“Vedi Napoli e poi muori”, quale la vera origine del detto?

Angelo Forgione “Vedi Napoli e poi muori!” è un aforisma assai diffuso nell’ambito della letteratura internazionale per descrivere il fascino della città del Vesuvio, così unica da doverla visitare almeno una volta prima di morire. E però proprio nessuno conosce l’origine del celebre detto. Erroneamente, un certa convinzione diffusa vuole che a inventarlo sia stato Johann Wolfgang Goethe, nel secondo Settecento, ma il letterato tedesco, folgorato dalla bellezza di Napoli ben più di qualsiasi altra città italiana visitata, raccolse quanto già dicevano i napoletani e lo riportò nei suoi appunti di viaggio, nella cronaca del 2 marzo 1787:

[…] Della posizione della città e delle sue meraviglie tanto spesso descritte e decantate, non farò motto. “Vedi Napoli e poi muori!” dicono qui. […]

“Siehe Neapel und stirb!”, in lingua madre, e dalla pubblicazione del suo diario nel Viaggio in Italia, datata 1816, quel detto divenne sempre più famoso. Chi ne sia stato il padre nessuno lo saprà mai, ma nel corso delle ricerche e delle letture per la scrittura del manoscritto di Napoli svelata mi sono imbattuto in qualcosa che può giustificare un’ipotesi plausibile.
Ne Il vetusto calendario napoletano nuovamente scoverto, pubblicato nel 1744, si legge:

[…] in Napoli vi è una strada, la quale avea nome, la Regione degli Alessandrini: […] per quest’antica strada degli Alessandrini scendon coloro, che debbono andare ad essere giustiziati su d’un patibolo; dal volgo coll’idiotismo Napoletano è chiamata questa strada, lo vico de li mpisi: […]
Perché d’intorno la Città di Alessandria in Egitto scorre il celebre fiume Nilo, perciò in questa strada dagli antichi Napoletani fu eretta una statua rappresentante il medesimo fiume: […]

“Dunque, la strada degli Alessandrini, conosciuta dal popolo come vico de li mpisi, corrisponde all’attuale via Nilo, lo stretto cardo del Centro Storico Unesco che dal Decumano maggiore scende verso il largo Corpo di Napoli, là dove troneggia la statua del Nilo. Lo conferma il tredicesimo volume della rivista Napoli Nobilissima, anno 1904, con un articolo scritto illo tempore da Alfonso Miola per affrontare la questione della confusione sui nomi delle vie della città, oggetto di cambio di odonimi negli anni precedenti. Vi si legge che nel 1850, tra i vari mutamenti, c’era stato anche quello del vico Bisi, già trasformazione dal vernacolare mpisi, cioè impiccati, diventato Via Nilo.

La strada degli Alessandrini, anticamente, era pertanto divenuta più nota come vico de li mpisi, ossia degli impiccati, perché da lì transitavano a gruppi i condannati al patibolo, e lo facevano obbligatoriamente, percorrendo un itinerario cittadino dettato dalle autorità del tribunale del Regno di Napoli. Non lontano era ubicato il Castel Capuano, che nel Cinquecento era stato convertito in sede della Gran Corte della Vicaria (palazzo di Giustizia) dal viceré don Pedro de Toledo. Lì operava il Sacro Regio Consiglio, che esaminava le principali cause civili e, in ultimo appello, le sentenze civili e criminali dell’intero Regno, mentre i sotterranei erano adibiti a prigioni. E infatti nella pubblicazione Il Decumano Maggiore da Castelcapuano a San Pietro a Maiella – cronache dei secoli passati si legge:

[…] Anche perduto infine, in tempi più felici, è l’altro passaggio (da non rimpiangere affatto) di condannati a morte che, da quando il Castello di Capuana era divenuto sede di tribunale penale e di carcere fino a quando le esecuzioni furono anche pubbliche, uscivano per essere portati, ad esempio terrificante, fino ai vari luoghi del supplizio: perciò l’attuale via Nilo, successivo tratto del percorso, si guadagnò il non invidiabile toponimo popolare di vico “degli Mpisi”, ossia degli impiccati, e così fu detto dal Sei all’Ottocento, salvo che, forse per mascherare il significato macabro del nome, fu anche chiamato dei Bisi. […]

E ancora…

[…] Circa i veri e propri crimini, la giustizia non riusciva a colpire tutti i delinquenti, ma quando ci riusciva, era severissima. Era continua la corrispondenza, così frequente da sembrare immediata, tra i reati commessi e la loro punizione, la quale, secondo la universale convinzione, doveva essere pubblica e in certi casi spettacolare. Con ripetizione quasi quotidiana e spesso con partecipazione molteplice, nella piazza davanti al Castello [Capuano] cominciava il macabro rito delle esecuzioni, col banditore o “trombetta della Vicaria”, che annunciava le sentenze. Poi il corteo avanzava per il decumano finché non svoltava per il già ricordato vico degli Mpisi. […]
[…] i criminali vengono giudicati in Castel Capuano e sono chiusi nelle sue carceri, essi passeranno per la strada di Capuana, fino alla svolta del vico degli Mpisi, per andare a pagare i loro misfatti in piazza Mercato, nel Largo del Castello o al Ponte Licciardo. E i tristi cortei, cominciati nella prima metà del Cinquecento, continuano, sebbene forse meno frequenti ancora nella seconda metà del Settecento, quando Napoli ha raggiunto in tutta l’Europa il colmo del suo prestigio culturale. […]

Pertanto, non vi è alcun dubbio che, tra il Cinquecento e il primo Ottocento, alcuni tra i delinquenti più feroci del Regno erano detenuti nei sotterranei di Castel Capuano, e che, una volta condannati in gruppo, erano obbligati a camminare in processione lungo un percorso prestabilito per raggiungere i luoghi delle esecuzioni. Dovevano perciò attraversare la città e la sua folla, alla pubblica gogna, percorrendo l’attuale Decumano maggiore, alias via dei Tribunali, per poi svoltare a sinistra immettendosi in via Nilo, il vico degli impiccati, e dirigersi in piazza Mercato, in largo Castello e al ponte della Maddalena. In sintesi, una volta usciti dalle buie segrete di Castel Capuano, vedevano per l’ultima volta la luce del sole, la folla, le strade e i palazzi della città, prima di essere giustiziati. Vedevano Napoli e poi morivano.
E quale Napoli vedevano? Quella che certamente al tempo di Goethe, il secondo Settecento, e ancora nel primo Ottocento, era considerata la più bella città d’Europa, come testimonia uno scritto dello storico austriaco Benedikt Pillwein in una sua opera del 1839:

Secondo i rapporti dei viaggiatori che hanno visto le città e le abitudini di molti popoli, Napoli è la prima tra le più belle città d’Europa, Costantinopoli la seconda, Salisburgo la terza.

La testimonianza non è solo nei documenti scritti ma anche nel dipinto seicentesco di Ascanio Luciani ritraente l’esterno del Tribunale della Vicaria. Nella scena compare anche un gruppo di sette condannati incatenati al collo, vigilati da alcune guardie.

Come si evince dalle testimonianze riportate, il rituale dei cortei dei condannati tra la folla era ancora in uso nella seconda metà del Settecento, il periodo in cui Goethe visitò Napoli e apprese dell’esistenza del detto “Vedi Napoli e poi muori”. È verosimile che il tedesco possa averlo riportato nei suoi appunti per descrivere la folgorazione avuta dalla città, facendo l’esperienza personale e comprendendo il padre, che vi era stato prima di lui e ne era rimasto altrettanto estasiato.
Il più grande letterato tedesco di tutti i tempi si convinse che bisognasse assolutamente vedere Napoli almeno una volta nella vita, e quel detto, ascoltato dalla bocca di qualche napoletano, gli sembrò perfetto per comunicare il suo pensiero. Forse vi era un retroscena un po’ macabro all’origine, ma questa è solo una mia ipotesi sia pur fondata su una consuetudine della città antica, quella di vedere la bellissima Napoli prima di morire… al patibolo.

Per approfondimenti: Napoli svelata (A. Forgione)

Il Comune di Napoli ricorda (solo) i giacobini (e inciampa sull’Illuminismo)

Angelo ForgioneNei giorni scorsi, a cura del Comune di Napoli e dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è stata scoperta una targa commemorativa presso l’entrata della Basilica del Carmine in ricordo del martirio dei giacobini napoletani. Giusto ricordare gli eventi drammatici che posero fine alla Repubblica Napoletana del 1799, con le circa 120 esecuzioni tra gli aderenti alla stessa, ma pure manca un ricordo per gli almeno 3000 napoletani del popolo che persero la vita nel tentativo di evitare l’ingresso in Città delle milizie francesi del generale francese Jean Étienne Championnet.
Furono mesi, quelli da gennaio a giugno, molto difficili, sporcati da sangue, morte e barbarie, che impressero una ferita mai rimarginata. La cultura locale è da allora spaccata tra giacobini e sanfedisti, tra repubblicani e monarchici, ma ogni contesa che genera accesi estremismi e distanti fazioni finisce con lo scompaginare gli eventi e renderli poco chiari. La Storia di Napoli è complessa e va invece analizzata serenamente, senza nostalgie, recriminazioni e strumentalizzazioni. Accade quindi che anche il Comune di Napoli incappi in un non lieve errore storico nel comunicato stampa della Giunta (leggi qui), parlando di martirio degli “illuministi napoletani”. Gli uomini della Repubblica Napoletana non erano illuministi ma più correttamente colti esponenti della borghesia filomassonica. Gli illuministi, i riformatori che fecero di Napoli il centro universale dei Lumi, erano stati Pietro Giannone, Giambattista Vico, Bartolomeo Intieri, Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. Gli eccezionali scritti di quest’ultimo animarono gli intellettuali della Repubblica, ma il giurista napoletano aveva sostenuto e consigliato il primo ministro monarchico Bernardo Tanucci; e prima ancora, Antonio Genovesi aveva sostenuto la monarchia illuminata di Carlo di Borbone. Certamente un anello di congiunzione tra il giacobinismo e l’illuminismo furono alcuni figli della dottrina economica di Antonio Genovesi, tra cui spiccava Francesco Mario Pagano; ma questi, dopo l’assorbimento degli influssi rivoluzionari, deviarono il grande Pensiero napoletano rivolto alla soluzione dei problemi locali verso la corrente francese nata da una piattaforma sociale diversa. Quella parte di borghesia massonica era pure stata a Corte, ben vista e agevolata dalla massona Maria Carolina (Eleonora Pimentel Fonseca sua bibliotecaria, Domenico Cirillo suo medico, etc). Fu proprio grazie alla regina che accrebbero posizione e influenza. Tradirono la grande fiducia che la sovrana concesse loro per riformare il Regno quando il Gran Maestro napoletano Francesco d’Aquino fu rimpiazzato nel ruolo di favorito dall’inglese John Acton. Ripicche politiche da perdita di influenza, insomma, e ancora nel 2015 si confonde l’Illuminismo napoletano col giacobinismo, che fu invece il sottoprodotto dell’esterofilia della dotta borghesia filomassonica.
Bisogna anche chiarire il concetto di “rivoluzione”, e chi la fece. Una rivoluzione la fa il popolo, e il popolo, in quei mesi turbolenti, fece la resistenza. Il resto furono intrighi politici e interessi personali annegati purtroppo nel sangue. La “rivoluzione” partenopea non fu compiuta dal popolo napoletano e neanche dagli intellettuali della borghesia, bensì dalle milizie francesi, con lo scopo di assorbire soldi e opere d’arte in città. Dieci anni di tasse non pagate dai cittadini francesi dopo la Presa della Bastiglia necessitavano di rimedio, e l’Italia offriva liquidità da spremere nonché la nuova moda europea del momento, scoppiata col rinvenimento dei reperti vesuviani operato: il Neoclassicismo. Il temibile esercito francese, tra grandi resistenze, entrò a Napoli anche grazie ai giacobini napoletani, che aprirono il fuoco alle spalle del popolo da Castel Sant’Elmo, lasciando a terra migliaia di corpi esanimi. Erano napoletani, popolani, che cercavano di fermare l’ingresso del più forte esercito d’Europa con una strenua resistenza, ammirata dal generale Championnet, lo stesso condottiero che, come testimonia la pubblicazione Souvenirs du général Championnet (Flammarion – Parigi, 1904), annunciava con delle lettere inviate al ministero dell’Interno del Direttorio di Parigi la spedizione di gessi, statue, busti, marmi e porcellane di pregio trafugate a Napoli (lo straordinario pieno di opere d’arte in Italia e oltre consentì a Napoleone di riorganizzare nel 1800 l’esposizione del Louvre). Persino l’Ercole Farnese, principale obiettivo francese, fu imballato e approntato per andare a Parigi. Non partì perché i transalpini indugiarono. Eleonora Pimentel sapeva e qualcosa pure la raccontò sul suo Monitore Napoletano (la sottrazione di tutte le collane d’oro dispensate ai cavalieri del Toson d’Oro). Lei e tutti gli intellettuali giacobini sostenevano la tesi di Parigi per cui la Francia era l’unica nazione capace di garantire l’inviolabilità delle grandi opere e garantirle all’umanità nei secoli futuri.
E fu sempre il popolo a riprendersi la città e il Regno, dopo neanche sei mesi, approfittando dello sbandamento delle truppe napoleoniche, via dall’Italia dopo gli affanni di Bonaparte in Egitto e ovviamente disinteressato a dare protezione agli uomini della Repubblica Napoletana, che nel frattempo non avevano prodotto alcuna riforma politica. Non conoscevano le necessità del popolo, dimostrando di non  aver recepito l’altissimo insegnamento di Genovesi. I dotti massoni di Corte tradirono, sapendo a cosa andavano incontro. Il tradimento, ai quei tempi, era punito dappertutto con la pena capitale. Sapevano anche di mancare di adesione popolare ma erano sicuri di essere protetti dai fortissimi francesi. Fecero male i loro calcoli.
Stime ufficiali indicano circa 3.000 morti a Napoli, ma ne furono di più nell’arco di quei sei mesi; il generale francese Paul-Charles Thiébault, tra i protagonisti di quelle vicende, trascrisse nelle sue memorie la stima di 60.000 vittime in tutto il Regno, limitata ai primi mesi del ‘99. Morti che sembrano non aver mai pesato sul bilancio tra le parti.
E allora, di quale rivoluzione si continua a parlare a distanza di più di due secoli? Qualche anno fa, in una puntata del programma televisivo Passepartout di Philippe Daverio, Nicola Spinosa, ex Sovrintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico di Napoli  (premiato nel 2008 col “FIAC Excellency Award 2008” come uomo che ha più contribuito alla diffusione della cultura italiana negli Stati Uniti), si espresse con toni molto duri nei confronti di chi continua a raccontare male e faziosamente la storia, definendo quella che ancora oggi tramandiamo come “rivoluzione napoletana” come qualcosa che non ha lasciato alcun segno nella cultura della Città, «un recupero storicistico operato da certi settori dell’intellighenzia napoletana» (guarda qui). Settori che hanno stimolato la realizzazione della nuova targa commemorativa in piazza Mercato e che però spingono per dimenticare le migliaia di morti tra il popolo napoletano perché poveri, incolti, straccioni.
Dunque, se è vero che per la repubblica il popolo è sovrano, ricordiamo anche il massacro dimenticato di migliaia di “lazzari” oltre alle notissime decapitazioni tra la borghesia partenopea… per rispetto della Storia e in nome dei diritti civili e della Libertà.

Gerardo Marotta e il “genocidio” che non fu

Angelo Forgione – In un’intervista a Il Mattino del 27/7/14 Gerardo Marotta è tornato a prendersela con Ferdinando IV per il declino di Napoli e per il fatto che nelle scuole – e nelle università, aggiungo io – gli studenti non studiano Filangieri e Genovesi. È una grave privazione delle radici (anche da me denunciata in Made in Naples e in ogni presentazione del libro), ma cosa c’entra il Re Lazzarone?
Sempre rancoroso per la repressione della Rivoluzione Partenopea del 1799, Marotta definisce le dolorose cento esecuzioni degli intellettuali napoletani un “genocidio” ed è francamente troppo. Certamente al patibolo venne cancellata l’eredità del “nutrimento” che aveva costituito la linfa del secondo Settecento napoletano cui attinse il mondo intero, ma erano quelli uomini favoriti da Maria Carolina e accolti a Corte prima di preparare il grande tradimento. Un centinaio di uomini di élite puniti con la pena capitale non possono equivalere a migliaia di civili massacrati in battaglia dai francesi e dagli stessi repubblicani napoletani, pronti a colpiri alle spalle da Castel Sant’Elmo. Parlare di “genocidio” appare francamente una forzatura.
Marotta non può non sapere che quella cerchia di intellettuali napoletani di parte giacobina anti-monarchica non mossero un dito in quella rivoluzione, che fu voluta e protetta militarmente dalle truppe francesi per gli interessi di Parigi, prontissima a sottrarre risorse e arte in Italia. E non può non sapere che quegli stessi intellettuali furono bravi a teorizzare ma molto meno a praticare, perdendo il governo della città dopo soli sei mesi di isolamento e di completa sterilità riformistica, e perché non più protetti dalle truppe transalpine, indebolite dall’impasse di Napoleone in Egitto.
Fu davvero l’inizio della fine, come dice Marotta? Non andrei a quella data, e neanche al 1860, perché l’Italia è repubblicana dal 1946, e in settant’anni non ha avuto la volontà di risolvere i suoi problemi interni. Ce la vogliamo prendere ancora con le cento esecuzioni del 1799?
Genovesi e Filangieri non sono studiati a scuola e nelle università d’Italia, non del Regno di Napoli. Questa interminabile querelle intorno al 1799 continua a produrre danni e a confondere le idee perché gli uomini della Rivoluzione furono proprio quelli che deviarono il grande pensiero illuminista napoletano verso le idee del giacobinismo francese, snaturando proprio la dottrina innovatrice e maestra di Antonio Genovesi, che non era anti-monarchica. E lo stesso Gaetano Filangieri sostenne il primo ministro Bernardo Tanucci. l’Illuminismo partenopeo non va confuso con il giacobinismo napoletano, proprio il movimento che assorbì gli influssi francesi e snaturò la corrente realistica. Dico con fermezza che la storia di Napoli va analizzata con serenità e senza strumentalizzazioni, nostalgie e recriminazioni.