Come De Laurentiis ha fatto la rivoluzione copernicana del calcio

Angelo Forgione – Due scudetti in tre anni. Investimenti importanti, a partire da quello per Antonio Conte, e una presenza dominante sul mercato di rafforzamento dei club di Serie A. È la rivoluzione copernicana del calcio di Aurelio De Laurentiis, di fatto la rivoluzione aureliana, che ha cambiato le certezze e invertito le polarità economiche, portando un club del Sud Italia a trainare il calcio italiano per la prima volta da quando, nel 1926, cioè un secolo fa, ai club meridionali è stata data la possibilità di misurarsi direttamente con quelli settentrionali.
Ma come ci è riuscito un uomo che veniva dal mondo in declino del cinema e che ha pensato bene di riciclarsi nel mondo dorato del calcio, di cui non conosceva nulla? Irrotto sul palcoscenico del pallone nel 2004, ha imparato velocemente e lo ha piegato alle sue regole, fino a rivoluzionarlo. Ha issato un club finito in tribunale e nei campi di Serie C fino al trono d’Italia, e lo ha fatto attuando un modello di calcio imprenditoriale, una visione prospettica che gli ha consentito di far fruttare quanto messo insieme in 20 anni, arco di tempo in cui la tendenza del margine operativo lordo del club, cioè della differenza tra ricavi e costi, risulta decisamente positiva.
4 miliardi di ricavi e un utile aggregato superiore ai 100 milioni (fonte: Calcio e Finanza) nell’arco del ventennio aureliano. Non sono certamente tali cifre ad aver fatto la differenza, poiché il fatturato strutturale (introiti dai diritti tv, sponsor, bigliettazione stadio, merchandising e ricavi commerciali) della SSC Napoli, quantunque in progressiva crescita, è ancora inferiore a quello di Inter, Milan e Juventus.

La differenza, il Napoli, la fa per un motivo assai banale, se pensiamo che si tratta pur sempre di un’azienda: l’assenza di debiti. Elemento figlio della sostenibilità economica, cioè di un attento controllo dei costi. Grazie a un oculato player trading, cioè alla strategia di acquisto, valorizzazione e vendita dei calciatori, il Napoli ha generato forti plusvalenze negli anni, reinvestite per sostenere la sua crescita e rigenerare i suoi cicli. Oltre il 95% delle risorse finanziarie prodotte è stata investita in calciatori.
De Laurentiis non si è accontentato di una mediocrità di risultati, ma ha badato prima alla sostenibilità del club e poi ai trofei; non ha sacrificato i conti per inseguire le vittorie, come hanno fatto le altre tre big, quelle del Nord, incastrate in un’esasperata competizione storica non solo calcistica tra Milano e Torino. De Laurentiis, fuori da questa dinamica perversa per questioni geografiche e storiche, ha evitato bellamente ogni rincorsa ossessiva al trionfo ma ha lavorato con lungimiranza per arrivarci senza affanno e con fiato lungo. Ha atteso con pazienza il momento per far valere una solidità economica costruita anno dopo anno. Il momento è arrivato quando ci si è messi alle spalle la forte crisi del calcio generata dalla pandemia da Covid-19, che ha colpito naturalmente anche il Napoli, ma, grazie alla sua solidità, non alla stessa maniera delle concorrenti.
Tra le stagioni 2019/20 e 2021/22, anche per il club partenopeo tre bilanci in rosso, ma zavorrati più da due mancate qualificazioni in Champions League consecutive (2020 e nel 2021) che dall’emergenza sanitaria. Eppure De Laurentiis ne è venuto fuori bene e ha colto l’occasione per svettare.

Basta osservare il grafico dei risultati netti dei quattro top club della Serie A negli ultimi 10 anni, ovvero ciò che è rimasto in cassa o che si è accumulato a debito nei bilanci annuali di Napoli, Milan, Inter e Juventus, per dedurre che il club azzurro è uscito dalla crisi pandemica molto meglio delle altre big, capaci di fatturare di più ma enormemente indebitate e gravate da costi superiori, tra cui quelli di riduzione dei rispettivi deficit.

Tra l’esercizio del 2020 e quello del 2022, i risultati netti del Napoli hanno prodotto un passivo di -129,7 milioni. Passivo comunque decisamente inferiore ai quelli di -357,5 milioni del Milan, -488 dell’Inter e -553,9 della Juventus. Peraltro, il club azzurro, prima della pandemia, aveva fatto segnare alcuni attivi di bilancio, diversamente da Milan e Inter, che avevano accumulato debiti enormi, e dalla Juventus, che a partire dall’acquisto di Cristiano Ronaldo aveva infilato due passivi importanti (-59,2 miliardi in totale). L’azzardo di Andrea Agnelli, nel tentativo di vincere una Champions per incrementare i ricavi e il blasone, non poteva permettersi imprevisti, come quello che poi sopraggiunse al secondo anno di CR7.

La Juventus si è ritrovata a perdere 553,9 milioni tra il 2020 e il 2022, dovendo provvedere a diversi aumenti di capitale per un totale di 700 milioni e a ricche sponsorizzazioni della casa madre Exor, e provando inutilmente e illecitamente a limitare i danni con plusvalenze fittizie e scorrette manovre stipendi, colpite dalla scure della magistratura ordinaria e di quella sportiva, con anche una penalizzazione di dieci punti in classifica nel campionato 2022/23 e la dannosissima esclusione dalle competizioni europee.

L’Inter ha dovuto far fronte a un rosso complessivo di circa 488 milioni accumulato nel triennio 2020-2022. Nella fase di contrazione dovuta al Covid, anche la presenza di Antonio Conte nell’area tecnica ha fatto sentire il suo impatto sui costi. La proprietà di allora, Suning, ha dovuto limitare al minimo il proprio apporto, aggravando il livello di indebitamento e i connessi oneri finanziari. Da qui l’impossibilità di rimborsare un debito di 395 milioni di euro contratto con il fondo statunitense Oaktree Capital Management e di mantenere la proprietà.

Un po’ meno scura la situazione del Milan, che dall’ingresso di Elliot ha iniziato a ridurre il passivo. Il club rossonero, nel triennio 2020-2022, ha fatto registrare un calo del deficit, comunque pari a 357,5 milioni.

Nell’estate del 2022, i quattro top club hanno adottato politiche di contenimento dei costi, in linea con le esigenze di sostenibilità finanziaria post-Covid, e hanno ridotto i rispettivi monte ingaggi. Il club di De Laurentiis è quello che ha effettuato il taglio più significativo, con una diminuzione del 27%. Ceduti uomini di vecchia militanza come Mertens, Koulibaly, Insigne, ma anche Ospina, Ghoulam e Manolas, svecchiando la rosa e mettendo dentro elementi come Kvaratskhelia, Kim e Raspadori. Nonostante la forte contestazione del tifo napoletano per la perdita di elementi a cui era affezionato, la manovra ha prodotto ottimi frutti: il Napoli ha coniugato il contenimento dei costi con la competitività, arrivando persino alla vittoria dello scudetto 2022/23 e al conseguimento dell’utile più alto della storia della Serie A: +79,7 milioni. Scudetto in campo e fuori. Così, in quel momento, il Napoli ha iniziato a fare la differenza con le altre big.

E però, dopo la vittoria del campionato 2022/23, De Laurentiis ha sbagliato la gestione del trionfo e ha inanellato tutta una serie di scelte sbagliate ed enormi errori gestionali che hanno condannato il Napoli a una stagione disastrosa, culminata con un decimo posto e la dannosa esclusione dalle coppe europee dopo quindici anni di presenza continua.
Ma il patron azzurro non è rimasto vittima di se stesso e non ha affatto tirato i remi in barca; anzi, ha dato fondo alle riserve auree – al 30 giugno 2024, il patrimonio netto del club era di 211,5 milioni – e ha rilanciato, ingaggiando nientemeno che l’impegnativo Antonio Conte (con il suo folto staff) e investendo anche 150 milioni sul mercato per ingaggiare Lukaku, McTominay, Neres e Buongiorno. Il nuovo allenatore ha dettato al Presidente un cambio di paradigma rispetto al passato: gli investimenti hanno raggiunto il picco massimo e sono stati impegnati per calciatori con un’età media in rialzo di quasi due anni rispetto alla squadra che aveva vinto lo scudetto un anno prima. Il monte ingaggi è cresciuto a 82 milioni, ma è rimasto comunque di 59 milioni più basso di quello dell’Inter (141), 26 di quello della Juventus (108) e 22 di quello del Milan (104), e anche inferiore a quello della Roma (89). Risultato? Il Napoli, con il quinto monte ingaggi della Serie A, al culmine della stagione di ricostruzione, è tornato immediatamente ad acciuffare il trofeo dello scudetto, il secondo in tre anni.

Il fatto è che De Laurentiis, con la sua politica gestionale, ha messo il Napoli in condizione di poter ben ammortizzare le cadute e rialzarsi in piedi. È accaduto dopo il Covid e le due assenze consecutive dalla Champions League, ed è accaduto dopo il decimo posto. È accaduto nel periodo più nero per il calcio, quello in cui i tonfi sono costati caro alla Juventus, e non solo alla Juventus, ma non al Napoli.

È prevedibile che, per lo sforzo economico profuso per riportare immediatamente il Napoli al vertice e per i mancati introiti UEFA, il bilancio 2024/25 della SSC Napoli si chiuda in negativo, ma il ritorno in una Champions League più remunerativa, la cessione di Kvaratskhelia al Paris Saint Germain, nonché quella di Osimhen al Galatasaray (alle condizioni perentorie dettate da De Laurentiis) e il premio scudetto consentiranno di ammortizzare gli esborsi fatti per ripartire dopo il decimo posto, ma anche di sostenere l’aumento del monte ingaggi per il rafforzamento imposto da Antonio Conte.
Ed ecco che il Napoli di oggi, dopo aver trattenuto il gravoso allenatore con la promessa di esaudirne le esigenti richieste, fa la voce grossa sul mercato con un budget tra i 150 e i 200 milioni.

La bontà della gestione De Laurentiis e la forza della società azzurra è evincibile da un dato eloquente: considerando gli utili degli ultimi dieci anni, alcuni dei quali fortemente condizionati dalla pandemia, il Napoli è l’unico club che fa segnare il segno positivo: +118,8 milioni. Stratosfera, soprattutto se si confronta il dato con quelli in passivo di -816,1 del Milan, di -832,8 dell’Inter e di -888,1 della Juventus.

Ed è il club in testa alla classifica europea dei club più sostenibili sotto il profilo finanziario secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Off The Pitch, aggiornato a giugno 2025, che ha analizzato indicatori fondamentali quali ricavi operativi, contenimento dei costi salariali, equilibrio patrimoniale e capacità di generare utili re-investibili nel medio-lungo periodo. Un club che ha saputo coniugare forza delle finanze e forza della squadra, introiti e vittorie.

In conclusione, si può serenamente affermare che il Napoli, per meriti propri, ha paradossalmente beneficiato della crisi pandemica del calcio. Pur essendo ancora un club dimensionalmente inferiore a Juventus, Milan e Inter, è diventato leader in tutti i parametri economico-finanziari, finendo per insegnare ai competitor la strada della sostenibilità quale condizione necessaria per il conseguimento del risultato sportivo, e non viceversa.

Conti in ordine, esborsi mediamente inferiore agli incassi, produttivo reinvestimento delle plusvalenze da player trading, capacità di affrontare gli insuccessi e resilienza. Così si è compiuta la rivoluzione aureliana.

La questione meridionale del calcio in sintesi

Alla trasmissione “Il grande tifoso” (Kiss Kiss Napoli) di Carlo Alvino, un’estrema sintesi di alcuni contenuti di Dov’è la vittoria, il libro che racconta il calcio italiano dalle origini ai giorni nostri, in edizione aggiornata (prefazione di Oliviero Beha).

Maurizio Pistocchi e la questione meridionale del calcio

Il sempre onesto Maurizio Pistocchi, irreprensibile giornalista d’altra Italia e d’altro spessore, ancora una volta ha evidenziato gli squilibri territoriali del calcio italiano. A Il Bello del Calcio (Canale 8), ha ricordato alla purtroppo assai sorda se non proprio spenta Napoli, come del resto l’intera Italia, che, come dice lui, “proprio un napoletano ha scritto in modo chiaro la verità sul calcio italiano”, sui suoi squilibri territoriali e sulla Questione meridionale”del pallone.

La chiamarono Calciopoli

Angelo Forgione Significativa, quantunque silenziosa e silenziata, è giunta la sentenza della Cassazione sulla causa intentata anni fa alla RAI dal compianto Oliviero Beha. La tivù di Stato dovrà dovrà riconoscere alla famiglia del giornalista 180.000 euro per il demansionato nel suo ruolo di vicedirettore di RaiSport tra il 2008 e il 2010, anni di fuoco del processo a Calciopoli. Una sentenza che ha rinvigorito l’autodifesa di Luciano Moggi, uomo simbolo di quella squallida vicenda, che è tornato a dichiararsi innocente.
Ne abbiamo parlato con lui a Punto Nuovo Sport Show (Radio Punto Nuovo), condotto da Marco Giordano e Umberto Chiariello. L’ex DG bianconero non è stato tenero con l’attuale gestione della Juventus, e si è detto vittima di una cospirazione dell’intero mondo del calcio italiano. Forse fu più vittima delle vicende interne alle Juventus. A tal proposito, sul suo rapporto con John Elkann ha preferito glissare e non rispondere.
Un po’ di chiarezza su quello che fu il solito scontro di poteri tra le grandi del Nord, e pure tra gli eredi di Gianni e Umberto Agnelli. Un pentolone solo parzialmente scoperchiato.

Cena letteraria a Piano di Sorrento

Il 15 marzo, alle ore 20.00, all’Hotel-Spa ‘La Ripetta’ di Piano di Sorrento, cena letteraria con gli sportivi della Penisola Sorrentina sugli aspetti calcistici della Questione meridionale.
Sono invitati tutti i tifosi di zona; napoletani, juventini, interisti, milanisti, romanisti e oltre, per una serata costruttiva e per un dialogo di approfondimento.

(è gradita la prenotazione allo 081.532.13.36 o all’indirizzo email info@laripettahotel.it)

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Se ne va Oliviero Beha. Mi definì “screanzato”.

Angelo Forgione Se ne va la voce libera di Oliviero Beha, un Maestro di Verità senza compromessi, penna che detestava l’ipocrisia e l’ignoranza del Paese. Volli fortemente una sua prefazione per il mio Dov’è la Vittoria. In realtà volevo che lo leggesse e speravo che lo approvasse, da napoletano a fiorentino, e sarebbe stata una conferma di assoluta validità. Non fu facile, perché avere una sua prefazione non era per tutti, anzi, era per pochissimi. Discutemmo a lungo su Calciopoli, e quando finì di leggere il manoscritto definitivo mi disse che avrebbe volentieri scritto per me. Fu come passare un esame, e a pieni voti, poiché mi fece capire che avevo dato anch’io qualcosa a lui. Non me lo disse apertamente; me lo scrisse in una email, quando mi consegnò l’ambito preludio al mio libro accompagnato da una semplice ma appagante riga: “Come leggerà, sono un Suo fan, sia pure ragionato”.
Era freddo, severo, ma limpido e generoso. Mi definì “screanzato” per il mio sapere osare, perché sapeva che riuscifa facile solo agli “screanzati” come lui. Aveva capito che avevo intrapreso l’impervia strada verso la comprensione della realtà, e scrisse che avevo fatto benissimo a raccontare tutta la verità sul mondo del Calcio italiano.
Qualche suo cauto collega, per ricordarlo, lo definisce “a volte eccessivo”. Altri, quelli che lui chiamava giornalisti mafiosi della tivù o scrittori camorristi omeopatici, neanche lo ricordano nei loro post e tweet, e non deve stupire. La verità è che la Verità è molto, ma molto scomoda, e chi ha definito l’Italia “un paese sfatto, in coma” e il sistema mediatico nazionale “colpevole di un’opinione pubblica demente” è scomodo anche da morto.
Ripropongo, integralmente, la prefazione che scrisse per il mio lavoro, perché anche chi non l’ha letto possa comprendere cosa pensava Oliviero, fiorentino trapiantato a Roma, della “Questione meridionale” e come accolse la mia ottica meridionalista.

UN AFFARE DA “SCREANZATI”

Scrive uno dei più grandi autori del Novecento italiano, Tommaso Landolfi, stile e fantasia raffinatissimi, che “succiare l’universo come un uovo è un affare da screanzati”. È un po’ quello che mi è capitato di pensare alla fine di questo lungo, denso, necessario e bellissimo saggio di Angelo Forgione che tiene insieme “Calcio & Società” in Italia e non solo, nel tempo e nello spazio, nell’economia e nella politica.
Quella che il saggista mette in campo fin dall’inizio è una sorta di complicata ma efficace “macchina del tempo”. Si va in su e in giù sulle montagne russe della grande storia e della cronaca più interessante tra l’Unità d’Italia e i giorni nostri. Proprio come sui vagoncini delle montagne russe in un qualche parco dei divertimenti, a volte ci si sente come sbalzati nell’aria sui saliscendi, ma poi la bravura dell’autore ti evita l’espulsione, ti tiene ben dentro il vagoncino, e il libro ti permette di dare un’occhiata generale a ciò che è successo in questo Paese in circa 150 anni di Unità e 120 di Calcio.
Il punto è che mentre questo gioco alternato, diacronico e sincronico, rende appetibilissimo e prezioso il saggio quando si riesce a focalizzare un’epoca più o meno distante, il discorso si fa più rischioso quando la penna si cala nelle vicende contemporanee.
È arduo, senza la distanza temporale che dà allo sguardo un altro tipo di ritmo, riuscire a giustapporre tessere di mosaico ancora troppo sfuggenti perché troppo intrise di attualità. Questo scrivere sul filo del rasoio senza però tagliarsi è il merito maggiore di un libro impegnativo, per chi lo ha scritto e per chi lo legge. Pieno di fatti, a partire dalla tesi documentata dell’effetto disgregante del Calcio tra le tifoserie, quindi la “ggente”, quindi quei cittadini di una Nazione che quasi mai si comporta da tale o anche soltanto lo sembra.
Dov’è la Vittoria è un bel titolo, immediatamente riconducibile alle contrapposizioni geografiche, geopolitiche, geoantropiche dell’ex Belpaese, e fa riferimento in modo inequivocabile all’inno nazionale. Forgione aveva pensato inizialmente a un altro titolo: Palla al centro. L’avrei gradito alla stessa maniera perché polisemico in profondità, con vari strati di interpretazione, anche se apparentemente facile.
Le differenze tra Nord e Sud, misurate negli scudetti e in tutta la porzione sociale, economica, imprenditoriale, finanziaria, politica e ahimé (troppo spesso) delinquenziale di una “Questione meridionale” ovviamente irrisolta da quando l’espressione è stata coniata nel 1873, dopo che invece – udite udite! – fino all’Unità le sperequazioni economiche tra le due Italie erano assai meno marcate, vengono perimetrate egregiamente in un campo di Calcio.
Ce n’è per tutti, con un’analisi ricca e accattivante. Penso, solo per citarne un aneddoto significativo tra mille, a quando si racconta di un Riccardo Muti salito giovane e sconosciuto da Napoli al Conservatorio di Milano negli anni Sessanta che veniva chiamato “il terrone”… Aneddoto incastonato in pagine precise sul tifo, il razzismo, il Calcio come veicolo di sfrangiamento sociale e imbarbarimento sostanziale ed epidermico.
Un libro “contro”, dunque? Un libro che sgonfia un pallone che la cronaca quotidianamente ci restituisce sgonfio di suo per rigonfiarlo mediaticamente e politicamente ogni volta? Non esattamente. C’era bisogno, anche sobbalzando sull’ottovolante, di un circuito completo, la cui completezza rendesse magari anche impervia la concatenazione e la comprensione, giacché è quell’universo “succiato come un uovo” nella compressione di un solo volume a rendere a volte ostico l’insieme.
Ma lo “screanzato” Forgione ha fatto benissimo a osare. È un libro che ha diritto di cittadinanza tra quelli che finora raramente sono stati capaci di intrecciare il Calcio con la società che lo contiene e di cui è espressione macroscopica. Mi sarà e vi sarà utile prima come lettura e poi come consultazione, tra le molte cose che si dimenticano e quelle che si ignorano. Perché in realtà al centro del libro e della realtà che dispiega non c’è la palla, bensì noi stessi.

Oliviero Beha