qui, a prendere elogi da Guardiolae da mezzo mondo per il gioco che ha dato agli azzurri… ma non dal non meno irriverente Allegri, anch’egli toscanaccio, per il quale lo spettacolo si fa al circo. Il rivoluzionario Pep esclama «wow» quando vede il Napoli mentre Max è talmente calato nel mondo Juve da sposarne in pieno il proverbiale “vincere è l’unica cosa che conta”.
Il dibattito è aperto, e Guardiola sembra averne centrato il cuore. «Il nostro mestiere dipende da quanti titoli vinciamo, ma questa è un’ingiustizia, perché ci sono tanti allenatori che non hanno la possibilità di allenare grandissimi calciatori che ti rendono la vita più facile». Allegri ha vinto senza deliziare al Milan e alla Juventus. Sarri sta provando a vincere a Napoli, che non è esattamente la stessa cosa, perché la squadra fattura decisamente meno delle tre strisciate, può investire meno e ha un monte stipendi pari a un terzo di quello della Juve. Per annullare i valori tecnici bisogna necessariamente passare attraverso la ricerca della perfezione estetica, e il fatto che la cosa minacci di riuscire sta mettendo in forte crisi nervosa Allegri e l’intero ambiente juventino, per cui vincere non è importante ma fondamentale, e allora figuriamoci quanto possa essere rilevante giocare bene.
La storia insegna sempre. Alla Juve, provò a coniugare vittorie e bel gioco tal Montezemolo negli anni Novanta, chiamato da Gianni Agnelli ad assumere la carica di vicepresidente esecutivo, determinando le clamorose dimissioni di Giampiero Boniperti, l’introduttore dell’antisportivo motto bianconero che rese dogma assoluto la vittoria. Per invidia dei trionfi del Milan di Sacchi, Montezemolo allontanò la leggenda Dino Zoff, tecnico dei trionfi in Coppa UEFA e Coppa Italia col metodo di gioco all’italiana, considerato démodé e sostituito con Gigi Maifredi, alfiere del gioco a zona totale. La rivoluzione produsse un disastro, col manager che, dopo aver rovinato i Mondiali, prima scaricò il prescelto e poi abbandonò la nave, a conclusione di una stagione fallimentare: fuori dalle coppe europee per la prima volta dopo 28 anni. Nel 1994 prese le redini Umberto Agnelli, il quale, dopo otto anni di vacche magre, inaugurò l’era degli scandali pur di tornare a vincere, e lo fece non solo con gli investimenti ma anche col doping e con la “cupola” calcistica, e non certo con il bel gioco.
In fondo, se vincere è l’unica cosa che conta, perché mai bisognerebbe vedere una partita invece di apprendere semplicemente il risultato finale?