
Angelo Forgione – Niente diretta televisiva, neanche su Rai 5, per la prima del Real Teatro di San Carlo, a differenza del trattamento sempre riservato alla prima de La Scala su Rai 1.
Ad aprire la polemica, la sovrintendente uscente del Massimo napoletano, Rosanna Purchia, seguita a ruota dal sindaco Luigi De Magistris, anche presidente della fondazione lirica sancarliana. Il primo cittadino partenopeo dice di non essere lui a scoprire che il Sud è discriminato e che c’è grande attenzione per Napoli solo quando accadono fatti negativi, anche se questi avvengono a distanza di chilometri dalla città.
Chiamatelo pure populismo ma non vittimismo. È una cruda verità che alla cultura del Mezzogiorno non si renda giustizia e che l’immagine che se ne dà sia oggetto di processi di semplificazione e di caricatura. Lo ha certificato il professor Stefano Cristante, docente settentrionale di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, snocciolando nel libro La parte cattiva dell’Italia del 2015 un monitoraggio condotto insieme alla collega Valentina Cremonesi sugli argomenti trattati dal Tg1: dal 1980 al 2015, per trentacinque anni, solo il 9% delle notizie apparse sul telegiornale più seguito dagli italiani sono state dedicate al Sud Italia, e di questo 9% si è trattato per il 75% di cronaca e criminalità, seguito dal meteo e dal welfare, tradotto in malasanità. Lo stesso vale per il Corriere della Sera e per la Repubblica, che hanno dedicato al Mezzogiorno uno spazio sempre più marginale e dedicato quasi esclusivamente a due sole categorie: criminalità/cronaca nera e meteo/natura. Insomma, il Mezzogiorno è raccontato come terra della criminalità e del degrado.
Ciò per cui eccelle il Sud, sostanzialmente, non viene rappresentato, e non è solo un problema riferito a giornali o trasmissioni di chiara impronta discriminatoria. Alla prima della Scala erano presenti il Presidente della Repubblica Mattarella e tre ministri dell’attuale esecutivo di Governo. A Napoli nessuno a rappresentare lo Stato, neanche il ministro Franceschini, che pure ha capito le potenzialità di Napoli e della Campania. Va bene la centralità contemporanea della Scala, ma il San Carlo ha un’anzianità e una bellezza superiori alle quali Milano asburgica guardò per dotarsi di un teatro che somigliasse a quello borbonico. Il grande teatro lirico napoletano, fondamentale per la storia della Musica, meriterebbe un minimo di attenzione nazionale, anche per attribuire al Sud quel che è del Sud.
Ai responsabili dei palinsesti Rai e agli uomini della politica consigliamo l’approfondimento della figura settecentesca di Karl Joseph Von Firmian, governatore di Milano e grande appassionato della cultura di Napoli. Fu l’asburgico plenipotenziario a chiedere ai Borbone di poter disporre in Lombardia di Luigi Vanvitelli con i suoi due migliori allievi: il figlio Carlo e Giuseppe Piermarini. Quest’ultimo realizzò La Scala, dopo aver imparato a Napoli l’architettura teatrale, studiando i rilievi del Real teatro di San Carlo e il progetto vanvitelliano del Teatro di corte alla Reggia di Caserta. Roba che in quest’Italia non si studia, e neanche si divulga in tivù. Figuriamoci se si possa mai dare attenzione alla prima del San Carlo.
Domenica 25 agosto andrà in onda una puntata di “Speciale Tg1” che rivisiterà i drammatici eventi del colera a Napoli del 1973, a quarant’anni dall’epidemia che colpì non solo la città partenopea ma anche altre città del bacino del Mediterraneo.
I media dell’epoca alterarono la realtà, consegnandola al pregiudizio, rompendo le ossa all’immagine della città. Solo quando dopo trenta giorni a Napoli tutto finì fu reso noto che il vibrione era nelle cozze tunisine. Nessuno però descrisse più l’epidemia che perdurava altrove, mentre Napoli si ritrovò orfana di turisti, ormai convinti che fosse una Calcutta italiana. Negli stadi d’Italia, luogo di crescente calciocentrismo nazionale, il Napoli di Vinicio fu da allora accolto al grido di “colera”, e fu proprio in quel momento storico che nacque quel coro/slogan razzista ancora ben radicato e mai contrastato dagli ipocriti organi preposti al contrasto dei fenomeni razziali negli impianti sportivi. Baresi, palermitani, cagliaritani e catalani non sono apostrofati come “colerosi”, e neanche i tifosi delle squadre di Milano, Genova, Torino, Verona, Treviso, Venezia, Trieste, Parma, Modena, Como, Bergamo, Brescia e altre città del Nord non bagnato dal mare ma colpite nell’Ottocento da diverse pandemie di colera per le scarse condizioni igieniche e non per delle cozze importate.
