L’Umberto assassinato e imbrattato

Angelo Forgione – Cola vernice rossa sul basamento della statua di Umberto I di Savoia sul lungomare di Santa Lucia a Napoli. Che si tratti di anarchici, filoborbonici o semplici vandali, a rimetterci è comunque il decoro della città, al di là dell’accanimento che la storia sembra non voler risparmiare a una figura assai discutibile, morto nel 1900 al quarto tentativo di regicidio subito.
Solo dieci mesi dopo la sua salita al trono d’Italia, nel 1878, Umberto I rischiò di raggiungere prematuramente il defunto padre Vittorio Emanuele II. Gli anarchici repubblicani Alberigo Altieri a Foggia e, più efficacemente, Antonio Passannante a Napoli, tentarono di scagliarvisi contro per ucciderlo, un giorno dopo l’altro. Il secondo aspirante regicida, di origine lucana, tentò l’assassinio durante un corteo reale in via Toledo, e dichiarò durante l’interrogatorio che con il suo gesto aveva provato a riscattare lo stato di disgrazia in cui il Mezzogiorno era stato condotto dalle politiche del Regno d’Italia.
Nemmeno l’operazione simpatia che condusse viaggiando per l’Italia riuscì a metterlo al riparo dall’odio che certe frange occulte provavano per lui, dettato dalle condizioni di avanzante miseria in cui non solo il meridione ma anche il resto del Paese, sia pure in misura minore, versavano sotto il suo trono.
La buona legge per il Risanamento di Napoli, necessaria per risolvere le problematiche igieniche di alcuni rioni di Napoli dopo il colera del 1884, fu strumentalizzata per un’operazione di vantaggiosa speculazione edilizia a beneficio di società immobiliari e bancarie torinesi e romane, che contribuì alla creazione di una bolla edilizia nelle principali città d’Italia, esplosa con lo scandalo della Banca Romana.
Un terzo attentato si verificò nel 1897, stavolta a Roma, dopo che il sovrano restò implicato nello scandalo per via del suo personale indebitamento proprio con la Banca Romana. L’anarchico laziale Pietro Acciarito si mescolò tra la folla all’ippodromo delle Capannelle e si lanciò verso la carrozza reale armato di coltello. Ancora una volta, il Re schivò l’offensiva e ne uscì illeso.
Alla fine qualcuno riuscì ad ucciderlo. Il Re pagò con la vita il conferimento della Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia e la carica di senatore al generale Fiorenzo Bava Beccaris, responsabile di uno dei più gravi eccidi delle forze dell’ordine nella storia della Nazione, la spietata e sanguinaria repressione della cosiddetta “rivolta dello stomaco” di Milano. Umberto I fu assassinato a Monza nell’estate del 1900 dall’anarchico toscano Gaetano Bresci. Se nei primi tre attentati le lame non erano andate a segno, i colpi di rivoltella al polmone e al cuore de Re non lasciarono scampo.
La statua che oggi lo vede esattamente al centro della colmata di Santa Lucia, ad osservare la bellezza del Golfo di Napoli, è effigie elevata a somma figura morale della moderna storia nazionale nei libri di storia, negli odonimi stradali e, appunto, sui basamenti monumentali dello Stivale. Lui e tutti i cosiddetti “padri della patria”, di fatto ladri della patria Napolitana, sono ancora ben saldi a indicare ai meno sprovveduti quanto influente sia stata ed è la Massoneria in un paese di profonde radici cattoliche.
Mi piacerebbe non vederle più certe statue, ma finché insisteranno preferisco il sacro valore del decoro della città. Poco male, perché per certe sculture la ripulitura è pressoché immediata, mentre altre restano imbrattate per anni.

per approfondimenti: Napoli Capitale Morale (Magenes)

L’assassinio di Umberto I, il re dell’Italia affamata

Angelo Forgione – Il 29 luglio del 1900, a Monza, Umberto I di Savoia, dopo anni di sofferenze del popolo italiano, veniva colpito a morte da tre colpi di rivoltella sparati da Gaetano Bresci, un giovane anarchico, emigrato per necessità di lavoro in America e sorteggiato per tornare appositamente per assassinare il Re d’Italia, il quale di attentati falliti ne aveva superati indenne già tre, anche se la storiografia ne conta solo due. Il primo, il meno noto, era avvenuto a Foggia il 16 novembre 1878, quando l’internazionalista Alberigo Altieri aveva tentato di lanciarvisi contro, braccato in tempo. Il giorno seguente, un nuovo attentato a Napoli: Giovanni Passannante, anarchico repubblicano di provenienza lucana, si era scagliato verso la carrozza reale con un piccolo temperino in pugno. Il Re era riuscito a sottrarsi al fendente e aveva fatto arrestare l’aspirante regicida. Passannante, soggetto ad interrogatorio, aveva dichiarato che con il suo gesto aveva provato a riscattare lo stato di disgrazia in cui era stato ridotto il Mezzogiorno dai liberali che, a suo dire, avevano tradito gli ideali risorgimentali per ricoprire ruoli importanti ed arricchirsi.
Umberto I di Savoia, dopo richieste di grazia, aveva poi commutato la pena in ergastolo ma imposto il cambio del nome della cittadina di Passannate, da Salvia a Savoia di Lucania, come ancora si chiama, e sottoposto il condannato a un’aspra ed esemplare vendetta, delle più tremende: reclusione in isolamento nella torre costiera di Portoferraio d’Elba, letteralmente sepolto vivo in una umida e lugubre cella di un metro e cinquanta centimetri di altezza posta sotto il livello del mare, zavorrato a una corta catena, pesante una ventina di chilogrammi. Così, intombato, era rimasto per due interminabili anni, fino alla malattia fisica e mentale. Altri otto, a seguire, li aveva trascorsi recluso sopra il livello marino, nella stessa torre, in precarie condizioni di salute e di igiene, fino al manicomio e alla morte, alla soglia dei 61 anni. Questo spettava a chiunque avesse espresso la rabbia per la miseria e le tasse al Sud, e per chi avesse rimarcato il crescente disagio sociale dell’Italia da poco unita.
Il 22 aprile 1897, il sovrano aveva subito un terzo attentato, stavolta a Roma, nel cuore politico della nazione. Come Passannante, l’anarchico laziale Pietro Acciarito si era mescolato tra la folla all’ippodromo delle Capannelle e si era lanciato verso la carrozza reale, armato di coltello. Ancora una volta, il Re aveva schivato l’offensiva e ne era uscito illeso. Anche per Acciarito una rigida pena all’ergastolo con gravi conseguenze per la salute mentale dell’aspirante regicida.
Poco più di tre anni e toccò dunque a Gaetano Bresci. E se nei primi tre attentati le lame non erano andate a segno, i colpi di rivoltella al polmone e al cuore de Re non lasciarono scampo. Umberto I pagò con la vita il conferimento della Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia e la carica di senatore al generale Fiorenzo Bava Beccaris, il cosiddetto “macellaio di Milano”. La crisi sociale in cui era piombata l’Italia dei Savoia non era più esclusività del Sud ma aveva sfiorato persino la rampante Milano, anche se non in maniera paragonabile a Napoli, ove il pane costava anche 60 centesimi al chilo, mentre negli spacci lombardi toccava quota 35. E così, a maggio del 1898 era scoppiata la protesta popolare all’ombra del Duomo, la “rivolta dello stomaco”, spenta con durezza dall’assedio delle forze armate. Uno scontro impari, affogato nel sangue di centinaia di cittadini dai cannoni di Bava Beccaris, il quale, per la sanguinaria repressione, ebbe le cariche istituzionali in nome del “grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”.
Gaetano Bresci, non appena ucciso il Re, dichiarò di aver voluto vendicare le vittime delle repressioni e l’offesa della decorazione al generale Bava Beccaris. Qualche mese dopo fu trovato impiccato alla grate della sua cella al carcere di Santo Stefano.

(per approfondimenti: Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017)

Radio Popolare Milano “indaga” su V.A.N.T.O.

“Millevalvole” è un programma di Radio Popolare Milano diffuso in Lombardia ed Emilia Romagna che cerca di star dietro al mondo dei media che cambiano la nostra vita, a una grande lavatrice che continua a mutare forma e colore. “Una trasmissione che ha la presunzione di voler scoprire le trasformazioni e le tendenze dell’umana e disumana esistenza”, come recita la presentazione degli autori.
Tra queste tendenze c’è anche la nuova riscoperta dell’identità napoletana, indagata dal programma della radio milanese nella puntata di Giovedì 8 Novembre attraverso la conoscenza con V.A.N.T.O.. Qualche prurito sulla questione “panettone napoletano”, un po’ di diffidenza mista a curiosità e tanta cordialità discutendo della realtà partenopea.

Consigliera leghista invoca la sparizione del Sud e il suo presidente la difende!

Angelo Forgione – La settimana scorsa una consigliera della Provincia di Monza e della Brianza aveva creato un ennesimo polverone razzista-leghista su Facebook. “Forza Etna, forza vesuvio, forza Marsili!!!”. Un’immagine dell’Italia dal satellite, ritoccata cancellando la parte di Penisola a sud della Toscana. Non una novità per certi esponenti politici perchè solo poche settimane fa il segretario della Lega di Bovisio Patrizio Ferrabue aveva scatenato l’inferno con un commento dopo il rogo al magazzino cinese tra Monza e Brugherio, costringendo il suo omologo provinciale Dionigi Canobbio a scusarsi.
Le proteste e le segnalazioni giunte alla posta di V.A.N.T.O. erano state tantissime, e lo sono ancora, ma da tempo ho deciso di non entrare in discussione diretta con esponenti leghisti che dimostrano continuamente un basso livello culturale e umano. I fronti culturali e sociali in cui coinvolgersi sono decisamente altri. E ho preferito segnalare la cosa al presidente della Provincia Dario Allevi e a quello del consiglio provinciale Angelo Di Biasio chiedendo provvedimenti.
Il primo ha esternato sdegno con un messaggio sulla pagina Facebook della Provincia MB mentre il secondo, anch’egli leghista, non solo non ha risposto ma ha persino difeso la Galli versando benzina sul fuoco: «Sono battute da bar che girano da trent’anni a cui stiamo dedicando anche troppo tempo. Ricordo quando a Napoli comparvero manifesti contro un ministro della Repubblica (Umberto Bossi, ndr) gravemente ammalato; in quei giorni negli stadi si sentivano persino cori contro di lui, ma non c’è stata alcuna sollevazione».
Difesa peggiore dell’attacco. Ed ecco che i leghisti continuano a dimostrare di non saper usare ciò che hanno tra le orecchie. Paragonare le “opinioni” popolari di reazione a ignominiose dichiarazioni identiche a quelle della Galli alle esternazioni di un esponente politico significa non usare il cervello.
Più che Donatella Galli, ora è giusto sottolineare l’atteggiamento ideologico del presidente del consiglio Angelo Di Biasio perchè difendere l’idiozia con peggiore idiozia è cosa veramente grave. Sono politici con delle responsabilità importanti e si comportano come tifosi delle peggiori curve!

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