Carlo Panella: «Porcate di Colonia come in Sicilia». Ma i dati lo contraddicono.

Angelo Forgione Bufera siciliana sulla Rai per una frase dello scrittore Carlo Panella. Durante la trasmissione Uno Mattina In Famiglia di sabato 16 gennaio, il genovese ha commentato i presunti stupri di massa a Colonia sostenendo che «dietro Colonia c’è la dinamica del branco, un gruppo di maschi ubriachi, testosterone, che fanno le porcate che facevano i maschi in Sicilia e che forse fanno ancora in Sicilia» (clicca qui per guardare il video).
Movimenti e associazioni siciliane in rivolta, con pretesa di scuse da parte di Panella e indignazione per il conduttore Tiberio Timperi per non aver fermato quello che viene definito “delirio razzista”, ma anche per l’assenza di replica da parte dell’avvocata palermitana Giulia Bongiorno, presente in studio.
Non si può non condividere l’idignazione dei siciliani. Anche perché i dati sulle violenze sessuali, riferiti agli ultimi dieci anni, condannano il Nord (58%) più che il Sud (7%) e le Isole (13%). Qualche mese fa li ha snocciolati proprio in Rai, alla trasmissione Superquark, il professor Emmanuele Jannini, docente di Endocrinologia all’Università di Roma Tor Vergata. «Ci siamo resi conto – ha detto Jannini – che, contrariamente a quello che pensavamo, il Nord è il posto dove è più pericoloso essere donna, mentre il Sud è il fanalino di coda. I dati sono motivati probabilmente dalle diverse influenze culturali nella società settentrionale».
Anche i dati europei riportati in un’indagine condotta dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali dicono che gli abusi di genere sono più diffusi nell’Europa del Nord: al vertice della classifica infatti troviamo la Danimarca (con il 52% di donne che raccontano di avere subìto violenza fisica o sessuale dall’età dei 15 anni), la Finlandia (47%) e la Svezia (46%). A seguire i Paesi Bassi (45%), Francia e Gran Bretagna (44%), mentre l’Italia si piazza al diciottesimo posto (27%). Un po’ come per suicidi e uso di psicofarmaci, il dato dimostra che più ci si approssima alle aree nordiche ricche e più l’incidenza del fenomeno aumenta.
Non si può non considerare, infine, che la cultura maschilista italiana è oggi incarnata dall’offensiva visione della donna diffusa delle tivù di Berlusconi e dalle sue lussuose avventure extra-politiche. E se vogliamo andare agli albori della Nazione, è bene ricordare che i primi stupri d’Italia li commisero Bersaglieri e Carabinieri del Regno di Sardegna, (comprendente la Genova di Panella) ai danni delle donne del Sud, in nome del disprezzo etnico e della diversità culturale. «Contrariamente a quel che pensavamo», dice il professor Jannini. Contrariamente a quello che pensa e dice Panella.

“Napoli inventò le zeppole, tutta Italia se ne leccò le dita.”

zeppola

Angelo Forgione – Festa di San Giuseppe, e si conclude la Quaresima, con la Pasqua alle porte. Una ricorrenza davvero molto sentita a Napoli almeno fino al secondo conflitto mondiale. Portava anticamente la fiera degli uccelli e quella dei giocattoli, che avevano luogo vicino alla chiesa cinquecentesca di San Giuseppe, da cui prendeva il nome l’intero rione di Monteoliveto, finché questa non fu demolita per il Risanamento, e allora la fiera fu spostata in via Medina. Oltre i volatili, si potevano trovare cuccioli di cani di tutte le razze, di gatti e di conigli. Di balocchi se ne regalavano più o meno come oggi a Natale e come, a quel tempo, all’Epifania. Non erano i figli a fare regali ai padri quando il 19 Marzo non era ancora la Festa del Papà ma una data particolare per i napoletani, perché segnava il cambio di stagione. Tutti gli uomini riponevano la bombetta nell’armadio per indossare la paglietta e i pantaloni bianchi di flanella. Anche le donne si alleggerivano un bel po’.
Il giorno del Santo, di fronte alla chiesa di San Giuseppe si disponevano le bancarelle con le zeppole, dolci fritti a forma di serpe avvitata su se stessa, una serpula, dal latino serpens. Qualcuno dice che furono inventate da un cuoco dei Borbone, cui sarebbe stato chiesto di preparare un dolce per la Quaresima privo di uova e di grassi animali, allora proibiti. Qualcun altro, invece, sostiene che la maternità sia tutta da attribuire, in tempi più antichi, alle monache dei decumani. Sulla zeppola la confusione regna sovrana, anche sulle sue diverse versioni. Mettiamo un po’ d’ordine.

Si è incompleti nell’indicare per “zeppola” il dolce napoletano fatto con pasta a bignè e guarnito sopra con della crema pasticcera e un tocco di amarena. Attenzione: si tratta più precisamente di “Zeppola di san Giuseppe“, un’invenzione del 1840 firmata dal pasticcere Pasquale Pintauro sulla strada di Toledo, che prese spunto dalla tradizione locale delle antiche “zeppole napoletane“, semplici frittelle dolci partenopee. Secondo la prima ricetta, scritta nel ricettario in dialetto napoletano di Ippolito Cavalcanti del 1837, erano di farina buttata nell’acqua bollente arricchita da un po’ di vino bianco, e poi fritte con l’olio o con la sugna per averne un bigné da guarnire con zucchero o miele. Il grande cuoco-letterato usò il termine “tortanielli” per descrivere la forma a serpentelli avvitati su se stessi. Dopo qualche anno, la ricetta fu tradotta anche in italiano.

Le “zeppole napoletane” si preparavano in tutti i periodi dell’anno. A Carnevale, alla farina si aggiungevano delle patate lessate per dare una sensazione di straordinaria morbidezza al palato. Avrete capito che si tratta della tipica “graffa napoletana“, il cui nome è una napoletanizzazione del “krapfen” austriaco, a evidenziare il dialogo storico Napoli-Vienna anche in termini di leccornie.

Di “zeppole napoletane” se ne trovavano con maggior facilità per strada il 19 marzo, giorno in cui gli zeppolajuoli allestivano dei banchetti nel giorno del tradizionale struscio di primavera sulla centralissima strada di Toledo, quando i napoletani iniziavano a indossare abiti più leggeri. Finivano tutti per deliziarsi con una zeppola tradizionale a ciambelletta, e dal 1840 in poi, anche con una “tonda” o “del pasticciere”, come definì la nuova zeppola di Pintauro il filologo Emmanuele Rocco, che nel 1866, fantasiosamente, avrebbe voluto addirittura un monumento cittadino con la seguente epigrafe: “Napoli inventò le zeppole, tutta Italia se ne leccò le dita”. Doveva esserne ghiotto visto che le riteneva uno dei tanti privilegi che gli italiani avevano avuto in dono dai napoletani.

Pasquale Pintauro, che su Toledo stava (e ancora sta), aveva arricchito l’impasto di uova e ne aveva fatto un bignè corposo, in modo da poterlo guarnire come la sfogliatella Santa Rosa, con crema pasticciera e amarena. Aveva fatto la rivoluzione della zeppola, e inventato la più elaborata “zeppola di san Giuseppe”. E siccome, proverbialmente, “tene ‘a folla Pintauro”, è facile immaginare l’esito dell’operazione.

Il Rocco, da studioso di cose partenopee, aveva individuato anche una variante rettangolare destinata ai più poveri, detta “dello zeppolajuolo”, che vale a dire ‘o scajuozzolo, fatta con farina di granturco, fritta e priva di qualsiasi guarnizione, da cui l’uso contemporaneo del termine “zeppola” per definire anche la semplice pasta cresciuta, pastella lievitata, talvolta con alghe di mare, fritte e salate.
Dunque, la zeppola, comunque sia, dolce o salata, è pastella rigorosamente fritta, non al forno. Del resto, san Giuseppe è anche il protettore di chi frigge, “i frittaruoli”, come si definivano nel Settecento napoletano. Li citò Goethe, curioso di termini partenopei, raccontandone le gesta vedendo le frittelle napoletane, cioè le zeppole antiche pre-Pintauro, nella strada di Toledo il 19 marzo 1787:

(traduzione)
“Oggi poi ricorreva la festa di S. Giuseppe, patrono dei friggitoria, o «frittaruoli»; e siccome l’arte di questi richiede di continuo fuoco vivo, ed olio bollente, ogni tormento per mezzo del fuoco entra nella competenza del santo; epperciò, fin di ieri sera le case, le botteghe dei friggitori, erano ornate di quadri, di pitture, le quali rappresentavano il purgatorio, il giudizio universale, colle anime sottoposte alla pena delle fiamme. Ampie padelle stavano davanti alle porte, sopra focolari leggieri e portatili; un giovane porgeva il piatto dove stava la farina, un altro formava le frittelle (zeppole, ndr), e le gittava nella padella dove bolliva l’olio, ed ivi un terzo giovane, muoveva con un asta in ferro le fritelle, le traeva fuori quando erano cotte a dovere, porgendole ad un quarto giovane, il quale le infilava in uno spiedo più leggiero, e le offeriva agli astanti. […] Il popolo si affollava attorno alle padelle, imperocchè in quella sera le frittelle (zeppole, ndr) si vendono a minor prezzo, ed anzi una parte n’è riservata per i poveri. […]”

Quando, nel 1968, il giorno di san Giuseppe fu reso Festa del Papà, la fiera era già in via Medina e la zeppola era ormai famosa in tutt’Italia, conosciuta anche oltreoceano grazie agli emigranti. Da allora i ruoli si invertirono e iniziarono i figli a fare regali al proprio padre. Il Santo non proteggeva solo ogni papà ma anche, in modo specifico, tutti i falegnami, e di legno era il suo bastone, Un avanzo di questo legno, autentico o fasullo che fosse, finì a Napoli nel primo Settecento per essere custodito in una nicchia del palazzo di Chiaia del tenore Nicola Grimaldi, controllato a vista da un servitore il cui compito era quello di evitare che fosse toccato. “Nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe” era, in napoletano, l’esortazione a non usurare il sacro bastone, poi divenuta un diffuso e tipico modo di dire del popolo per invitare a non infastidire, mentre la famosa mazzarella finiva per essere tradotta nella congregazione di San Giuseppe dei Nudi a San Potito, in via Giuseppe Mancinelli, dove oggi è gelosamente conservata.

Napoli, Fiera di San Giuseppe in via Medina (Ph: Archivio Parisio – Renato Bevilacqua)

Violenza sulle donne: al Sud è più sicuro essere donna

violenza_donneAngelo Forgione – Emmanuele Jannini, docente di Endocrinologia all’Università di Roma Tor Vergata, nel corso del puntata di Superquark del 3/7/14 ha commentato i dati sulla violenza sulle donne in Italia relativi all’ultimo decennio.
«Ci siamo resi conto che, contrariamente a quello che pensavamo, il Nord è il posto dove è più pericoloso essere donna, mentre il Sud è il fanalino di coda. I dati sono motivati probabilmente dalle diverse influenze culturali nella società settentrionale».
Se è relativamente semplice comprendere cosa ci sia dietro il “contrariamente a quel che pensavamo” del professor Jannini, ovvero la correlazione tra violenza sulle donne e povertà, più criptica è la sua spiegazione del fenomeno. Tra il 7% del Sud e il 58% del Nord c’è una bella differenza, non certo uno scarto minimo. Cosa vuole intendere il professor Jannini quando parla di diverse influenze culturali? Forse che gli stupri e le violenze sulle donne nei territori settentrionali sono da attribuire solo agli extracomunitari e ai meridionali che lì vivono?
I dati europei riportati in un’indagine condotta dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali dicono che gli abusi di genere sono più diffusi nell’Europa del Nord: al vertice della classifica infatti troviamo la Danimarca (con il 52% di donne che raccontano di avere subìto violenza fisica o sessuale dall’età dei 15 anni), la Finlandia (47%) e la Svezia (46%). A seguire i Paesi Bassi (45%), Francia e Gran Bretagna (44%), mentre l’Italia si piazza al diciottesimo posto (27%). Un po’ come per suicidi e uso di psicofarmaci, più ci si approssima alle aree nordiche ricche e più l’incidenza del fenomeno aumenta. La verità è che la violenza sulle donne, come tutti i drammi sociali, è frutto di un intreccio di altri problemi sociali (povertà, alcolismo, droga, sofferenza psichiatrica, bassa scolarità), di commistioni culturali certamente, ma anche di un diverso rispetto del gentil sesso. Rispetto che nelle aree povere è ancora forte perché non pregiudicato dalla mercificazione. Del resto, la cultura maschilista italiana è oggi incarnata dall’offensiva visione della donna codificata dall’avvento delle tivù di Berlusconi e dalle sue lussuose avventure sessuali che devono indignare e non divertire. E se vogliamo andare agli albori della Nazione, i primi stupri d’Italia li commisero Bersaglieri e Carabinieri piemontesi, ai danni delle donne del Sud, in nome del disprezzo etnico e della diversità culturale… contrariamente a quanto si possa pensare.

La Coldiretti e il compleanno sbagliato della pizza “margherita”

l’associazione festeggia i 125 anni di una pizza che ne ha almeno 204

Angelo Forgione per napoli.com – A rammentare il 125esimo anniversario della pizza “margherita” è la Coldiretti, e sbaglia. Lo fa riferendosi alla lettera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, che nel giugno del 1889 convocò il cuoco Raffaele Esposito della pizzeria “Pietro… e basta così” al Palazzo di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse per Sua Maestà la Regina Margherita le sue famose pizze. Ma, come attestato da ormai noti testi ottocenteschi, Raffaele Esposito, in quell’occasione non inventò la pizza con pomodoro, basilico e mozzarella ma la fece semplicemente conoscere alla regina piemontese. Già nel 1866, infatti, il filologo Emmanuele Rocco, nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti del 1858, coordinato da Francesco de Bourcard, parlò di combinazioni di condimento con ingredienti vari, tra i quali basilico, “pomidoro” e “sottili fette di muzzarella”. E le fette, distribuite con disposizione radiale, disegnavano verosimilmente il fiore di campo su una pizza che Raffaele Esposito avrebbe proposto quarant’anni dopo alla regina sabauda.
La nascita della “margherita” è databile all’inizio dell’Ottocento, ben in anticipo rispetto all’omaggio ai Savoia di Raffaele Esposito. Del resto la produzione della mozzarella fu stimolata nei laboratori della Reale Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, un innovativo laboratorio avviato nel 1780, mentre il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in dono al Regno di Napoli dal Vicereame del Perù, e ne fu subito radicata la coltura nelle terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico produsse una saporitissima varietà. È dunque assai arduo credere che i napoletani abbiano potuto metterci più di cento anni per versare pomodoro e mozzarella, insieme, su una pizza.
Il fatto è che si ignora il Regolamento UE n. 97/2010 della Commissione Europea riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010 accreditante la denominazione Pizza Napoletana STG nel registro delle specialità tradizionali garantite, che al punto 3.8 dell’Allegato II, riporta testualmente:

“Le pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “margherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel 1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico) che ricordano la bandiera dell’Italia.”

Offerta alla regina d’Italia, dunque, non inventata per la regina d’Italia. La pizza “margherita” di anni ne ha almeno 204.