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Napoli pericolosa? Sì, perché fa innamorare.
Angelo Forgione – Il The Sun di Londra bolla Napoli come una delle undici città più pericolose al mondo. Esagerazione!
Non siamo di fronte a un problema nuovo. Gli inglesi, nel solco della loro storica ambiguità, hanno sempre raccontato tutto il bello e tutto il brutto di Napoli. Siamo semmai di fronte a un sensazionalismo più spinto, a una narrazione della realtà che non corrisponde alla realtà, e che ne amplifica ancora di più la percezione, dettata da una narrazione cinematografica del Male napoletano di grande successo. Qui non si tratta di un reportage confezionato da un bravo giornalista che ha girato il mondo ma di un cimento estemporaneo, tipico del The Sun, di tale Guy Birchall, che certamente si è spostato dal divano del suo salotto alla scrivania prima di sentenziare.
Il problema ha chiaramente una radice interna. Gli stereotipi su Napoli hanno un’origine toscana. Già nel Quattrocento, il sacerdote fiorentino Piovano Arlotto scrisse nei suoi Motti e Facezie che “L’aria di Napoli opera bene in tutte le cose e male negli uomini che nascono di poco ingegno, maligni, cattivi e pieni di tradimenti. E senza dei quali Napoli sarebbe un paradiso”. Eppure allora si parlava di “Napoli gentile”, e non c’era ancora la camorra, e non tutti i mali italiani di cui è afflitta oggi la metropoli. Penso proprio si trattasse di rivalità tra Firenze e Napoli (non tra le due corti medicea e aragonese, in stretti rapporti), due grandi realtà rinascimentali d’Europa in un’Italia totalmente conflittuale e in un’epoca in cui i mercanti fiorentini, già dal Trecento, trafficarono nella Napoli angioina.
Dal momento che il male fa da sempre più sensazione del bene, certe metafore hanno evidentemente esercitato nei secoli la loro energia negativa in misura ben maggiore di quella positiva. Da lì si arriva al famoso “paradiso abitato da diavoli”, che poi trova terreno fertile nel Positivismo tardo ottocentesco, il vero propagatore degli stereotipi su Napoli in Italia e poi in ogni angolo del mondo. Del resto, anche i napoletani ripetono spesso il detto «‘O presebbio è bello ma ‘e pasturi nun so’ bbuoni». Ora, però, la notizia diffusa dal The Sun fa riflettere sul ruolo del giornalismo che si affida alle fiction che raccontano la cattiveria di certi napoletani, non alle fonti statistiche, e tantomeno all’esperienza diretta.
Napoli è malata, molto, non c’è dubbio, ma certamente non infettiva. Anzi.
Scrivo in Napoli Capitale Morale:
“Gli stereotipi italiani abbondano, e sono diventati anche i luoghi comuni degli stranieri circa l’Italia intera, nazione che si affanna a emanare di Milano un’immagine limitata alla sua benedetta modernità e di Napoli il racconto di un regno folcloristico e maledetto. Ad essere più penalizzata è certamente la capitale meridionale, capace di meravigliare il tradizionale turismo culturale ma snobbata dai nuovi flussi, quelli meno sapienti, che antepongono il lusso all’arte […] che puntano sul centro lombardo non principalmente per ammirarne le meraviglie artistiche e le testimonianze della storia ma attratti dal Quadrilatero della moda, smaniosi di andar per negozi nelle vie dalla capitale dello shopping, e di portare a casa il più costoso made in Italy da ostentare. Gli altri, i viaggiatori con conti in banca più asciutti, desiderosi di scoprire l’Italia, approdano a Napoli cercando la napoletanità e l’autenticità, vogliosi di immergersi nell’humus locale, protesi ai sapori e ai colori della tradizione, spesso ignorando la più nobile ricchezza partenopea. Da qui sorge l’effetto sorpresa, il classico stupore che ci si porta via concludendo l’esperienza sensoriale e inaspettatamente intellettuale all’ombra del Vesuvio. Napoli finisce per piacere in maniera imprevista, pur con tutte le sue criticità moderne, e con l’essere considerata una destinazione irripetibile, non globalizzata, una città con un patrimonio materiale ed immateriale che la rende unica. Solo allora svaniscono pregiudizi e paure di ritrovarsi in un far west del Duemila, e prendono il sopravvento percezioni diverse sui reali valori della città vesuviana.
[…]
Dal dopoguerra in poi, gli elementi dominanti della narrazione di Napoli e di Milano sono diventati la criminalità organizzata napoletana, autorizzata a sostituirsi allo Stato sul territorio, e la finanza milanese, che ambisce a prendere il posto di quella londinese nel dopo Brexit. Il paradosso […] di Napoli, assai pernicioso, è l’occultamento dei suoi enormi e positivi valori dietro l’immagine imposta del Male […].
Sgarbi shock: «denapoletanizzare Pompei»
Il critico d’arte smonterebbe le rovine per rimontarle altrove
Angelo Forgione – In un’intervista a Il Giornale, e poi in varie radio, Vittorio Sgarbi ha parlato dello stato di abbandono e degrado in cui versa Pompei, proponendo una “denapolenatizzazione” del sito archeologico per sottrarlo ai problemi del Sud e trasformarlo poi in un club Mediterranée. Il critico d’arte vorrebbe portare idealmente gli scavi al Nord, diversamente da quanto detto da un altro critico d’arte, quel Philippe Daverio, meno fumoso e più concreto, che, al contrario, ha chiesto di sottrarre Pompei all’inadeguata e fallimentare Italia perché se ne occupi l’Europa. Sgarbi è ben cosciente che le antiche città romane ci sono perché la lungimiranza dell’antico governo borbonico del Sud le riportò alla luce e che, finché era il Sud ad occuparsene autonomamente, erano in continua evoluzione. Sgarbi non può dimenticare che Pompei non è sotto l’egida della Regione Campania ma sotto quella dello Stato italiano che ha clamorosamente fallito, e non solo sotto al Vesuvio. E allora, Pompei non è da denapoletanizzare ma, semmai, da deitalianizzare. Napoli ha indicato la via della cultura all’Europa e sono state le classi dirigenti dell’Italia unita, figlie delle ideologie politiche sorte a inizio Ottocento, a spegnere la cultura della città di Giambattista Vico, padre dell’Illuminismo napoletano, italiano ed europeo. A Napoli, che assorbe simili attacchi da più di un secolo, tocca sopravvivere al moderno torpore della cultura, ad un sistema italiano che sta consegnando i suoi monumenti unici alla rovina. È Napoli che è sotto denapoletanizzazione (in Made in Naples dedico l’ultimo significativo paragrafo proprio a questo processo), nel senso che è costretta a perderà lentamente la sua identità, e non è certo la città partenopea, comunque uno dei pochi centri di grande cultura del Paese, a spegnere la cultura italiana… per cui non c’è più attenzione e rispetto. Proprio Sgarbi, qualche tempo fa, ebbe a dire in tv che i fermenti culturali di Napoli sono superiori a quelli di Milano. «Napoli vive, Milano muore… smettiamola di dire che Milano è la capitale, è la capitale del c…o, del nulla», disse il critico d’arte a L’Ultimaparola. E allora voglio sperare che per Pompei denapoletanizzata abbia voluto intenderla sottratta alla morte culturale che l’Italia sta imponendo soprattutto al Sud. Sposo comunque la forma di denuncia di Philippe Daverio, corretta e ineccepibile.
minuto 2:25
Sgarbi “scambia” Sloan per napoletano tra risse e nervosismo
Nuovo trash-show al “Cristina Parodi Live” dove già qualche settimana fa era andata in scena la performance di Michaela Biancofiore.
Si parla di Berlusconi e prostituzione minorile e, Vittorio Sgarbi, un abituè delle risse televisive, si scalda per una domanda di John Peter Sloan: «Tu che difendi così il Cavaliere, ci sei mai stato alle cene di Arcore?». E il focoso critico d’arte va in ebollizione, visibilmente infastidito dalle idee e dalla veemenza dell’interlocutore. inglese di Birmingham, che Sgarbi “scambia” per napoletano. Notevole anche il ruolo da co-protagonista di Cristina Parodi che, tradendo un certo nervosismo, zittisce solo Sloan con uno «shut up!» (stai zitto!) di cattivo gusto, invitando Sgarbi a capire l’indole dell’amico inglese.
Sloan avrà preso il sarcasmo di Sbarbi per un complimento, lui che tifa Napoli perché, lavorando come cantante sulle navi da crociera, ha apprezzato la passione dei napoletani dell’equipaggio. «Vedere la loro felicità quando il Napoli vinceva, una gioia che ripagava la tanta fatica del loro duro lavoro, era uno spettacolo – ha detto in un’intervista l’artista britannico – e così sono diventato un simpatizzante degli azzurri».