Le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana

Angelo Forgione – Celebro l’odierna Giornata Internazionale della Lingua Madre con le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana, sua e mia lingua materna. Le scrisse in merito alla sua ultimissima fatica letteraria, ma fatica autentica: la traduzione in napoletano antico de La tempesta, dramma di primo Seicento di William Shakespeare ispirato al conflitto di fine Quattrocento fra la corona aragonese di Napoli e gli Sforza di Milano.
Il grande drammaturgo vi si dedicò un anno prima di andarsene, nell’estate del 1983, nonostante il caldo torrido, i problemi di salute e altri impegni da assolvere. Isabella Quarantotti, sua moglie, gli riportò in italiano il testo inglese, poi tradotto in un napoletano seicentesco ma adattato ai tempi. Egli stesso, in una nota al lavoro, spiegò il taglio scelto per il rivestimento del dramma shakespeariano:

[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innaturale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]

Eduardo elogiò la vicinanza del napoletano al latino, ben più che l’italiano. E qui aggancio le riflessioni di Ferdinando Galiani di un secolo prima, in Del dialetto del 1789:

“Or chi non sente co’ suoi stessi orecchi, che le parole Napoletane chisto e chillo si scostano meno delle Latine iste, e ille, che non se ne scostano le Toscane questi e quegli? […] Chi non vede, che il nostro verbo Napoletano dicere non ha mutazione dal Latino, come lo ha il Toscano dire? […] Faccio, saccio, aggio s’accodano alle latine facio, sapio, habeo assai più, che non le Toscane voci fo, so, ho. Noi diciamo simmo; i Toscani dicono siamo; il Latino è simus. Diciamo tene, vene, convene, accodandoci al Latino tenet, venit, convenit, e non già tiene, viene, conviene. […] Diciamo ditto, astritto &c. come i Latini dictus, strictus, mentre i Toscani dicono detto, stretto &c. Anderemmo all’infinito a voler enumerare tutte le parole noftre, che conservano inflessione più accostante alla Latina. […]”

E davvero il napoletano è la lingua romanza locale che si discosta meno dalla lingua degli antichi Romani, pur avendo generato una propria grammatica distinta, anche da quella dell’italiano stesso. Napoletano figlio del latino ma allo stesso tempo lingua in cui vi convivono armoniosamente i tratti osci, greci, bizantini, longobardi, arabi, germanici, provenzali e francesi, catalani e castigliani, sino ai lasciti anglosassoni.
Però… quanto è bello questo napoletano antico. E vediamo di preservarlo.

Più napoletano degli altri

Angelo Forgione – Quale migliore data della Giornata del Dialetto e delle Lingue Locali per dire in lingua dialettale che ‘o sestu figliu mio parlarrà napulitano! Ho infatti concluso il mio nuovo manoscritto e avviato la macchina editoriale di tale appassionato lavoro, un trattato proprio sulla lingua dialettale napoletana, la cui uscita è prevista in primavera.

Oltre due anni di appassionato impegno per dare completezza alle due metà da cui sarà composto il saggio: una storica e una didattica.
La parte storica è frutto di una rigorosa ricostruzione dell’evoluzione nei secoli dell’idioma partenopeo, anche in relazione alla koinè italiana, e quindi del percorso linguistico di Napoli rispetto a Firenze.
La parte didattica, altrettanto sudata, è una sorta di prontuario chiaro e completo per l’assimilazione di un’ortografia corretta a supporto e beneficio di coloro che vogliano minimamente padroneggiare la scrittura di una lingua d’arte, una delle pochissime di reputazione internazionale tra quelle dialettali.

La Giornata del Dialetto e delle Lingue Locali, nonché le versioni dialettali di Topolino appena pubblicate e andate a ruba, dimostrano quanto la dialettofonia rappresenti una parte importantissima della cultura italiana. Ennesimo segno della vittoria su chi, dall’alto, ha provato a cancellarla tra l’unità d’Italia e gli anni Settanta del Novecento.
L’omologazione linguistica e la sparizione dei dialetti, fortunatamente, non si sono compiute. Oggi, pur convergendo verso l’uso dell’italiano quasi la totalità degli italiani, la dialettofonia è ancora più o meno radicata nel comportamento linguistico, e restano vive le espressioni locali. In alcune regioni, come in Campania e in Veneto, il bilinguismo è più alto che altrove, e la percentuale di uso alternato di italiano e dialetto in famiglia e tra amici è davvero alta.

In un’epoca in cui non c’è più traccia di contrasto ai dialetti, il problema, in certe aree come quella napoletana, non è più quello di preservarne l’uso ma quello di proteggerne la scrittura dalla mancanza di uno standard riconosciuto, problema che sta generando il proliferare di un’ortografia “fai-da-te” e un eccesso di libertà nel trasformare il napoletano a proprio piacimento, rifugiandosi nell’alibi fornito da quella che è una lingua viva, quindi soggetta come tutte le altre a modifiche nel tempo. Tale libertà sta contribuendo a spostare una lingua d’arte nel recinto dei dialetti. Si sta correndo il rischio che il napoletano non venga più considerato una lingua letteraria, come lo è stata per secoli, e che perda quindi il suo prestigio, esattamente quello che viene riconosciuto a quei pochi dialetti non solo parlati ma anche scritti a livello autoriale.

Per fortuna, tra i veri amanti dell’identità partenopea affiora un certo rispetto per l’ortografia del napoletano, attorno al quale si è palesato un crescente interesse, anche di giovani e meno giovani di altre aree d’Italia appassionati di musica e serie televisive, testimoniato da alcune coraggiose iniziative didattiche, alle quali mi appresto ad aggiungere questo mio lavoro, andando oltre e svelando anche la storia di una grande città, Napoli, sede dell’unica corte reale della Penisola, che ha lasciato fare la più piccola Firenze e ha contribuito ad avviarne la spinta linguistica. E però ha continuato a parlare al mondo in maniera spontaneamente poliedrica, anche attraverso il suo logos territoriale, che ne definisce la condizione identitaria; e non poteva che riscattarsi, senza neanche imporselo, anche da una sua certa indolenza linguistica plurisecolare.

Ma per dirci tutto, ci leggiamo in primavera.

A 10 anni dalla morte di Pino Daniele, i say «tu staje cca»!

Angelo Forgione – Sapete cosa significò l’irruzione di Pino Daniele sulla scena musicale italiana? Erano, i Settanta, gli anni della grande crisi dei dialetti. Pier Paolo Pasolini a malincuore e Italo Calvino con sollievo li avevano dati per spacciati. A Napoli sorse pure la demonizzazione dei genitori nelle famiglie benestanti della città, quella per lo spontaneo uso della parlata natìa da parte dei figli, ai quali si smise di trasmetterla perché considerata erroneamente retriva e volgare. L’ordine era perentorio: «Parla bene!».

In questo difficile scenario, Pino Daniele osò una contaminazione musicale con il blues americano e l’uso di un napoletano più moderno e sfrontato. Riuscì ad affermarsi, e ad arrestare la ghettizzazione del napoletano in musica. Fu di fatto lui a rigenerare lo sdoganamento della parlata partenopea, riportata da lì in poi sulla scena internazionale e poi definitivamente legittimata dall’uso disinibito e spontaneo che ne fece Massimo Troisi, non a caso amico di Pinotto e a questi accomunato nel dare una più asciutta immagine dei napoletani, lontana da quella del folclore.

Nel 2006, il linguista torinese Gaetano Berruto parlò di “risorgenza dialettale” per fotografare una nuova attenzione verso le parlate locali d’Italia dopo l’assopimento degli anni Settanta. Una risorgenza che doveva molto al napoletano, a sua volta obbligato con Pino Daniele, anche se allontanatosi dal “Neapolitan Power” degli esordi. Lui, cavallo di razza, un puledro che aveva bisogno di frustate di napoletanità per galoppare, dopo aver rivoluzionato la musica napoletana, si era adeguato al trotto del pop italiano e si era fatto divorare dallo star-system commerciale. Aveva chiuso nel cassetto un codice linguistico-musicale di cui sentì la mancanza anche Federico Salvatore, cantandola in una sua celebre canzone: “Chiederei a Pino Daniele che fine ha fatto ‘Terra mia’, ‘Siamo lazzari felici’, ‘Quanno chiove’, ‘Appocundria’, ‘Napule è ‘na carta sporca’, ’Napule è mille paure’, ‘Ma pe cchiste viche nire so’ ppassate ‘sti ccriature’.

Si Pino se fosse astipato pe nnu’ murì, fuorze stesse ancora cu nnuje, e so’ ssicuro ca stesse cantanno n’ata vota ‘o nnapulitano… oggi di fortissima tendenza.

200 anni fa l’addio al bistrattato Re Ferdinando

Angelo Forgione – 4 gennaio 1825. Esattamente due secoli fa si spegneva Ferdinando di Borbone, il più longevo dei re italiani. Fu davvero un pessimo sovrano, rozzo donnaiolo perdigiorno e poco incline alle faccende politiche, come la tradizione risorgimentale ce l’ha presentato, o c’è dell’oltre da sapere?

Certo, l’approfondimento dello studio gli mancò, ma fu una scelta del suo precettore, il Principe di San Nicandro, consapevole che il quintogenito di Re Carlo, essendo di gracile costituzione in tenera età, dovesse rimediare a una salute malferma con attività motorie all’aperto. Caccia, Equitazione, Canottaggio e Pesca gli assicurarono un benefico e salutare irrobustimento, e continuò a praticarle anche da adulto. A tal proposito viene a noi una testimonianza firmata da Goethe, testimone diretto a Napoli, che ne descrisse senza pregiudizi la disciplina fisica nella biografia del pittore di corte Jakob Philipp Hackert:

“Fin dalla gioventù il Re era un cacciatore appassionato. Lo avevano educato alla caccia. Nei suoi verdi anni era stato delicato di salute. Fu l’esercizio della caccia a renderlo forte, sano e scattante. Hackert ebbe un giorno l’onore di essere invitato a caccia insieme con lui e con sorpresa vide che, su cento colpi, ne mancava solo uno. Non era solo la caccia, ma anche la vita all’aria aperta che lo manteneva in buona salute. Ciò che il Re ha imparato lo fa bene e con esattezza.
[…] Il Re sapeva remare come il più bravo dei marinai e si arrabbiava molto se i suoi compagni di remo non andavano al giusto ritmo. Tutto quello che sa, lo fa esattamente e se vuole apprendere qualcosa, non si dà pace fino a quando non l’ha imparato. […]”

Carente di istruzione, vero, ma a Ferdinando non fecero affatto difetto l’intuito per ingrandire la dimensione culturale di Napoli e la volontà di accrescerla artisticamente.

Gli incoraggiamenti all’arte concessi dal “Re lazzarone” furono enormi, e incontrarono convinti elogi nei vari territori italiani, tra cui quello del letterato lombardo Carlo Castone della Torre di Rezzonico, che in una corrispondenza di fine Settecento commentò la realizzazione della scultura Adone e Venere di Antonio Canova per il marchese napoletano Francesco Berio, per la quale Ferdinando concesse l’esenzione del dazio doganale per l’importazione dell’opera dallo Stato Pontificio:

“[…] non vi sarà discaro […] il sapere in qual pregio tengasi dall’illuminato governo un’opera sì bella, e quali facilità si concedano, e laudi, ed incoraggiamento a facoltosi personaggi, che con illustri monumenti cospirano a volgere quella deliziosissima capitale in un’Atene novella, avvegnacchè per quelli dell’antichità possa di già entrare in contesa coll’istessa Roma.”

Ferdinando esentò la ricca committenza privata napolitana dai dazi doganali affinché potessero lavorare a Napoli gli artisti residenti oltreconfine e arricchissero i nobili palazzi napoletani con importanti opere d’arte, proprio a partire da quelle di Canova, che lavorò anche per lo stesso sovrano e lo ritrasse in un’enorme statua per accogliere i visitatori del Real Museo, oggi il più importante archeologico d’Occidente e il primo realizzato nell’Europa continentale, voluto proprio dallo stesso Re nel secondo Settecento. Ma come? Un museo così importante voluto da uno zotico sovrano? Sì, lo zotico sovrano fu artefice dell’atto culturale più significativo del secondo Settecento facendo allestire proprio un museo in cui fece raggruppare tutti i tesori di famiglia, partendo dai preziosi reperti vesuviani, ai quali tolse la proprietà privata per donarli a Napoli e a tutti i suoi visitatori.
In quel museo vi fece trasferire anche le preziosità scultoree dei Farnese, ereditate dalla nonna Elisabetta insieme a quelle pittoriche e oggettistiche già raccolte a Capodimonte dal padre, Carlo di Borbone, prelevando le imponenti statue da Roma per farle giungere via Tevere e mare fino a Napoli, amplificando enormemente il richiamo della sua capitale e riconoscendole un insuperabile patrimonio classico, accresciuto negli anni. Chissà oggi dove sarebbe tutta quella ricchezza se egli non fosse stato così lungimirante come il padre.

Antonio Canova lo rappresentò proprio nelle vesti di Minerva, protettrice delle arti con l’elmo della saggezza in capo: allegoria in onore di un sovrano che, raggruppando le collezioni di Antichità, aveva lanciato l’immagine neoclassica di Napoli greco-romana, nuova Atene ma anche nuova Roma, veicolando il messaggio borbonico di protezione delle arti e della tutela dell’antico in una cornice, quale quella del prestigioso museo, che rappresentava il contributo decisivo di Napoli e dei Borbone, Carlo e Ferdinando, per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. L’uno aveva stimolato l’archeologia e l’altro stimolava la raccolta artistica, assicurando gran prestigio internazionale a Napoli. Al padre, ben più magnificato del figlio, il merito enorme dei musei a cielo aperto, le città antiche riportate alla luce. Al figlio, quello di assegnare ai napoletani le collezioni di famiglia e di creare un museo che è ancora oggi il massimo riferimento culturale dell’antica capitale, l’esposizione di arte classica più bella e importante del mondo occidentale.

Da quel che si legge qua e là, parrebbe che il celebratissimo Carlo fosse ben più istruito del figlio, ma in realtà non lo fu affatto, ed era anche molto più superstizioso e bigotto di Ferdinando, che, pur essendo cattolico, superò le paure del tempo circa le prime immunizzazioni contro il terribile vaiolo, (altro che Covid!), fregandosene degli iniziali anatemi della Chiesa e dei rimproveri dello stesso cattolicissimo padre quando decise di sottoporre se stesso e la sua famiglia a un pioneristico e rischioso esperimento, la variolizzazione, al quale, dopo qualche anno, fece seguire l’avvio della prima vaccinazione di massa in Italia, resa obbligatoria per i bambini.

Il diplomatico milanese Giuseppe Gorani scrisse a fine Settecento nelle sue memorie così:

“Non solo Carlo III di Spagna non è più istruito del re di Napoli (Ferdinando), pur avendo ricevuta un’educazione meno cattiva, ma lo supera nei pregiudizi, e si rende ridicolo pretendendo d’essere sapiente”.

Carlo, nato altrove, si affezionò a Napoli profondamente, ma Ferdinando, napoletano di nascita e di spirito, ne fu anche più innamorato. Perciò non cancellò nulla di ciò che creò, neanche quando arrivarono gli invasori francesi, a differenza del padre, che non esitò a far distruggere la Real Fabbrica di Capodimonte prima di andarsene a Madrid per impedire proprio all’erede al trono partenopeo di proseguire le pregiate produzioni di porcellana, per poi scoprire che questi le aveva rimesse in piedi. Era lo stesso Carlo che aveva fatto sterminare i gatti di Procida, per impedire loro di attentare alla vita dei fagiani della riserva di caccia isolana, salvo poi dover fare marcia indietro di fronte alla rivolta dei procidani per la conseguente proliferazione di topi.

Ferdinando incentivò l’artigianato di qualità, a partire da quello serico di San Leucio, e fu inoltre vero stimolatore di una rivoluzione agricola di cui beneficiamo tutti noi oggi, tra produzione di pasta di grano duro, coltivazione di pomodoro lungo, lavorazione della mozzarella di bufala, protezione della vitivinicoltura e tanto altro ancora; e se le abitudini alimentari napoletane sono così peculiari e “nazionali” è perché egli fece da congiunzione tra quelle del popolo e dell’aristocrazia del suo tempo.

La verità è che Ferdinando fu decisivo quanto Carlo per la crescita del prestigio di Napoli e per la formazione della cultura classica in Europa e oltre. E se lo si racconta come non si fa per il padre è perché paga nella reputazione le teste fatte tagliare dopo la repressione della Repubblica partenopea del 1799. Avrebbe voluto concedere patti onorevoli di resa ed essere più clemente di quanto non fu la consorte Maria Carolina, assetata di vendetta nei confronti dei traditori che aveva portato a corte per il progresso civile di Napoli, pure rabbiosa per la sorte della carissima sorella Maria Antonietta, decapitata a Parigi. Fu la Regina a consentire all’ammiraglio inglese Horatio Nelson, inviato dal governo di Londra a salvaguardare gli interessi britannici in Sicilia, di decidere la sorte dei prigionieri in cambio di protezione del trono borbonico.

Dopo il tumultuoso periodo francese, a cavallo tra la Rivoluzione e gli sconvolgimenti napoleonici, l’ormai anziano Ferdinando rientrò a Napoli dall’esilio palermitano. Privo di risentimento, pensò solo a vivere l’ultima stagione della sua vita in serenità, finalmente nella sua città, libero dal peso della presenza di una consorte autoritaria e rasserenato da una nuova compagna docile e affettuosa, Lucia Migliaccio Contessa di Floridia, con la quale si rifugiò sulla collina del Vomero, in un’ovattata villa ad ella dedicata.
Prossimo alle 74 primavere e dopo 65 difficili anni di regno, si spense, non prima di aver fatto approntare la nuova piazza reale di Napoli e, in soli otto mesi, la ricostruzione della sala del Real Teatro San Carlo, assai più bella di quella fatta realizzare dal padre ottanta anni prima. Stendhal, milanese di adozione, la giudicò assai più bella della Scala, grazie alla volontà e alla determinazione di Ferdinando:

“La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. […] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. […] Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al Re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare. […] Io stesso, quando penso alla meschinità e alla pudica povertà delle repubbliche che ho visitato, mi ritrovo completamente monarchico. […]”

Storiograficamente, Ferdinando non paga solo il sangue del 1799 ma anche la propensione al diletto e al dialetto, il fatto che fosse napoletano. Non era piemontese come Vittorio Emanuele II, vero zotico senza alcuna sensibilità artistica ma di esclusiva cultura militare sabauda, vero sovrano volgare e rozzo donnaiolo della prima Italia unita, i cui uomini fecero occultare la preziosa scultura di Canova sullo scalone del Museo Archeologico di Napoli. Tornò al suo posto solo nel 1997, per volontà di un impavido sovrintendente ai beni archeologici, Stefano De Caro, deciso a rendere giustizia tanto all’artista più celebrato tra fine Settecento e primo Ottocento, che a Napoli scoprì la devozione per l’Antico, quanto all’artefice iniziale del più grande e più importante contenitore di arte classica d’Occidente. E lo chiamano ancora “lazzarone”.

Il Vesuvio sotto i piedi

Angelo Forgione – Il tufo giallo flegreo per le abitazioni. La pietra lavica bruna del Vesuvio, comunemente chiamata “Pietrarsa”, per le strade. Con i materiali vomitati dai vulcani a est e a ovest di Napoli, nei millenni, sono state caratterizzate la stessa Napoli e le cittadine attorno, che stupirono i forestieri per la pavimentazione delle strade, un unicum con pochi eguali in Europa.

Aveva dieci anni Tommaso Aniello d’Amalfi, il noto Masaniello, nel dicembre del 1631, quando il Vesuvio esplose con la stessa catastrofica potenza di millecinquecento anni prima. Due mesi di terremoti, boati, pioggia di sassi, lapilli e cenere sconvolsero i dintorni, travolgendo circa cinquemila persone, e poi migliaia di animali e tanti terreni coltivati. Sette rami di lava invasero i paesi vesuviani per diciassette giorni, arrivando fino al mare e minacciando Napoli. Le cronache dell’epoca narrano dell’invocazione all’intercessione di san Gennaro da parte dello sconvolto e terrorizzato popolo partenopeo in processione con la sua statua, e si racconta che quando questa fu rivolta al vulcano avvenne l’arresto miracoloso del cataclisma. Scena raffigurata dal pittore Micco Spadaro, al secolo Domenico Gargiulo, in un dipinto di una trentina d’anni più tardi in cui è descritta l’apparizione del Santo in volo su di una nuvola nell’atto di fermare con le braccia la nube venefica che sta per travolgere la città.

Da allora, ogni 16 dicembre, data del prodigio con cui fu arrestata l’eruzione, i napoletani attendono lo scioglimento del sangue del Martire così come in occasione del 19 settembre, giorno della festa patronale. Non è il solo lascito di quell’evento funesto, essendo molte strade di Napoli e della provincia ancora oggi pavimentate con solide lastre di pietra vulcanica vomitata in quella sfuriata vesuviana, segno plurisecolare che caratterizza i luoghi.

Molte strade di Napoli, a quel tempo la più popolosa città d’Europa, e dei suoi dintorni, furono risistemate con i basoli scuri, lisci e scalpellati che livellavano e assicuravano eleganza, pulizia e maggiore sicurezza, in sostituzione dei mattoni fatti a Ischia, altrettanto eleganti ma assai costosi e soggetti a usura, e da ricoprire con terra, così rendendo le strade polverose e, con la pioggia, fangose.

Lo storico Giulio Cesare Capaccio, a pagina 656 de Il Forestiero del 1634, descrisse i due tribunali napoletani “della Fortificazione”, deputato alla cura delle mura, e “della Mattonata e Acqua”, incaricato di curare le strade:

“[…] che sempre sono state nobilitate con mattoni; ma poi vedendosi evidente il danno che apportavano con la spesa grande de i mattoni, e che si guastavano facilmente per il continuo sbriciolamento delle rote di carrozze, e di carri, onde bisognava che di continuo la cità fusse fangosa per il terreno che copriva gli accomodamenti di quelle, introdusse Henrico di Gusman Conte d’Olivares, pietre picciole rotonde ch’eran di minor spesa, ma di gran danno ai piedi; e in fine con l’accomodo di pietre selci larghe, han portato utilità al pratticare, e al tener la cità più polita”.

Le “pietre selci larghe” erano esattamente le lastre di basalto vesuviano, la soluzione definitiva dopo aver provato a sostituire i mattoni con scomodissime (per pedoni e cavalli) e bruttissime pietre di fiume, alla maniera di Roma.

Un secolo e mezzo più tardi, il filosofo e scrittore tedesco Karl Philipp Moritz, a pagina 81 del suo diario di viaggio effettuato tra il 1786 e 1788, dedicò un intero paragrafo al basolato napoletano intitolato “Il pavimento di Napoli”:

“In nessun altro luogo si trova un lastricato più bello di quello che si può ammirare a Napoli; proprio la spaventosa colata di lava che minacciò di distruggere la città ora abbellisce la sua pavimentazione e livella le sue strade. Se il bisogno e la povertà opprimono i suoi abitanti, questa pietra eccellente non opprime le loro suole e così essi possono passeggiare puliti e asciutti per le strade come se fossero nelle loro stanze di casa. Allo stesso modo i Lazzaroni considerano le strade come una grossa stanza in cui trovano una dimora costante. Oltre alla comodità questo lastricato offre una bellissima immagine grazie all’ordine e alla regolarità con cui le pietre di lava cotte sono disposte l’una accanto all’altra, al punto che si potrebbe dire che ad una strada napoletana manca soltanto il tetto per essere considerata una vera e propria casa”.

Anche l’ancor più celebre connazionale Johann Wolfgang von Goethe notò la particolarità della pavimentazione di Napoli, e nei suoi appunti di viaggio, in data 12 marzo 1787, descrivendo la curiosa pratica dei ragazzi napoletani di scaldarsi nelle giornate fredde e umide mettendo le mani al suolo laddove un fabbro aveva precedentemente posizionato una ruota arroventata, scrisse:

“Stamane il tempo era piuttosto freddo, umido; aveva piovuto alquanto. Arrivai sopra una piazza, dove le pietre larghissime del selciato apparivano pulite con molta cura, e viddi con mio stupore attorno a quello spazio di terreno pulito, un certo numero di ragazzi o giovanetti cenciosi, i quali curvi tenevano le mani stese sopra il suolo, in atto di volerle scaldare. […]”

Nel 1853, alla vigilia dell’unità italiana, l’editore napoletano Francesco De Bourcard in Usi e costumi di Napoli descritti e dipinti, illustrando con gran dettaglio la città che assumeva nuovo aspetto, scrisse circa le strade:

“[…] Eccellente però n’è il lastricato di lave del Vesuvio, che sono il più solido materiale da lastricare le strade”.

Dai vicerè spagnoli ai Borbone, e poi in epoca di Regno d’Italia, il bruno basolato lavico vesuviano, più robusto del marmo, è stato apprezzato e raccontato come eccellenza di Napoli. Oggi è ancora presente in alcune strade veicolari e, più opportunamente, in quelle pedonali, testimoniando di una Napoli che anche nella pavimentazione, come nei palazzi, palesa la sua antichità e la sua identità. E però la tendenza alle riqualificazione va in direzione della sostituzione della pietra lavica vesuviana, non più estratta (laddove una strada viene asfaltata, i lastroni vesuviani asportati vengono trasportati in un deposito a Piscinola per fare da riserva di manutenzione per altre altre strade), con la meno resistente etnea, più sottile e carica di fibra vetrosa. Le conseguenze, dannose non solo in termini di disidentificazione (contraria all’articolo 123 del Piano Regolatore Generale di Napoli), sono evidenti nel disastro delle strade pedonalizzate di via Toledo e via Chiaia.

Gli ultimi versi dedicati alla nobile pavimentazione di Napoli li ha scritti Federico Salvatore nel 2002, musicati in in Se io fossi san Gennaro:

“Via i vecchi marciapiedi che hanno raccontato molto. Pietre laviche e lastroni seppelliamoli d’asfalto. L’appalto!”

Napoli ha accettato di togliersi 300 anni

Angelo Forgione – Napoli vuole ringiovanire e si toglie tre secoli di vita. Lo avevo evidenziato lo scorso agosto, quando il Consiglio dei Ministri, su proposta dell’allora Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha istituito il Comitato nazionale “Neapolis 2500” per celebrare la storia, la cultura e l’arte della città di Napoli e il suo contributo allo sviluppo del patrimonio storico e artistico della Nazione, nonché alla formazione dell’identità italiana, nella ricorrenza del venticinquesimo centenario della fondazione dell’antica Neapolis da parte dei Cumani, avvenuta, secondo una certa tradizione affermatasi negli ultimi anni, il 21 dicembre dell’anno 475 a.C.
Nel frattempo, il Comune di Napoli ha nominato un Comitato di indirizzo e un Gruppo di lavoro “per le celebrazioni dei 2500 anni di fondazione della città”. Messa così, è un clamoroso autogol, perché la città ha trecento anni in più. Omissione grave, perché si tratta di celebrare un parziale anniversario, quello di Neapolis, l’attuale centro antico della città, patrimonio Unesco, ossia il nuovo quartiere sorto dopo quello di Parthenope di fine dell’VIII secolo a.C., che da quel momento fu denominata Palepolis (Palaia-polis). Sta dunque passando un messaggio sbagliato ai napoletani, agli italiani e al mondo, e cioè che nel 2025 si festeggeranno i 2500 di Napoli, città che invece ne ha 2800, e non è più “giovane” di Roma.

Opportunamente, i media hanno iniziato a raccogliere la mia voce solitaria nel silenzio generale della cultura locale, e Francesco Barbagallo, sul Corriere del Mezzogiorno, attribuendomi merito di aver sollevato la questione, ha sottolineato la necessità da parte del presidente della Regione e del sindaco di Napoli “di nominare un assessore alla Cultura all’altezza del compito”, e manifestato il sospetto che a Gennaro Sangiuliano e compagnia cantante servisse “una cifra tonda (2500 anni) per mettere insieme un carrozzone di celebrazioni”.
Sospetto fondato, se è vero che un Ministero della Cultura non può abbandonarsi a “una certa tradizione”, figlia alle narrazioni che corrono sul web con il turbo dei social network, dacché la tradizione che vorrebbe Neapolis fondata il 21 dicembre dell’anno 475 a.C deriva, come già ampiamente chiarito, da un racconto fantasioso partorito nel marzo del 1990 dal fisico Renato Palmieri e rispolverato qualche anno fa.

Il 21 dicembre non è affatto il compleanno di Napoli! E neanche si comprende perché sia diventato il 475 a.C. l’anno di riferimento, visto che il fantasioso Palmieri indicò il 472 a.C., più opportuno perché successivo alla vittoria ottenuta da una flotta di Siracusani sugli Etruschi nella battaglia navale di Cuma del 474 a.C., dopo la quale poté nascere il nuovo insediamento greco.
Tutto ciò dà l’esatta misura del torpore culturale che attanaglia una città fondamentale ma purtroppo incapace di raccontarsi appieno, nonostante il Comune di Napoli contraddica se stesso scrivendo sul sito ufficiale:

“La storia di Napoli è ormai provata; la prima colonizzazione del territorio risale a quasi 3000 anni fa quando mercanti e viaggiatori anatolici ed achei si affacciarono nel golfo per dirigersi verso gli empori minerari dell’alto Tirreno e fondarono Partenope nell’area che include l’isolotto di Megaride (l’attuale Castel dell’Ovo) e il Promontorio di Monte Echia (l’odierna Monte di Dio e Pizzofalcone)”.

Riconoscimento di Eccellenza a Montecitorio

Intervento a Palazzo Montecitorio di Roma per il “Riconoscimento di Eccellenza” conferitomi dall’Intergruppo parlamentare ‘Sviluppo Sud, Aree Fragili e Isole Minori’ della Camera dei Deputati, composto da cinquanta elementi di maggioranza e opposizione impegnati in undici commissioni per un tavolo tecnico di sviluppo del Mezzogiorno e presieduto dal deputato Alessandro Caramiello, che ha conferito il premio con la seguente motivazione:

“Allo scrittore e giornalista Angelo Forgione per il suo impegno nella tutela e nella valorizzazione dell’immagine di Napoli e del Mezzogiorno. Attraverso i suoi scritti e le sue inchieste, Forgione ha sfidato i pregiudizi, proponendo una narrazione autentica e positiva del Sud Italia”.

L’intergruppo, presieduto dal deputato Alessandro Caramiello, si compone di 50 elementi di maggioranza e opposizione impegnati in varie commissioni per un tavolo tecnico di sviluppo del Mezzogiorno. I riconoscimenti assegnati sono un tributo al lavoro di chi si impegna per migliorare

Sfogliatella napoletana: dalla tracce medievali al dolce di oggi

Angelo Forgione La sfogliatella, delizia tra tante della pasticceria napoletana, altro simbolo della città di Parthenope in duplice versione – La riccia, la più antica – di cui sono assai incerte le origini. Una tradizione la vuole nata alla fine del XVIII secolo nel monastero napoletano della Croce di Lucca dalla creatività di una dama ai voti o da un’addetta alla realizzazione di dolci. Un’altra la vuole inventata nel XVII nel convento di Santa Rosa a Conca dei Marini, in Costiera amalfitana.
Pare proprio che la Santa Rosa, diversa della più nota sfogliatella per la presenza di crema pasticciera e amarene sulla sommità, per l’uso delle uova nell’impasto della sfoglia e per maggiore grandezza, sia antecedente, e pare anche che avesse forma di un cappuccio, un sorta di cono rovesciato. Si narra che a modificarlo sia stato Pasquale Pintauro, a Toledo, nel primo Ottocento, conferendovii l’attuale forma di conchiglia e sdoganandola con gran fortuna.
E qui si arrestano tradizioni e racconti, e si parte con i documenti, perché qualcosa di assolutamente accertato è che una sfogliatella antesignana esisteva già in epoca medievale, e non è detto affatto che si trattasse di roba partorita nella Napoli angioina o aragonese. Il primo riferimento scritto è datato 1529, e ce l’offre Cristoforo Messisbugo, cuciniere alla corte di Beatrice d’Este e dei Gonzaga di Mantova, nel suo trattato Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivanda, in cui si legge di Sfogliatelle di pignuoli sgrostate, con formaggio grasso.

Non basta questo ad affermare che per sfogliatella si intendesse pressappoco quel che si intende oggi, e di certo il contenuto era ben diverso, ma un riferimento più attendibile ce lo offre il lombardo Bartolomeo Scappi, cuoco papalino, nel suo trattato di cucina Opera di B. S. del 1570, in cui si legge di sfogliatelle diverse: “Sfogliatelle fatte con butiro, et pignoli ammaccati per dentro”; “Sfogliatelle, fatte con latte, butiro, rossi d’oua, e zuccaro”; “Sfogliatelle fatte con butiro e rossi d’oua”; “Sfogliatelle semplici, fatte con latte, et oua“; e poi la spiegazione della preparazione delle Sfogliatelle piene di bianco magnare, fatte con “pastone sfogliato” da richiudere “perché le amendue le parti si congiunghino insieme”. Il ripieno era così fatto: “un pezzo di biancomagnare, mescolato con ricotta fresca, e chiare d’oua (uova) fresche battute, i pignoli ammogliati”. Cos’era il “biancomagnare” (o biancomangiare)? Una preparazione d’epoca medievale molto diffusa e diversificata. In questo caso, lo Scappi spiega nella ricetta precedente trattarsi di un pasticcio bianco rassodato fatto con farina, rossi d’uova, strutto, sale, zucchero e acqua di rose. La sfogliatella andava poi fritta nello strutto caldo o cotta in forno, per poi servirla “calda con zuccaro sopra”. Altra maniera poteva essere quella di non usare la “pasta sfogliata” ma “un sfoglio tondo” su cui porre al centro il ripieno “a piramide, e sopra esso pongasi un’altro sfoglio sfogliato, tanto grande che la cuopra”.

Tutto divulgato nel 1570 da un cuciniere lombardo, che non è da confondersi con l’inventore di un dolce di cui non si conosce la paternità ma che sicuramente è stato sublimato in Campania con un ripieno di semolino, ricotta, zucchero, uova, scorzetta d’arancia, cannella, vaniglia e aromi vari, divenuto uno degli emblemi della rinomatissima e deliziosissima pasticceria napoletana.
La preparazione dell’impasto, ottenuto con farina americana, sale, acqua e sugna, è estremamente complessa e richiede l’esperienza di un pasticcere, dal momento che la sottile sfoglia ottenuta va arrotolata più volte fino a costituire un cilindro di trenta centimetri di lunghezza e otto di diametro che, una volta conservato in frigorifero per 24 ore, può essere tagliato a fette per ottenere i cosiddetti “tappi”, da “aprire” in modo da ottenere delle coppette che accoglgano il ripieno. L’impasto della frolla è certamente più semplice da realizzare, ma non meno delizioso per chi preferisce la friabilità alla croccantezza.

A Napoli il cinema prima del cinema

Angelo Forgione Étienne Jules Marey. Fisiologo, cardiologo e inventore francese. Se non conoscete questo nome (e non avete letto il mio Napoli svelata), vi interesserà sapere che si tratta del precursore della cinematografia, l’uomo che nel 1882, a Napoli, inventò quella che può considerarsi la prima cinepresa della storia.
Marey visse per circa vent’anni, sul finire del 1800, tra la casa di Parigi e la Villa D’Avalos a Posillipo. Sulla collina flegrea fece pre-cinema a scopo scientifico, ispirato alla natura della città partenopea, dove conobbe Anton Dohrn, che gli aprì le porte della nuova Stazione Zoologica alla Riviera di Chiaia affinché potesse studiare il movimento dei pesci, perché lui era affascinato dal movimento, degli uomini e degli animali.

I napoletani lo chiamarono “lo scemo di Posillipo”, poiché sembrava proprio uno squilibrato quando puntava ai gabbiani in volo con il suo “fucile fotografico”, e non sparava. In realtà lo faceva, ma erano scatti fotografici in sequenza ripetuta: dodici fotogrammi al secondo, non proiettili. È andava via soddisfatto, pronto a sviluppare le prime sequenze filmiche della storia, tredici anni prima del cinematografo brevettato dai fratelli Auguste e Louis Lumière.

Marey non voleva fare intrattenimento ma indagine scientifica. Tra i suoi tanti studi del movimento, mostrò per primo il volo degli uccelli, a beneficio della futura progettazione aeronautica, e il galoppo dei cavalli, dimostrando che vi fosse un momento in cui i puledri sollevavano tutte le zampe.
Nel 1888 si avvalse dell’invenzione della pellicola di celluloide di Kodak e creò il “cronofotografo a pellicola mobile“, con cui aumentò la quantità di fotogrammi. Nel 1891 riprese l’infranagersi delle onde del mare di Napoli su degli scuri ruderi. Una veloce sequenza di cinema ante-litteram prima che nascesse il Cinema, in anticipo rispetto alle future tecniche fotografiche che avrebbero poi permesso ai Lumière di realizzare il primo film della storia.

“La Vague” – mareggiata sul litorale di Napoli

Tutta la storia di Marey e del precinema e cinema a Napoli la leggete nei vari argomenti di Napoli svelata.

Il foro di Carlo che divenne di Dante

Angelo ForgioneUna piazza di Napoli tra le più belle è dedicata a Dante Alighieri, padre della lingua italiana, che all’ombra del Vesuvio si sarebbe recato in due occasioni, alla fine del Duecento. È da ritenersi fondata la tesi avanzata da accreditati studiosi secondo cui sarebbe stato inviato come ambasciatore da Carlo II d’Angiò, che lo ricevette al Maschio Angioino. Il poeta fiorentino ne approfittò per visitare le biblioteche partenopee e le principali chiese, tra cui Sant’Eligio, San Lorenzo Maggiore e San Domenico Maggiore, dove si fermò a dissertare di storia e filosofia con i frati.

Un statua lo ritrae oggi nella piazza immediatamente fuori le mura della Neapolis greco-romana. Un tributo a colui che nella Divina Commedia veniva guidato dal “napoletano” Virgilio, ritrovandosi, nel mezzo del cammin di vita, in una selva oscura, forse quella attorno al Lago d’Averno, ipotetica porta d’accesso all’Inferno.
Ma il vero motivo di quella bella statua sta nella cancellazione dell’identità napoletana messa in atto immediatamente dopo l’unità d’Italia, ed è presto chiarito.

In principio, il luogo fu “il Mercatello“, area di commercio distinta nel nome dalla più grande piazza Mercato.
A metà Settecento fu realizzata l’esedra del Foro Carolino, firmato da Luigi Vanvitelli, per celebrare Carlo di Borbone, con le statue rappresentanti le virtù del Re e con una monumento equestre dello stesso da realizzarsi nella nicchia centrale (oggi ingresso del Convitto Vittorio Emanuele), solo abbozzata e distrutta dai rivoltosi nel 1799.

Per sovrapporre un significato unitarista a una piazza borbonica, fatto il Regno d’Italia, si mise in moto la Massoneria, potere affermato dal Risorgimento. La figura di Dante era stata riportata in auge dalla cultura risorgimentale, e la fortuna del poeta diventò notevolissima per la sempre più larga identificazione in lui in quanto simbolo dell’unità nazionale. Nel 1862 fu il patriota napoletano Luigi Settembrini, maestro della Loggia massonica Libbia d’oro, a costituire la “Società Dantesca Promotrice di un Monumento a Dante in Napoli”, in vista dei seicento anni dalla nascita del Sommo Poeta, che sarebbero caduti nel 1865. Gli scultori Tito Angelini e Tommaso Solari si offrirono per progettare l’esecuzione del monumento, mentre la società dantesca si sarebbe fatta carico di tutte le spese.
Nel 1863 fu lanciata una “Sottoscrizione per un Monumento al F.. Dante Allighieri in Napoli” per iniziativa del giovane intellettuale napoletano Vittorio Imbriani, segretario della stessa Libbia d’oro. Nell’appello rivolto alle altre logge massoniche italiane, Imbriani affermò il chiaro intento simbolico:

“[…] Come i Longobardi infiggevano una lancia nel suolo conquistato, e noi così vorremmo innalzare un Monumento a Dante, quasi segno della presa di possesso di queste provincie da parte dell’Idea unitaria […].

Dante, padre della lingua nazionale, doveva dunque significare uno dei simboli della conquista del da poco tramontato Regno delle Due Sicilie. La realizzazione dell’opera fu piuttosto travagliata per mancanza di fondi e per una consistente lievitazione dei costi, e vide compimento solo il 10 maggio del 1871, tre mesi dopo la proclamazione di Roma capitale, da poco sottratta al Papa. Chiusura dei lavori grazie all’allora sindaco di Napoli, il patriota Paolo Emilio Imbriani, padre di Vittorio e amico di Settembrini, che fece accollare tutte le spese al Municipio. La statua di Dante, collocata nei pressi della nicchia dell’esedra (oggi avanzata a fronte strada), fu inaugurata il 14 luglio ’71, pur rimandando la realizzazione dell’iscrizione da apporvi.

E dalla piazza che la ospitò partiva via Roma, odonimo dato alla storica via Toledo dallo stesso sindaco Paolo Emilio Imbriani, artefice di una scelta assai impopolare sancita otto mesi prima per celebrare la Breccia di Porta Pia. Dopo 334 anni, anche la strada aperta dal viceré don Pedro di Toledo era stata privata della sua identità. Era divampato un accesissimo dibattito, con gran parte degli intellettuali locali assolutamente contrari al cambio di odonimo, imposto con la forza, addirittura facendo piantonare le nuove targhe dalle guardie armate, ed era persino nata una filastrocca contro il sindaco:

“Un detto antico, e proverbio si noma, dice: tutte le vie menano a Roma. Imbriani, la tua molto diversa, non mena a Roma ma mena ad Aversa”.

Ad Aversa si trovava lo storico primo manicomio d’Italia, e dovette considerare matto l’Imbriani pure il suo successore, Luigi de Monte, che non volle concedere ulteriori finanziamenti per completare il monumento a Dante. Il progetto dell’iscrizione venne ripreso soltanto negli anni Trenta del 900, e il 26 giugno del 1932, con una solenne cerimonia, venne inaugurata l’epigrafe “All’unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri 1862-71”.

I napoletani continuavano a chiamare “Toledo” la via Roma. Fecero giusto in tempo quelli del dopoguerra ad essere educati a nominarla con l’odonimo capitolino, ma nel 1980 la commissione toponomastica dell’amministrazione Valenzi decise opportunamente di restituire alla storica strada il suo antico nome e la sua identità. Dopo 110 anni Toledo tornò al suo odonimo. Non il Foro Carolino, la piazza assegnata a Dante per “piantare una lancia nel suolo conquistato”.