Le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana

Angelo Forgione – Celebro l’odierna Giornata Internazionale della Lingua Madre con le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana, sua e mia lingua materna. Le scrisse in merito alla sua ultimissima fatica letteraria, ma fatica autentica: la traduzione in napoletano antico de La tempesta, dramma di primo Seicento di William Shakespeare ispirato al conflitto di fine Quattrocento fra la corona aragonese di Napoli e gli Sforza di Milano.
Il grande drammaturgo vi si dedicò un anno prima di andarsene, nell’estate del 1983, nonostante il caldo torrido, i problemi di salute e altri impegni da assolvere. Isabella Quarantotti, sua moglie, gli riportò in italiano il testo inglese, poi tradotto in un napoletano seicentesco ma adattato ai tempi. Egli stesso, in una nota al lavoro, spiegò il taglio scelto per il rivestimento del dramma shakespeariano:

[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innaturale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]

Eduardo elogiò la vicinanza del napoletano al latino, ben più che l’italiano. E qui aggancio le riflessioni di Ferdinando Galiani di un secolo prima, in Del dialetto del 1789:

“Or chi non sente co’ suoi stessi orecchi, che le parole Napoletane chisto e chillo si scostano meno delle Latine iste, e ille, che non se ne scostano le Toscane questi e quegli? […] Chi non vede, che il nostro verbo Napoletano dicere non ha mutazione dal Latino, come lo ha il Toscano dire? […] Faccio, saccio, aggio s’accodano alle latine facio, sapio, habeo assai più, che non le Toscane voci fo, so, ho. Noi diciamo simmo; i Toscani dicono siamo; il Latino è simus. Diciamo tene, vene, convene, accodandoci al Latino tenet, venit, convenit, e non già tiene, viene, conviene. […] Diciamo ditto, astritto &c. come i Latini dictus, strictus, mentre i Toscani dicono detto, stretto &c. Anderemmo all’infinito a voler enumerare tutte le parole noftre, che conservano inflessione più accostante alla Latina. […]”

E davvero il napoletano è la lingua romanza locale che si discosta meno dalla lingua degli antichi Romani, pur avendo generato una propria grammatica distinta, anche da quella dell’italiano stesso. Napoletano figlio del latino ma allo stesso tempo lingua in cui vi convivono armoniosamente i tratti osci, greci, bizantini, longobardi, arabi, germanici, provenzali e francesi, catalani e castigliani, sino ai lasciti anglosassoni.
Però… quanto è bello questo napoletano antico. E vediamo di preservarlo.

40 anni senza Eduardo, alfiere del linguaggio napoletano

Angelo Forgione – 31 ottobre 1984, ultimo giorno in vita dell’immenso Eduardo De Filippo. Ricordarlo significa andare ben oltre la rassegnazione del suo «fujitevénne», caricato di un peso e di un significato diverso da quello che in realtà conservava, per via, credo, di un certo modo di interpretare Parthenope. Quell’invito non era rivolto ai napoletani ma ai giovani attori napoletani che gli chiedevano di indicargli la strada per riuscire. Risposta: «Se volete fare qualcosa di buono (per voi attori), fujitevenne ‘a Napule». La politica locale gli aveva promesso un Teatro Stabile e la direzione dello stesso, ma erano rimaste solo chiacchiere. Uno scontro raccontato da Isabella Quarantotti De Filippo, sua moglie, nel suo libro Eduardo – Polemiche, pensieri, pagine inedite del 1985. Il significato di quell’amaro invito ai suoi epigoni è stato assolutizzato da una stantia narrazione sulla città come una spinta all’emigrazione per tutti i napoletani.

Di Eduardo mi preme evidenziare un aspetto identitario più sostanziale: è stato uno dei massimi artefici della resistenza del napoletano in un’epoca, quella fascista, di contrasto ai dialetti, già definiti nel 1903 “la malerba dialettale” dal critico letterario Pietro Mastri, infastidito dal grande successo dei poeti dialettali della Penisola, tutti incoraggiati dall’uso insistito del dialetto da parte degli artisti napoletani, che nell’Italia che provava a fatica a valorizzare la lingua unica, rappresentò l’elemento di massima garanzia di conservazione delle parlate locali.

Il grande successo Natale in casa Cupiello, del 1931, e le commedie successive furono portate in scena con un napoletano italianizzato affinché fosse compreso da tutti. Nel 1984, poco prima di morire e superata la più grande crisi dei dialetti, quella degli anni del miracolo economico in cui s’era diffusa la convinzione che fossero destinati a scomparire (Pasolini ne aveva tristemente constatata la tragedia della perdita), in una nota alla sua traduzione de La tempesta di William Shakespeare, Eduardo scrisse:

[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; […]. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]

Alla sua morte, il testimone del napoletano parlato passò a Massimo Troisi e a Pino Daniele, grazie ai quali, e non solo a loro, si arrivò lentamente a chiudere l’epoca del «parla bene!» nelle famiglie medioborghesi di Napoli, cioè del dover parlare italiano, e poi ad aprire il problema del parlare bene il napoletano. Oggi, momento in cui non c’è più traccia di contrasto ai dialetti, e il napoletano è di fortissima tendenza, si pone anche quello di tornare a scriverlo (bene).

I 100 anni di Sergio Bruni

Angelo Forgione Era l’estate del 2002, 19 anni fa, e sull’isola di Hvar conobbi un giovane ragazzo croato. Quando, stringendo conoscenza, gli dissi di venire da Napoli lui non disse “pizza”, non disse “spaghetti”, non disse “Vesuvio”, non disse “mandolino”, e neanche “Maradona”. Sgranò gli occhi e disse “Sergio Bruni”. Sgranai gli occhi anch’io.

Tra i maggiori protagonisti della scena musicale napoletana dal dopoguerra al secondo Novecento, insieme a Roberto Murolo e Renato Carosone, era detto “La voce di Napoli” quando si diceva che Napoli fosse il suo fraterno amico Eduardo. E allora il grande drammaturgo gli dedicò una significativa poesia.

A ggente sà che dice?
Ca tu sì ‘a Voc’ ‘e Napule.
E sà che dice pure?
Ca Napule songh’ io!
Si tu si ‘a voce ‘e Napule
e Napule songh’ io;
chesto che vven’ ‘a ddicere?
ca tu si ‘a vocia mia!

La foto con Maradona è del 1990, e testimonia dell’incontro a Villaricca tra D10S e ‘a voce ‘e Napule, voluto del calciatore, che amava particolarmente l’intramontabile Carmela.

Buon Compleanno, burbero Maestro.

Macron: «Napoli è l’Italia a me cara»

Angelo Forgione – A rivelare l’amore del discusso Emmanuel Macron per Napoli ci aveva già pensato qualche tempo fa Caterina Avanza, una bresciana nello staff del presidente francese. «Per lui, Napoli è la città più bella del mondo», disse qualche tempo fa l’unica italiana al servizio del leader transalpino. «Ama Napoli, è stato lì a Natale del 2015. Mi ha confidato di avere una passione forte per quella città, per i suoi musei eccezionali, ed era davvero convinto di quanto mi raccontava».
Parole confermate a Fabio Fazio dal diretto interessato, folgorato dal teatro di Eduardo, dalle scritture del mio amico Jean-Noël Schifano e dalle storiche parole di Stendhal sulla bellezza di Napoli. E dire che il gran francese di Grenoble disse ciò da grande innamorato di Milano, di cui si sentiva cittadino, tanto da farlo scrivere suo sepolcro al cimitero parigino di Montmartre.
E mi viene in mente anche Gerard Depardieu, per il quale «L’Italia inizia a Napoli».
L’amore dei francesi per l’intellettualità di Napoli è forte, e spiega anche il motivo per cui i turisti transalpini scelgono di sostarvi più di altri, mentre i tedeschi preferiscono le isole e gli inglesi la costiera sorrentina.

Peppino e Goldrake

Angelo Forgione Il 4 aprile del 1978, esattamente 40 anni fa, appariva sui teleschermi d’Italia il più amato tra i cartoons giapponesi: Goldrake. In realtà si chiamava Grendizer, ma la Rai acquistò la serie dalla tivù francese, dove era chiamato Goldorak. I transalpini mandarono il plico descrittivo della serie, che in Francia è detto “atlas”, e quelli di mamma Rai credettero che si chiamasse Atlas Ufo Robot. La sigla italiana ci entrò in testa, sbalordendoci con la fantasia dell’alimentazione a base di libri di cibernetica e insalate di matematica.
Negli anni di piombo italiani si inseriva l’eterna lotta tra il Bene e il Male a cartoni animati. Finì come doveva, con Actarus vincitore su Vega, liberatore dell’intera galassia per poi tornarsene su Fleed, il suo pianeta, lasciando la Terra in pace. Vennero altri eroi, che non valevano uno solo dei quattro corni di Goldrake, anche se in patria era battuto in quanto a fama da Mazinga.
A noi resta un’infinita nostalgia per una serie che segnò un’epoca, in tutto una settantina di puntate in tre blocchi stagionali, uno dei quali inserito nella trasmissione “Buonasera con Peppino De Filippo. Sì, il grande Peppino, con l’appena scomparso figlio Luigi, una quarantina di anni fa, davano l’annuncio più atteso della giornata a tutti i ragazzini d’Italia proprio come in una delle commedie del grande teatro napoletano. Nostalgia di tutto!

Addio a Luca De Filippo

Angelo Forgione Se ne è andato a 67 anni per un male incurabile il figlio del grande Eduardo, attore e regista dal cognome ingombrante, nato sul palcoscenico. Solo un mese fa fu ospite della redazione del Corriere del Mezzogiorno (Clicca qui per guardare il video), chiarendo il suo amore conflittuale con Napoli, non troppo diverso da quello che nutriva il padre.

«Napoli? Amarla significa anche criticarla, e io lo faccio proprio perché le voglio bene. Ma per me è sempre la prima città, nel bene nel male, e tocca delle corde in me che mi fanno sentire vivo, mi fanno ritrovare all’interno di una cultura che mi piace e in cui mi riconosco.» 

Sì, è verissimo… Napoli, e non solo Napoli, perde un altro grande frammento di umanità artistica. Luca, come Pino, amava Napoli in maniera asciutta, senza ridondanza e con severità genitoriale; si riconosceva nella sua espressione trimillenaria, ma detestava chi nel coro stonava. Nel solco del padre, era vicino ai giovani a rischio e lontanissimo dalla politica del nulla. Dunque, se vogliamo ricordare Luca, potremmo magari riflettere su cosa facciamo nella nostra quotidianità e nella nostra intimità per valorizzare davvero questa città peculiare, che nulla ha da invidiare ad alcuna al mondo; che, semmai, è invidiata per la sua bellezza paesaggistica che solo Rio e Istanbul, e per la sua ineffabile energia, che nasce nel suo ventre magmatico. Un’energia che ha plasmato una Cultura universale che, senza retorica, rende Napoli “diversa” da secoli, sempre se stessa, persino avversata da chi nella cultura non vive. Luca era figlio di questa energia, come tutti i napoletani, e aveva imparato a cibarsene sin dalla nascita, sul palcoscenico paterno. Molti di noi, senza quella sensibilità sviluppata, neanche l’avvertono quell’energia, e non comprendono quale dono sia l’essere figli di Napoli. Luca lo sapeva, invece. Luca era un napoletano consapevole, di Napoli figlio, ma allo stesso padre.

Eduardo e l’influenza della politica

Angelo ForgioneNei giorni scorsi, dalle pagine de Il Mattino, il maestro Roberto De Simone ha espresso il suo parere sulle “celebrazioni defilippiane” in corso. Il contenuto revisionistico del suo scritto è tanto coraggioso quanto, a mio parere, condivisibile in diversi passaggi, perché condanna l’apologetica che non aiuta a comprendere i nostri fondamenti culturali. De Simone, da persona che ha certamente voce in capitolo, ha sviscerato con apparente azzardo i limiti sopraggiunti dell’opera eduardiana, consacrata nel momento in cui si fece meno genuina e “napoletana”, senza dimenticare i sempre vivi lampi di genio, e concludendo con una cruda constatazione:
“in Italia, con la fine dell’egemonia democristiana, l’avanzata al potere delle sinistre produsse un ulteriore consolidamento del mito eduardiano, avviando la nominanza del drammaturgo a traguardi agiografici. In questo modo la politica fece propri i temi filumeneschi, cupielleschi, jovineschi, ricambiando l’attore con la nomina di senatore a vita, e con una eduardoteca prodotta dalla televisione di Stato. L’imbalsamazione era compiuta già in vita.”
E proprio questo pensiero finale che aiuta a comprendere appieno lo “sfogo” di Roberto De Simone circa un grande interprete internazionale del teatro napoletano che ebbe evidentemente buon sostegno dal mondo politico di sinistra (mentre la DC gli impedì di aprire una sua scuola di recitazione). Fu evidentemente quel mondo ad affermare, e quindi ad influenzare, la figura del secondo Eduardo, diversa dal primo. E mi è venuta in mente una cruda intervista rilasciata proprio da Peppino, che col fratello Eduardo interruppe ogni rapporto anche umano dopo il furioso litigio del 1944, allorché, durante le prove di uno spettacolo, fu da lui rimproverato davanti a tutta la compagnia e gli rispose «Duce… Duce… Duce…», con tanto di saluto romano. Un’offesa insopportabile per chi detestava un Regime che bandiva l’umanità plebea del neorealismo e ostacolava le opere in linguaggio napoletano. Peppino, nella sua amara confessione, denunciava la sensazione di un boicottaggio politico nei suoi confronti, voluto dall’ambiente di Eduardo, fatto senatore a vita da Sandro Pertini, un ex partigiano, con investitura nel 1981. Vittorio Gleijeses, in La Storia di Napoli, aveva già scritto coraggiosamente che tra i suoi tanti meriti vi era anche la colpa imperdonabile “di aver distrutto la maschera di Pulcinella nella commedia Il figlio di Pulcinella”. Ed è significativo che proprio nell’aula di Palazzo Madama sia stata celebrata la sua figura lo scorso 31 ottobre.
Nulla toglie al valore di Eduardo, drammaturgo rappresentato in tutto il mondo già dal 1947, ma semmai aggiunge elementi di riflessione critica più profonda e meno solenne sulla storia d’Italia.

https://www.youtube.com/watch?v=oLTbfrCMYoE&feature=youtu.be&t=7m55s

Eduardo e quel peso eccessivo al fujitevénne

Angelo ForgioneA trent’anni dalla morte di Eduardo De Filippo, credo sia per via di un certo modo di interpretare Napoli che la rassegnazione del suo fujitevénne sia stata caricata di un peso maggiore della speranza affidata al messaggio di Napoli milionaria!, di cui è passata alla storia la frase Ha da passà ‘a nuttata. Credo che il neorealismo eduardiano meriterebbe invece di essere rivisitato più a fondo e non ridotto a sentenza ma ampliato al complesso degli interrogativi globali, tuttora irrisolti, che condividono le stesse esperienze degli spettatori a cui si rivolgono e ne agitano i sentimenti. Ecco perché Eduardo è universale e contemporaneo. Ecco perché, a partire dall’Argentina e dall’Eritrea, nel 1947, è stato tradotto e rappresentato in giro per il mondo, da Jaime de Armiñán, Fernando Fernán Gómez e Pau Mirò in Spagna e Karolos Koun in Grecia, passando per la Francia, la Germania e lo straordinario successo in Inghilterra con la regia di Franco Zeffirelli. Continuo a pensare che ha da passà ‘a nuttata. Intanto che passa (e sembra non farlo), s’ha da jì, non s’ha da fujì.

Il teatro di Eduardo De Filippo in Grecia raccontato da Georgios Katsantonis

katsantonis_2Angelo Forgione – A trent’anni dalla sua morte, Eduardo De Filippo continua ad essere tradotto e rappresentato all’estero. Anche in Grecia, dove le sue commedie hanno interessato i registi locali (Karolos Koun su tutti) che le hanno rese famose. Soprattutto Filumena Marturano, Questi Fantasmi, Napoli Milionaria, Le voci di dentro, Il sindaco del Rione Sanità, Sabato, Domenica e Lunedi e Gli esami non finiscono mai.
L’opera eduardiana è oggi raccontata in terra ellenica da Georgios Katsantonis, ventiseienne ricercatore laureato in Studi Teatrali presso l’Università degli Studi di Patrasso (Dipartimento degli Studi Umanistici e Sociali), in seguito ammesso al corso di Master di II livello in “Letteratura, scrittura e critica teatrale” afferente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove ha conseguito il master e si è laureato con la votazione di 110 e lode. Già curatore dell’edizione critica del teatro eduardiano in Grecia, Georgios ha pubblicato di recente il saggio critico Le opere di Eduardo De Filippo sul palcoscenico greco, pubblicato su Ilmiolibro.it (Feltrinelli editore), tratto dalla sua tesi di laurea.
Katsantonis, che non era ancora nato quando De Filippo morì, ha investito sulla figura del drammaturgo napoletano per approfondire lo studio della letteratura teatrale italiana, senza fonti bibliografiche sull’argomento, e ha poi deciso di pubblicare i suoi studi in un libro, in modo da presentare per la prima volta uno scritto sulla fama di Eduardo De Filippo in Grecia.
Il percorso di ricerca si snoda su tre assi portanti: Teatro d’Arte di Karolos Koun, Teatro Nazionale Greco (Atene) e Teatro Nazionale della Grecia del Nord (Salonicco). Lo studio si conclude con la postfazione scritta dal traduttore di Filumena Marturano, Errikos Belies, il quale spiega la funzione linguistica rispetto alle peculiarità lessicali, le macchie caratteristiche napoletane e le battute parentetiche che acquistano un accento esclusivamente teatrale in napoletano ma non possono avere risonanza espressiva in greco.
katsantonisL’autore ritiene Napoli “un luogo molto privilegiato e significativo nell’ambito della letteratura teatrale”. «È una città – afferma il ricercatore – che riesce a mantenere viva una tradizione che supera i confini italiani. È inevitabile che chi studia teatro rimanga affascinato dallo splendore del teatro tradizionale napoletano. Ho fatto un viaggio in Italia nel 2010, mentre seguivo corsi di lingua e cultura italiana, e me ne sono innamorato. Mi ritengo privilegiato per poter respirare l’arte e la cultura Italiana. L’italia è la mia seconda patria, un paese bellissimo, in cui ogni pietra è carica di simboli e di storia. E Napoli mi ha affascinato moltissimo. Era una destinazione vista in fotografia, quasi proibita a causa dei pregiudizi che girano riguardo al Sud-Italia. Il Meridionale, invece, ha bellezze naturali e archittetoniche indescrivibili. Napoli è un palcoscenico vivo, dove si rappresentano scenari magici, esattamente come le opere di Eduardo De Filippo. Non è una città italiana né europea, ma ha una valenza universale. Riesce ad esorcizzare lo spettro della miseria sull’aroma del caffè, sul panorama del Vesuvio, e questa bellezza diventa una tavolozza di un pittore intento a ritrarre un paesaggio pittoresco. Napoli è un luogo sfaccettato dell’anima che tiene lontana la noia, e per questo la amo profondamente.»

Una strada per Ferdinando II

OLYMPUS DIGITAL CAMERAAngelo Forgione – Nel 2009, battendo Eduardo De Filippo e Federico II, Ferdinando II di Borbone fu “eletto” superpersonaggio storico di Napoli in un lungo divertissement online del Corriere del Mezzogiorno. Ora la Fondazione “Il Giglio” e il Movimento Culturale Neooborbonico chiedono al Comune di Napoli di intitolargli una strada, dopo la delibera di intitolazione toponomastica di uno slargo ad Enrico Berlinguer (intersezione pedonale tra Via Toledo e via Diaz) e la proposta del sindaco De Magistris di intitolare una strada, una piazza o un giardino di Napoli a John Lennon.
I promotori dell’iniziativa chedono di inviare una email al Sindaco, all’indirizzo sindaco@comune.napoli.it, chiedendo “che sia intitolata una piazza importante o una strada principale della città a Ferdinando II di Borbone, il Re che fece grandi Napoli capitale e il Regno delle  Due Sicilie”. Lo stesso Corriere del Mezzogiorno sta proponendo un sondaggio (clicca qui) per verificare l’eventuale gradimento della proposta.
L’operato politico di Ferdinando II, di cui ho parlato in Made in Naples e che ho focalizzato sotto il profilo economico nel Cenno Storico sulle opere pubbliche eseguite nel Regno di Napoli, è riassunto nell’intervento di Gennaro De Crescenzo, tra i promotori dell’iniziativa, nell’intervento alla trasmissione Baobab di Radio Rai (minuto 8:00).