Gallerie d’Italia cancella la grande Napoli neoclassica

Angelo Forgione Lo chiamano “il Cavallo colossale”. È il modello in finto bronzo (gesso verniciato) del cavallo su cui monta Ferdinando di Borbone in Largo di Palazzo, al secolo Piazza del Plebiscito, a Napoli. Monumento equestre di Antonio Canova il cui cavallo prototipale, appena restaurato, è esposto da oggi, e fino al 6 aprile 2026, al museo di Milano delle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo, in occasione della mostra “Eterno e visione. Roma e Milano capitali del Neoclassicismo”. Una mostra sull’arte nell’età napoleonica che Gallerie d’Italia, sul suo sito istituzionale, presenta così:

“Alla decadenza dei grandi centri artistici, come Firenze, Venezia, Genova e Napoli, si sottraggono solo Roma e Milano”.

Ma come? Napoli decadente in epoca neoclassica? Tutt’altro! Fu propio Napoli a riscoprire il classicismo con gli scavi vesuviani e quelli di Paestum, e a propagare la corrente che negò le ridondanze e le finezze barocche, stimolando una formula creativa imperniata sul passato remoto e dimenticato, per una nuova coscienza culturale nel campo delle arti.
E se a Roma i Papi capirono che le vestigia ereditate dalla remotissima grandezza imperiale andavano recuperate, diversamente dai secoli precedenti in cui tutto il patrimonio del passato era stato lasciato al sostanziale abbandono, avvenne perché Napoli si scoprì culla dell’archeologia moderna grazie alla volontà dei Borbone di avviare gli scavi, produrre volumi descrittivi e illustrativi delle preziosità rinvenute, e allestire esposizioni di reperti e di sculture.

Napoli, nel secondo Settecento, uscì dalla marginalità in cui era piombata con la dominazione austriaca e divenne meta culturale dell’intellettualità del tempo. E chi già lavorava a Napoli in piena epoca tardo barocca riesumò gli elementi architettonici dei modelli ercolanensi e pompeiani, reinterpretandoli nelle forme delle loro nascenti costruzioni, vedi Luigi Vanvitelli con la Reggia di Caserta e Ferdinando Fuga con il Real Albergo dei Poveri di Napoli.

Il maggior studioso dell’epoca, lo storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann, si fiondò più volte a visitare e studiare le scoperte vesuviane, spingendosi sino a Paestum, considerandoli con enorme meraviglia “le più antiche architetture conservate fuori l’Egitto”. Trascrisse ciò che vide nel suo trattato Storia delle arti del disegno presso gli antichi, pubblicato nel 1764, diffondendo in tutt’Europa le notizie dei rinvenimenti napoletani. Fu lui a eleggere l’arte classica come modello di perfezione e a definire le basi dell’archeologia moderna, nuova scienza partorita nei dintorni del Vesuvio, fonte di un nuovo gusto delle arti: il Neoclassicismo.
Qualche anno più tardi, Giovanni Battista Piranesi realizzò le incisioni dei templi greci di Paestum, contribuendo alla conoscenza di certe scoperte in tutto il Continente.

Ferdinando di Borbone cancellò la proprietà privata per tutte le collezioni appartenenti alla sua famiglia e lasciate a Napoli dal padre Carlo, per renderle pubbliche e consegnarle alla città. Decise quindi di predisporne la riunione in un unico luogo della straordinaria raccolta di reperti vesuviani con la preziosissima parte scultorea della Collezione Farnesiana. E così nacque il Museo generale (oggi MANN – Museo Archeologico Nazionale), il primo museo continentale, dove furono sistemate le inestimabili sculture greche di famiglia, fatte portare via mare da Roma con fortissima irritazione di papa Pio IV.
Wolfgang Goethe, a Roma, il 16 gennaio del 1787, annotò nei suoi appunti di viaggio alcune riflessioni sulle ambiziose intenzioni del sovrano napoletano:

“Roma sta per perdere un grande capolavoro dell’arte. Il re di Napoli farà trasportare nella sua residenza l’Ercole Farnese. Gli artisti sono tutti in lutto, ma intanto avremo occasione di vedere quanto era nascosto ai nostri predecessori”.

Era questa la capitale che Antonio Canova frequentò tra il 1780 e il 1822, lavorando enormemente come per nessun’altra città, per committenza reale e privata. Capitale (anche) del Neoclassicismo, corrente che conquistò Milano grazie al governatore austriaco in Lombardia, il conte Karl Joseph von Firmian, precedentemente ambasciatore di Vienna a Napoli, dove aveva frequentato Luigi Vanvitelli, da cui fu consigliato di ingaggiare il suo allievo Giuseppe Piermarini, colui che, dopo aver appreso nel cantiere della Reggia di Caserta, fece di Milano un laboratorio neoclassico. Tra tanti edifici, anche una copia della Reggia di Caserta in piena città: il palazzo di Belgioiso.

Per capire cosa significava Napoli per la riscoperta delle classicità basta osservare ancora oggi il ritratto marmoreo di Ferdinando di Borbone che Canova realizzò per accogliere i visitatori al Museo generale. Un Ferdinando in veste di Atena-Minerva, protettrice delle arti con l’elmo della saggezza in capo, allegoria in onore del sovrano che, raggruppando le collezioni di Antichità, aveva lanciato l’immagine neoclassica di Napoli greco-romana, nuova Atene ma anche nuova Roma.

Napoleone, nuovo imperatore di Francia, per celebrare la sua ascesa, faceva declinare a suo modo (stile Impero) il nuovo classicismo di derivazione italiana. Lo aveva apprezzato nei suoi soggiorni a Milano, città che gli era piaciuta molto per le realizzazioni del Piermarini. E a Parigi chiamò lo stimatissimo Canova, che lo accontentò sempre, ma restò fortemente critico circa il saccheggio di opere d’arte italiane. Dalle memorie dello scultore veneto si apprende che egli si oppose all’Imperatore quando questi gli disse che a Parigi doveva restare perché lì si trovavano ormai tutti i capolavori antichi dell’arte. Tutti, eccetto uno:

«Questo è il vostro centro: qui sono tutti i capi d’arte antichi; non manca che l’Ercole Farnese di Napoli, ma avremo anche questo».

Canova gli rispose così:

«Lasci Vostra Maestà almeno qualche cosa all’Italia. Questi monumenti antichi formano catena e collezione con infiniti altri che non si possono trasportare né da Roma, né da Napoli».

E Bonaparte come provò a rilanciare? Proponendo quale risarcimento ciò che il Papa non aveva fatto per Roma, ovvero l’avviamento degli scavi archeologici sul modello dei Borbone di Napoli:

«L’Italia potrà rindennizzarsi cogli scavi. Io voglio scavare a Roma: ditemi, ha egli il Papa speso assai negli scavi?»

Roma papalina sì che era una città decadente. Le sue casse furono oggetto di discussione tra i due, e Napoleone, in vista di una futura nazione italiana unificata sotto il suo dominio, promise attenzione per quella povera capitale decaduta e assai distante dal prestigio dei tempi in cui era stata padrona del mondo:

«La faremo capo d’Italia, e vi uniremo anche Napoli. Che ne dite? Sareste contento?».

Perché Napoli era la città più importante, oltre che la più popolosa, di quella Italia. E sarebbe questa la decadenza partenopea in epoca neoclassica di cui parlano quelli di Gallerie d’Italia? Napoli, la culla dell’Antico riscoperto e dell’archeologia – restando solo alle arti figurative – , era la vera capitale del Neoclassicismo, di cui beneficiarono Roma e Milano, ma non solo. Del resto, il “Cavallo colossale” di Canova fu modello per un monumento equestre per Napoli, con tutta la Basilica neoclassica retrostante e i palazzi laterali, anch’essi neoclassici. Anzi, due monumenti. Cavalli e cavalieri, una volta approntati tutti i modelli, furono fusi a San Giorgio a Cremano dal fabbro di fiducia di Canova, il romano Francesco Righetti, in una fonderia aperta appositamente nel 1816 in un capannone nei pressi di Villa Bruno, zona che oggi è identificata con il nome di “Cavalli di Bronzo”. Bronzo, come la faccia di chi continua a sminuire la grande storia di Napoli.

per approfondimenti:
Napoli svelata, Angelo Forgione (Magenes, 2022)
Napoli capitale morale, Angelo Forgione (Magenes, 2017)

200 anni fa l’addio al bistrattato Re Ferdinando

Angelo Forgione – 4 gennaio 1825. Esattamente due secoli fa si spegneva Ferdinando di Borbone, il più longevo dei re italiani. Fu davvero un pessimo sovrano, rozzo donnaiolo perdigiorno e poco incline alle faccende politiche, come la tradizione risorgimentale ce l’ha presentato, o c’è dell’oltre da sapere?

Certo, l’approfondimento dello studio gli mancò, ma fu una scelta del suo precettore, il Principe di San Nicandro, consapevole che il quintogenito di Re Carlo, essendo di gracile costituzione in tenera età, dovesse rimediare a una salute malferma con attività motorie all’aperto. Caccia, Equitazione, Canottaggio e Pesca gli assicurarono un benefico e salutare irrobustimento, e continuò a praticarle anche da adulto. A tal proposito viene a noi una testimonianza firmata da Goethe, testimone diretto a Napoli, che ne descrisse senza pregiudizi la disciplina fisica nella biografia del pittore di corte Jakob Philipp Hackert:

“Fin dalla gioventù il Re era un cacciatore appassionato. Lo avevano educato alla caccia. Nei suoi verdi anni era stato delicato di salute. Fu l’esercizio della caccia a renderlo forte, sano e scattante. Hackert ebbe un giorno l’onore di essere invitato a caccia insieme con lui e con sorpresa vide che, su cento colpi, ne mancava solo uno. Non era solo la caccia, ma anche la vita all’aria aperta che lo manteneva in buona salute. Ciò che il Re ha imparato lo fa bene e con esattezza.
[…] Il Re sapeva remare come il più bravo dei marinai e si arrabbiava molto se i suoi compagni di remo non andavano al giusto ritmo. Tutto quello che sa, lo fa esattamente e se vuole apprendere qualcosa, non si dà pace fino a quando non l’ha imparato. […]”

Carente di istruzione, vero, ma a Ferdinando non fecero affatto difetto l’intuito per ingrandire la dimensione culturale di Napoli e la volontà di accrescerla artisticamente.

Gli incoraggiamenti all’arte concessi dal “Re lazzarone” furono enormi, e incontrarono convinti elogi nei vari territori italiani, tra cui quello del letterato lombardo Carlo Castone della Torre di Rezzonico, che in una corrispondenza di fine Settecento commentò la realizzazione della scultura Adone e Venere di Antonio Canova per il marchese napoletano Francesco Berio, per la quale Ferdinando concesse l’esenzione del dazio doganale per l’importazione dell’opera dallo Stato Pontificio:

“[…] non vi sarà discaro […] il sapere in qual pregio tengasi dall’illuminato governo un’opera sì bella, e quali facilità si concedano, e laudi, ed incoraggiamento a facoltosi personaggi, che con illustri monumenti cospirano a volgere quella deliziosissima capitale in un’Atene novella, avvegnacchè per quelli dell’antichità possa di già entrare in contesa coll’istessa Roma.”

Ferdinando esentò la ricca committenza privata napolitana dai dazi doganali affinché potessero lavorare a Napoli gli artisti residenti oltreconfine e arricchissero i nobili palazzi napoletani con importanti opere d’arte, proprio a partire da quelle di Canova, che lavorò anche per lo stesso sovrano e lo ritrasse in un’enorme statua per accogliere i visitatori del Real Museo, oggi il più importante archeologico d’Occidente e il primo realizzato nell’Europa continentale, voluto proprio dallo stesso Re nel secondo Settecento. Ma come? Un museo così importante voluto da uno zotico sovrano? Sì, lo zotico sovrano fu artefice dell’atto culturale più significativo del secondo Settecento facendo allestire proprio un museo in cui fece raggruppare tutti i tesori di famiglia, partendo dai preziosi reperti vesuviani, ai quali tolse la proprietà privata per donarli a Napoli e a tutti i suoi visitatori.
In quel museo vi fece trasferire anche le preziosità scultoree dei Farnese, ereditate dalla nonna Elisabetta insieme a quelle pittoriche e oggettistiche già raccolte a Capodimonte dal padre, Carlo di Borbone, prelevando le imponenti statue da Roma per farle giungere via Tevere e mare fino a Napoli, amplificando enormemente il richiamo della sua capitale e riconoscendole un insuperabile patrimonio classico, accresciuto negli anni. Chissà oggi dove sarebbe tutta quella ricchezza se egli non fosse stato così lungimirante come il padre.

Antonio Canova lo rappresentò proprio nelle vesti di Minerva, protettrice delle arti con l’elmo della saggezza in capo: allegoria in onore di un sovrano che, raggruppando le collezioni di Antichità, aveva lanciato l’immagine neoclassica di Napoli greco-romana, nuova Atene ma anche nuova Roma, veicolando il messaggio borbonico di protezione delle arti e della tutela dell’antico in una cornice, quale quella del prestigioso museo, che rappresentava il contributo decisivo di Napoli e dei Borbone, Carlo e Ferdinando, per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. L’uno aveva stimolato l’archeologia e l’altro stimolava la raccolta artistica, assicurando gran prestigio internazionale a Napoli. Al padre, ben più magnificato del figlio, il merito enorme dei musei a cielo aperto, le città antiche riportate alla luce. Al figlio, quello di assegnare ai napoletani le collezioni di famiglia e di creare un museo che è ancora oggi il massimo riferimento culturale dell’antica capitale, l’esposizione di arte classica più bella e importante del mondo occidentale.

Da quel che si legge qua e là, parrebbe che il celebratissimo Carlo fosse ben più istruito del figlio, ma in realtà non lo fu affatto, ed era anche molto più superstizioso e bigotto di Ferdinando, che, pur essendo cattolico, superò le paure del tempo circa le prime immunizzazioni contro il terribile vaiolo, (altro che Covid!), fregandosene degli iniziali anatemi della Chiesa e dei rimproveri dello stesso cattolicissimo padre quando decise di sottoporre se stesso e la sua famiglia a un pioneristico e rischioso esperimento, la variolizzazione, al quale, dopo qualche anno, fece seguire l’avvio della prima vaccinazione di massa in Italia, resa obbligatoria per i bambini.

Il diplomatico milanese Giuseppe Gorani scrisse a fine Settecento nelle sue memorie così:

“Non solo Carlo III di Spagna non è più istruito del re di Napoli (Ferdinando), pur avendo ricevuta un’educazione meno cattiva, ma lo supera nei pregiudizi, e si rende ridicolo pretendendo d’essere sapiente”.

Carlo, nato altrove, si affezionò a Napoli profondamente, ma Ferdinando, napoletano di nascita e di spirito, ne fu anche più innamorato. Perciò non cancellò nulla di ciò che creò, neanche quando arrivarono gli invasori francesi, a differenza del padre, che non esitò a far distruggere la Real Fabbrica di Capodimonte prima di andarsene a Madrid per impedire proprio all’erede al trono partenopeo di proseguire le pregiate produzioni di porcellana, per poi scoprire che questi le aveva rimesse in piedi. Era lo stesso Carlo che aveva fatto sterminare i gatti di Procida, per impedire loro di attentare alla vita dei fagiani della riserva di caccia isolana, salvo poi dover fare marcia indietro di fronte alla rivolta dei procidani per la conseguente proliferazione di topi.

Ferdinando incentivò l’artigianato di qualità, a partire da quello serico di San Leucio, e fu inoltre vero stimolatore di una rivoluzione agricola di cui beneficiamo tutti noi oggi, tra produzione di pasta di grano duro, coltivazione di pomodoro lungo, lavorazione della mozzarella di bufala, protezione della vitivinicoltura e tanto altro ancora; e se le abitudini alimentari napoletane sono così peculiari e “nazionali” è perché egli fece da congiunzione tra quelle del popolo e dell’aristocrazia del suo tempo.

La verità è che Ferdinando fu decisivo quanto Carlo per la crescita del prestigio di Napoli e per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. E se lo si racconta come non si fa per il padre è perché paga nella reputazione le teste fatte tagliare dopo la repressione della Repubblica partenopea del 1799. Avrebbe voluto concedere patti onorevoli di resa ed essere più clemente di quanto non fu la consorte Maria Carolina, assetata di vendetta nei confronti dei traditori che aveva portato a corte per il progresso civile di Napoli, pure rabbiosa per la sorte della carissima sorella Maria Antonietta, decapitata a Parigi. Fu la Regina a consentire all’ammiraglio inglese Horatio Nelson, inviato dal governo di Londra a salvaguardare gli interessi britannici in Sicilia, di decidere la sorte dei prigionieri in cambio di protezione del trono borbonico.

Dopo il tumultuoso periodo francese, a cavallo tra la Rivoluzione e gli sconvolgimenti napoleonici, l’ormai anziano Ferdinando rientrò a Napoli dall’esilio palermitano. Privo di risentimento, pensò solo a vivere l’ultima stagione della sua vita in serenità, finalmente nella sua città, libero dal peso della presenza di una consorte autoritaria e rasserenato da una nuova compagna docile e affettuosa, Lucia Migliaccio Contessa di Floridia, con la quale si rifugiò sulla collina del Vomero, in un’ovattata villa ad ella dedicata.
Prossimo alle 74 primavere e dopo 65 difficili anni di regno, si spense, non prima di aver fatto approntare la nuova piazza reale di Napoli e, in soli otto mesi, la ricostruzione della sala del Real Teatro San Carlo, assai più bella di quella fatta realizzare dal padre ottanta anni prima. Stendhal, milanese di adozione, la giudicò assai più bella della Scala, grazie alla volontà e alla determinazione di Ferdinando:

“La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. […] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. […] Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al Re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare. […] Io stesso, quando penso alla meschinità e alla pudica povertà delle repubbliche che ho visitato, mi ritrovo completamente monarchico. […]”

Storiograficamente, Ferdinando non paga solo il sangue del 1799 ma anche la propensione al diletto e al dialetto, il fatto che fosse napoletano. Non era piemontese come Vittorio Emanuele II, vero zotico senza alcuna sensibilità artistica ma di esclusiva cultura militare sabauda, vero sovrano volgare e rozzo donnaiolo della prima Italia unita, i cui uomini fecero occultare la preziosa scultura di Canova sullo scalone del Museo Archeologico di Napoli. Tornò al suo posto solo nel 1997, per volontà di un impavido sovrintendente ai beni archeologici, Stefano De Caro, deciso a rendere giustizia tanto all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, che a Napoli scoprì la devozione per l’Antico, quanto all’artefice iniziale del più grande e più importante contenitore di arte classica d’Occidente. E lo chiamano ancora “lazzarone”.

Il vino di Ferdinando di Borbone

Angelo Forgione Prosegue il rilancio del Pallagrello, il vino tanto amato da Re Ferdinando di Borbone, scomparso gradualmente nel Novecento per lo spopolamento delle terre casertane e per l’attacco parrassitario ma riscoperto con buon successo dagli anni Novanta. Ora, all’etichetta “OroRe Bianco” di Tenuta Fontana, si affianca la “OroRe Nero“, il Pallagrello Nero IGT della Vigna di San Silvestro, sulle colline casertane, appartenente alla Reggia di Caserta.

Al tempo di Ferdinando, questi vini erano detti “Pallarelli“, nome derivante dalla sfericità degli acini d’uva “Pallarella”, da cui erano ottenuti, e la denominazione originaria era “Piedimonte“, traendo il nome dalla località pedemontana del Matese in cui originavano, nella provincia di Terra di Lavoro, che nel Dizionario geografico portatile, una pubblicazione veneta del 1757, era elogiata esattamente per il suo superior vino:

“Piedemonte, […] I vini di questa contrada sono eccellenti, così bianchi, come rossi, e sono de’ migliori del Regno così per la loro qualità, e natura, come per la grata sensazione, che risvegliano nel palato. Vanno sotto il nome di Pallarelli, e sono stimatissimi ne’ pranzi. […]”

Il Re li aveva selezionati con fierezza, facendoli servire alla tavola reale e a quelle nobiliari insieme ai già rinomati francesi, e donandone bottiglie ai diplomatici e ai plenipotenziari stranieri. Nel 1775, fece addirittura apporre presso una prosperosa vigna di un’epigrafe recante un bando emesso dal tribunale di Napoli per impedire ai non autorizzati di attraversarla e sottrarre la preziosa uva Pallarella. L’epigrafe è ancora lì, in località Monticello, sulla via per il Matese (foto), a rinfrescare la memoria su quella che fu la gran tutela della Pallarella da parte di Re Ferdinando, attentissimo alle innovazioni in ambito tecnico-agronomico e attore protagonista di una grande rivoluzione agricola operata nel secondo Settecento, quando i vini campani erano considerati i migliori d’Italia, il Lacryma Christi godeva di gran fama e il Barolo delle Langhe neanche esisteva. Il pregiato piemontese sarebbe nato nel primo Ottocento, e lo avrebbe portato al successo Camillo Benso di Cavour, producendolo nel suo castello di Grinzane, paese di cui sarebbe stato sindaco dal 1832 al 1849, prima di andare a Torino e diventare ministro dell’agricoltura del Regno di Sardegna e poi primo ministro.

Oggi tocca alla Campania rincorrere, ma la riscoperta dei vini “Pallarelli” è un segnale di vivacità e di crescita dell’offerta, anche se i meritori sforzi non bastano per raggiungere le smisurate fortune internazionali del Prosecco veneto, il vino italiano più bevuto nel mondo, frutto di una monocoltura invasiva nei territori di origine, e nemmeno l’eccezionale notorietà mondiale del pregiato Barolo piemontese. Tocca al Taurasi DOCG irpino, tra i campani quello che invecchia più a lungo e meglio, fare da apripista alla rincorsa della Campania, la culla dei vini italiani, almeno alle non lontane vette qualitative. Poi si tratterà di fare buona comunicazione, perché è inaccettabile che, nonostante i sommelier italiani siano consapevoli dell’ottima qualità dei vini campani e della loro crescita qualitativa negli ultimi dieci anni, un consumatore italiano su due non li conosce.


La storia del vino, dai Greci a oggi, la leggete su Napoli svelata (Angelo Forgione, Magenes, 2022).

Ferdinando di Borbone? Non meno istruito e intelligente di Carlo (e meno bigotto)

Angelo ForgioneFerdinando di Borbone, venuto fuori dalle abili scalpellate di Antonio Canova, vi accoglie salutandovi nello scalone del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il più importante d’Occidente nel settore e il primo realizzato nell’Europa continentale, voluto proprio da lui stesso in carne ed ossa, nel secondo Settecento. Ma come? Un museo così importante voluto da uno zotico sovrano, un perdigiorno donnaiolo? Perché questa è la classica narrazione, assai banalizzata, risibile e parziale, che la storiografia ufficiale di matrice risorgimentale ci propone del secondo sovrano borbonico di Napoli. Lo si racconta profondamente ignorante, e non è che fosse assai acculturato, certo, ma a giudicare da quel che si legge qua e là pare che il suo celebratissimo genitore, Carlo di Borbone, fosse più istruito di lui, e nessuno si azzarda a dire che non lo fu affatto, e che piuttosto era anche molto più superstizioso e bigotto.

Ferdinando, per esempio, non cancellò nulla di ciò che creò, neanche quando arrivarono gli invasori francesi, a differenza di Carlo, che non esitò a far distruggere la Real Fabbrica di Capodimonte prima di andarsene a Madrid per impedire al figlio di proseguire le pregiate produzioni di porcellana, salvo poi scoprire che l’erede le aveva rimesse in piedi. Lo stesso Carlo che fece sterminare i gatti di Procida, per impedire loro di attentare alla vita dei fagiani della riserva di caccia isolana, salvo poi dover fare marcia indietro di fronte alla rivolta dei procidani per la conseguente proliferazione di topi.

Il diplomatico milanese Giuseppe Gorani scrisse nelle sue memorie così:

“Non solo Carlo III di Spagna non è più istruito del re di Napoli (Ferdinando), pur avendo ricevuta un’educazione meno cattiva, ma lo supera nei pregiudizi, e si rende ridicolo pretendendo d’essere sapiente”.

Ferdinando fece quanto Carlo per accrescere il prestigio di Napoli, e gli uomini del suo tempo glielo riconobbero serenamente. Il suo contemporaneo Goethe, autorevole osservatore tedesco, sapendo che la sua propensione ad uscire dalle stanze reali era dettata da un’educazione ricevuta per rafforzare in gioventù una salute incerta, ne tracciò un profilo veritiero nella biografia del pittore di corte Jacob Philipp Hackert:

“Non era solo la caccia, ma anche la vita all’aria aperta che lo manteneva in buona salute. Ciò che il Re ha imparato lo fa bene e con esattezza. (…) Tutto quello che sa, lo fa esattamente e se vuole apprendere qualcosa, non si dà pace fino a quando non l’ha imparato. Scrive abbastanza bene, velocemente; si fa capire, con buone espressioni. Hackert ha visto le leggi per S. Leucio, prima che fossero stampate. Il Re le aveva date ad un amico per farle correggere se ci fossero stati degli errori di ortografia. C’erano da cambiare pochissime cose e di scarsa importanza. Se lo avessero fatto studiare seriamente, invece di fargli perdere tempo con la caccia, sarebbe diventato uno dei migliori regnanti d’Europa”.

Chiedetevi perché Canova lo raffigurò neoclassicamente in certi panni che lui non indossò mai. Erano le vesti di Minerva, divinità della saggezza e delle arti. Ma come? La saggezza e la arti incarnate da un sovrano ignorante? Suvvia. Peccato che non si possa chiedere direttamente proprio a Canova, il quale vi direbbe di essere stato profondamente felice di avere in un territorio d’Italia un sovrano protettore delle arti. E già, perché questo Re molto napoletano, pur nella sua indole poco incline all’etichetta e nella sua insufficiente istruzione, fu artefice dell’atto culturale più significativo del secondo Settecento facendo costruire proprio il Real Museo, dove fece raggruppare tutti i tesori di famiglia, partendo dai preziosi reperti vesuviani, ai quali tolse la proprietà privata per donarli a Napoli.
In quel museo vi fece trasferire anche le preziosità scultoree dei Farnese, ereditate dalla nonna Elisabetta insieme a quelle pittoriche e oggettistiche già raccolte a Capodimonte, prelevando le imponenti statue da Roma per farle giungere via Tevere e mare a Napoli, amplificando enormemente il richiamo della Città. Chissà oggi dove sarebbe tutta quella ricchezza, se egli non fosse stato così lungimirante come il padre, e innamorato più del padre della sua città.
Ma Ferdinando fece altro ancora: esentò la ricca committenza privata napolitana dai dazi doganali affinché facesse lavorare gli artisti residenti oltreconfine e arricchisse i nobili palazzi della Capitale con importanti opere d’arte, proprio a partire da quelle di Canova.

Fu inoltre vero stimolatore di una rivoluzione agricola di cui beneficiamo tutti noi oggi, tra produzione di pasta di grano duro, coltivazione di pomodoro lungo, lavorazione della mozzarella di bufala, protezione della vitivinicoltura e tanto altro ancora, e se le abitudini alimentari napoletane sono così peculiari e “nazionali” è soprattutto grazie a lui, che fece da congiunzione tra la abitudini del popolo e quelle dell’aristocrazia.
Sviluppò l’artigianato di qualità, a partire da quello serico di San Leucio, e pur essendo cattolico superò le superstizioni del tempo circa i primissimi vaccini contro il terribile vaiolo (altro che Covid!), fregandosene degli iniziali anatemi della Chiesa e dello stesso cattolicissimo e bigotto padre per sottoporre se stesso e la sua famiglia a un pioneristico e rischioso esperimento di immunizzazione, la variolizzazione, al quale, dopo qualche anno, fece seguire l’avvio della prima vaccinazione di massa in Italia, resa obbligatoria per i bambini.

La verità è che Ferdinando fu decisivo quanto Carlo per la crescita del prestigio di Napoli e per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. E se lo si racconta come non si fa per il padre è perché paga nella reputazione le teste tagliate dopo la repressione della Repubblica partenopea del 1799, la propensione al diletto più che alla vita a corte e un trono perso e riconquistato più volte a cavallo della Rivoluzione francese e degli sconvolgimenti napoleonici.
Paga anche il fatto che era napoletano, e parlava napoletano, mentre il padre era madrileno di madre parmigiana. E non era piemontese come Vittorio Emanuele II, vero zotico senza alcuna sensibilità artistica ma di esclusiva cultura militare sabauda, volgare e rozzo sovrano della prima Italia unita, i cui uomini fecero occultare la preziosa statua di Canova al museo di Napoli. Tornò al suo posto solo negli anni Ottanta, quando il sovrintendente dell’epoca si mise in testa di rimettere a posto i conti con la storia.

Una nuova statua dedicata a Ferdinando di Borbone troneggia da oggi sulla rotonda che prelude alla strada che conduce al Real sito di San Leucio. Canova non c’entra nulla, ovviamente. È opera dell’artista don Battista Marcello, non bellissima, ma poco male. Conta che racconti la storia del territorio leuciano, nonché la lungimiranza e l’eccezionalità dello “Statuto di San Leucio”. E conta che, nonostante le resistenze e i mal di pancia di certi ambienti elitari, si proceda nel solco dell’attribuzione dei giusti meriti spettanti a questo sovrano assai bistrattato dai risorgimentalisti, quantunque sia stato figura fondamentale, quanto il padre [Carlo], per il progresso del popolo napoletano e non solo, almeno fino ai tragici e controversi fatti del 1799.


Per approfondimenti: Napoli svelata (Magenes, 2022), Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017), Made in Naples (Magenes, 2013) e Il Re di Napoli (Magenes, 2019).

Il Parmigiano “casertano” dei Borbone

Angelo Forgione  È di Ippolito Cavalcanti, napoletano di Afragola, il primato divulgativo della ricetta della gloriosa Parmigiana di melanzane, altra gloria della cucina napoletana nonostante sulle sue origini vi sia ancora molta confusione. Fu nell’appendice dedicata alla cucina casareccia napoletana della prima edizione della Cucina teorico-pratica, quella del 1837, che spuntò la preparazione delle “Molignane a la Parmisciana”, tradotta in italiano (“Milinsane alla parmigiana”) sette anni dopo nella quarta edizione del trattato, quella del 1844.

Il formaggio Parmigiano, molto usato nei territori borbonici nei dintorni di Napoli, era già ampiamente contemplato nelle ricette napoletane, e a fine Seicento figurava anche tra gli ingredienti della Pastiera. Lo stesso Cavalcanti, nella parte in lingua italiana della sua pubblicazione, fece specifico riferimento al “formaggio pareggiano” per preparare diversi ortaggi “alla Parmeggiana”, un modo di cucinare che faceva riferimento ai territori del Ducato di Parma e Piacenza per le modalità di approntamento: ortaggi affettati, infarinati, fritti, accomodati con Parmigiano e poi cotti. Da questa commistione, nelle cucine di Napoli, nella prima metà dell’Ottocento, nacque la divina Parmigiana di melanzane, preceduta da quella di zucchine.

Del resto, Carlo di Borbone, figlio della parmigiana Elisabetta Farnese, era stato Duca di Parma e Piacenza. Esattamente da quel territorio si era slanciato alla conquista del trono di Napoli. Al Sud, volle continuare ad avere sulla sua tavola il burro e il formaggio Parmigiano, e fece quindi arrivare dai territori di provenienza alcuni esperti casari per avviare la produzione in loco di un Parmigiano “casertano”, tra i primi esempi di imitazione alimentare, se non il primo, anche se a quell’epoca non esisteva la denominazione di origine protetta e il Disciplinare di produzione.

Da quel periodo in poi la produzione di Parmigiano calò sensibilmente in Emilia, a causa di due fattori: le continue guerre nei ducati, con conseguenti requisizioni militari delle campagne, e l’espulsione nel 1768 dal Ducato di Parma dei Gesuiti, che detenevano la produzione del particolare formaggio. Poi, a inizio Ottocento, con l’irruzione del regime napoleonico e le ulteriori requisizioni, la crisi del Parmigiano si acuì drammaticamente. Non se ne trovava quasi più, ma ciò non ostacolò Ferdinando di Borbone, vero stimolatore di un’epocale rivoluzione agricola attorno alla capitale Napoli, nel Casertano e nel Salernitano, da cui originarono, tra le tante eccellenze, la produzione e la conservazione della mozzarella di bufala, quella della pasta di grano duro e la coltivazione del pomodoro lungo. Mentre le popolazioni delle zone settentrionali d’Italia pagavano duramente lo squilibrio nutritivo dato da un massiccio consumo di polenta di sorgo o di mais, priva di vitamine e aminoacidi, e facevano i conti con la terribile pellagra, l’offerta nutritiva napoletana andava ampliandosi per impulso del Re, impegnato anche più del padre a rendere Napoli territorio non solo di consumo ma anche di produzione, attraverso la valorizzazione produttiva di una rete di aziende agricole che andavano creando la matrice per quelle che oggi sono considerate a pieno titolo eccellenze alimentari del territorio campano e anche italiano.

L’irreperibilità del formaggio emiliano, così utile alla cucina borbonica, non fu un insormontabile problema per i cuochi napoletani, dacché Ferdinando implementò la produzione del Parmigiano “casertano” presso la Real Tenuta di Carditello.

Jakob Philipp Hackert, il pittore tedesco convocato nel 1786 per affrescare i siti reali, di Carditello scrisse:
“(…) c’è anche un allevamento, in parte per le mucche che allora erano più di duecento. Nella masseria si faceva buon burro e formaggio parmigiano. (…)”

In un avviso pubblicato sul Giornale del Regno delle Due Sicilie del 10 gennaio 1826 si informava che dalle vacche svizzere del Real Sito di Carditello venivano fuori sufficienti quantità di latte “pel formaggio ad uso parmeggiano” (e per il butiro/burro).

La ripresa produttiva del secondo Ottocento, il supporto delle nuove tecnologie di inizio Novecento e lo slancio del secondo dopoguerra hanno finito per lanciare il Parmigiano su scala internazionale. Oggi, per essere DOP, deve essere prodotto nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova, alla destra del fiume Po. Se lo si producesse nel Casertano, come al tempo dei Borbone, sarebbe un Parmigiano falsificato. Eppure, anche grazie alla disponibilità di quel formaggio taroccato, nelle cucine di Napoli, è nata quella meraviglia che è la Parmigiana di melanzane.

Recentemente il professor Alberto Grandi, docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, è salito alla ribalta per alcune sue dichiarazioni eclatanti sull’origine dei cibi italiani più famosi, sostenendo tra l’altro che il Parmigiano, sparito in un buco di 150 anni tra il 1700 e il 1850 (per i motivi che ho elencato precedentemente, ndr), è riapparso alla fine del XIX secolo nel Wisconsin, nominato Parmesan. E invece, nelle sue ricerche, il Parmigiano scomparso doveva trovarlo dalle parti di Napoli, dove non è mai mancato, piuttosto che concentrarsi sull’emigrazione degli italiani in America di fine secolo.

per approfondimenti: Il Re di Napoli (Magenes, 2019)

Vicenda napoletana di Canova, che ammirò i santi Sansevero più del Cristo velato

Angelo Forgione – Boom di visitatori per la mostra ‘Canova e l’Antico’ al Mann, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Cittadini e turisti non resistono al richiamo del gran maestro del Neoclassicismo, tornato nella città in cui maturò da giovane la sua tendenza verso l’arte classica, formalmente distante dai barocchismi descrittivi ormai al tramonto della stessa Napoli e di Roma.
La prima volta in cui vi mise piede era nel gennaio del 1780, e aveva 22 anni. Scese da Roma in viaggio d’istruzione, per visitare le ricchezze della nuova capitale delle antichità greco-romane, meta imprescindibile per qualsiasi artista di quel periodo anche per il richiamo degli scavi di Ercolano, Pompei e Paestum. Il suo secondo “Quaderno di viaggio” consente di percorrere l’itinerario della sua prima visita a Napoli.

Appena giunto, il trevigiano Canova passeggia per le vie della città, che gli appare “veramente situata in una delle più amene situazioni del mondo”. Passa solo un giorno e scrive: “[…] per tutto sono situazioni di Paradiso […]”.
Vede “il nuovo giardino pubblico, cosa veramente bellissima” (l’attuale Villa comunale), e resta incantato della “deliciosissima situazione di questo Paese”. Visita le chiese e i teatri, e sottolinea la straordinaria dimensione dell’Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga.

canova

Il 2 febbraio è in visita alla Cappella San Severo per ammirare le sculture volute da Raimondo de’ Sangro. È curioso di vedere la Pudicizia del connazionale veneto Antonio Corradini ma ne resta poco entusiasta, preferendole la velata del napoletano Giuseppe Sanmartino, il Cristo. Ma non è questa che apprezza di più, anche se si racconta che abbia provato ad acquistarla. Lo scrive, senza fonti, Gennaro Aspreno Galante nella sua ‘Guida sacra della città di Napoli’ del 1872, avvertendo che “pure i detrattori del Sammartino cercano invano difetti in quest’opera, ma il valente artista sarà sempre sicuro del fatto suo, da che il Canova esibì qualunque prezzo per acquistar questo Cristo”.

Con enfasi ancor più grande si tramanda che il Canova abbia anche dichiarato che avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore di questo marmo incomparabile. I suoi scritti ci fanno capire che si tratta di una delle tante suggestioni create attorno alla magnifica scultura cristica in cui carne e stoffa si fanno marmo, una delle più belle al mondo, sicuramente la più mistica e la più stupefacente agli occhi dell’osservatore, ma apprezzata non quanto altre due dal Canova:

“Questa matina si portassimo nella capella della casa di San Severino. Questa capella è ripiena di statue e depositi di marmo, vi è anco la statua velata fatta dal Coradini […].
Vi sono ancora un Cristo di figura al naturale, posto sopra un lenzuolo, e coperto da un vello, il qualle mi parve di più merito della statua del Coradini, questo Cristo è opera di Giuseppe Sanmartini ora vivente; ma le due statue che mi parve più meritevole furono, una Santa Rosa in gienochioni, e il Santo nella cappella di Facciata […].”

Dichiarato apprezzamento per il marmo di Sanmartino nel confronto delle velate, ma più attenzione per le rappresentazioni di Santa Rosalia e di Sant’Oderisio, entrambe del genovese Francesco Queirolo, pure autore del bellissimo Disinganno.
La prima, dedicata all’antenata di Raimondo di Sangro, morta alla metà del XII secolo e divenuta patrona di Palermo per aver salvato la città siciliana dalla peste del 1624. La seconda, dedicata all’altro antenato santo di famiglia.

Canova visita anche la pinacoteca di Capodimonte e il museo di Portici, dove sono riunite le antichità ritrovate negli scavi recenti.
Il 14 febbraio è a Pompei, “sito che si sta scavando presentemente”, e poi a Salerno e a Paestum. Non si fa mancare l’escursione sul Vesuvio e ai Campi Flegrei, presso l’antro della Sibilla, Baia e la Solfatara. Il 28 febbraio lascia Napoli per Caserta e per Capua, e da lì risale a Roma.

Ritorna altre volte a Napoli, da artista affermato, nella città con cui ha diverse relazioni professionali e che sa essere fondamentale per la sua maturazione. Qui trova in seguito le preziose sculture della Collezione Farnese trasferite da Roma, a rendere Napoli sempre più centro dell’arte classica in Europa. Ferdinando di Borbone ha lanciato l’immagine greco-romana della sua Capitale, nuova Atene e nuova Roma, in cui convivono i tesori antichi e le creazioni moderne. Ha rinunciato alla proprietà privata dell’eredità di famiglia e l’ha resa pubblica trasferendola nel nuovo Real Museo di Napoli (l’attuale Museo Archeologico Nazionale).

Canova è a Napoli nel 1787, per scolpire per il marchese Francesco Maria Berio il gruppo in marmo ‘Venere e Adone’ (oggi a Ginevra), destinato a un tempietto nel giardino del palazzo del marchese in via Toledo.

All’inizio dell’Ottocento, re Ferdinando vuole esser effigiato dall’ormai affermato artista veneto in vesti mitologiche. Il modello è pronto nel 1803. È un Ferdinando assai descrittivo in veste di Atena, protettrice delle arti. È stato infatti proprio il Sovrano a fondare il Museo, il primo dell’Europa continentale, e a volervi trasferire la collezione di antichità. Ma l’avvento sul trono napoletano di Giuseppe Bonaparte nel 1806 frena l’esecuzione. Piuttosto, il francese convoca immediatamente a Napoli Canova perché studi la collocazione in una piazza di un monumento equestre dedicato al fratello.

L’artista diventa un paladino della ricchezza partenopea quando, nell’ottobre del 1808, è chiamato a Parigi da Napoleone per realizzare il ritratto dell’Imperatrice Maria Luigia. Lì rifiuta di assumere incarichi fissi ed esprime all’Imperatore l’intenzione di tornare a Roma alla conclusione del lavoro. E si oppone al corso quando questi gli dice che nella capitale di Francia vi sono ormai tutti i capolavori antichi d’Europa, e che si è riservato per sé l’Ercole Farnese di Napoli, l’unico che manca. «Vostra Maestà, – gli risponde il trevigiano – lasci almeno qualche cosa all’Italia. I monumenti antichi formano collezioni a catena con una infinità d’altri che non si possono trasportare né da Roma né da Napoli». E Napoleone ribatte: «Ma noi faremo Roma capitale d’Italia, e vi aggiungeremo Napoli».

Il progetto del monumento equestre a Napoleone per Napoli lo eredita Gioacchino Murat nel 1809, che emette un bando per la realizzazione di una grande piazza classicheggiante per le assemblee pubbliche, un emiciclo porticato attraversabile davanti il Palazzo Reale, delimitato da due edifici gemelli. Al centro, la statua commissionata al Canova, che nel 1813 torna a Napoli per ritrarre Murat e la moglie Carolina.

Con la Restaurazione e il ritorno di Ferdinando di Borbone, la piazza viene realizzata ugualmente, con le necessarie modifiche al progetto, affidato a Pietro Bianchi, epigono luganese di Canova. Davanti alla basilica, sul cavallo già scolpito per la figura dell’Imperatore decaduto, il Canova suggerisce di porre l’immagine di Carlo di Borbone accoppiata a un monumento gemello dedicato all’erede Ferdinando. Entrambi i sovrani devono essere raffigurati con livree da imperatori dell’antica Roma, significando anche con l’anacronismo delle uniformi la rivendicazione napoletana del gusto neoclassico di impronta vesuviana, peraltro ben chiara nell’ispirazione al Pantheon romano della nuova basilica retrostante del Bianchi.

Al ritorno del legittimo sovrano sul trono napoletano, Canova riprende anche la scultura di Ferdinando rimasta in cantiere, e la spedisce via mare a Napoli alla fine del 1819. Nel 1821, finalmente, la gigantesca statua viene collocata nel Real Museo di Napoli, nel luogo indicato da Canova stesso: una nicchia al centro dello scalone monumentale.

Lo scultore veneto muore nell’ottobre 1822, prima di poter ultimare il monumento equestre a Ferdinando di Borbone per il Largo di Palazzo. Lo completa l’allievo designato per la finalizzazione delle opere incompiute, il catanese Antonio Calì. Giusto in tempo perché possa vederlo il Re, morto nel gennaio 1825.

La grande piazza reale di San Francesco di Paola, il Largo di Palazzo, viene solennemente inaugurata nel 1846, con netta impronta neoclassica, e diventa la piazza simbolo della Capitale. Lo resta anche ad Italia unita, quando i piemontesi rimuovono immediatamente la statua di Ferdinando dallo scalone del Museo. Vi torna solo nel secondo Novecento, a rendere giustizia all’artefice iniziale del più importante museo archeologico d’occidente e all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, “l’ultimo degli antichi, il primo dei moderni”.

per approfondimenti: Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017)