Ferdinando Palasciano, il vero ispiratore della Croce Rossa

Angelo Forgione – È il protagonista del romanzo di Wanda Marasco Di spalle a questo mondo, vincitore della 63ª edizione del Premio Campiello (2025). Ferdinando Palasciano è personaggio importante ma misconosciuto della scuola medica napoletana, tra quelli scippati delle loro idee e deduzioni. Penso a Vincenzo Tiberio, vero scopritore della penicillina attribuita ad Alexander Fleming, oppure a Gennaro Galbiati, inventore della retrovaccinazione ma eclissato da Edward Jenner. Tre figure di cui ho scritto in Napoli svelata (Magenes, 2022) nel capitolo “Grandi, grossi e vaccinati”.

Il nome del Palasciano è più o meno noto a Napoli per la torre che porta il suo nome, ispirata al palazzo della Signoria di Firenze, che svetta dalla collina di Capodimonte, elemento rinascimentale del palazzo in stile eclettico alla salita del Moiariello che si fece costruire nei primi anni del Regno d’Italia. Un nome che oggi sarebbe noto in Europa se gli fosse stata riconosciuta la paternità di quella che dal 1863 è detta Croce Rossa.

Nato a Capua nel 1815, il Palasciano, a 33 anni, in pieni moti insurrezionali del 1848, fu nominato ufficiale medico dell’esercito borbonico del Regno delle Due Sicilie. Durante l’assedio di Messina, con i siciliani insorti contro i napoletani, sostenne la neutralità dei feriti in guerra, a prescindere dall’appartenenza. Disobbedì al generale Carlo Filangieri, che voleva si curassero solo i suoi soldati, e si adoperò per prestare soccorso e cure anche ai rivoltosi: «I feriti, a qualsiasi esercito appartengano, sono per me sacri – disse al suo superiore – e non possono essere considerati come nemici; il mio dovere di medico è più importante del mio dovere di soldato». Fu condannato a morte dal tribunale militare, pena commutata in un anno di carcere solo grazie all’intervento diretto del Re, Ferdinando II.

Nel 1861, in piena nascita dell’Italia unita, durante il Congresso Internazionale dell’Accademia Pontaniana di Napoli, sostenne la necessità di una convenzione internazionale per il reciproco riconoscimento fra i belligeranti della neutralità dei soldati feriti o malati. Le sue proposte ebbero una vasta risonanza in tutta Europa, ma non se ne fece alcuna menzione alla Conferenza di Ginevra del 1864 che segnò la nascita delle Società Nazionali della Croce Rossa. Nessuno accennò alla vera paternità del principio ispirativo, che era del medico campano, ma fu invece attribuita al ginevrino Henri Dunant, scrittore di Un Souvenir de Solferino, una memoria tradotta in più di 20 lingue di quanto visto durante la battaglia di Solferino nel giugno 1859, la più sanguinosa della 2° Guerra di Indipendenza italiana.

Il Palasciano lottò dall’Accademia Pontaniana per rivendicare la sua precedenza, ma contestualmente chiese addirittura di migliore la convenzione di Ginevra includendo l’assistenza ai feriti dei conflitti navali, cosa che avvenne nel 1868, ma ancora una volta ignorando il suo ispiratore.

In seguito, il medico campano fu pure allontanato dall’Università di Napoli e dalla cattedra di Clinica chirurgica per volontà del rettore Paolo Emilio Imbriani con cui ebbe forti attriti. Gli fu pure smantellata la sua sala operatoria all’avanguardia. Eventi che probabilmente sconquassarono definitivamente il suo animo. A settantuno anni, nel 1886, mostrò segni di squilibrio mentale, una condizione che si trascinò fino alla morte, avvenuta nel 1891, in seguito alla quale la regina Margherita interessò il Ministero della Guerra affinché fosse rivendicata all’Italia l’idea della Croce Rossa. La Società Nazionale di Croce Rossa italiana fu incaricata di pubblicare memorie del Palasciano, ma non si riuscì a ottenne il risultato prefissato.

La storia di Ferdinando Palasciano dice che dietro al simbolo della Croce Rossa, derivato dalla bandiera della Svizzera, la patria del ginevrino Dunant, è nascosto un cavallo sfrenato, il sempiterno simbolo di Napoli, la città dove studiò e operò il vero ispiratore del principio di neutralità dei feriti in guerra.

“Napolitiamo” in Santa Maria la Nova il 28/9

Appuntamento con Napolitiamo a domenica 28 settembre, ore 11:30, nella bellissima location del Complesso monumentale di Santa Maria la Nova, nel cuore di Napoli. Una mattinata tutta dedicata alla lingua napoletana.
Dibattito di Maurizio de Giovanni e Angelo Forgione, con intermezzi musicali di Gennaro Pisapia. Introduce gli ospiti il direttore del Complesso monumentale, Giuseppe Reale. Modera Pasquale Giustiniani.
Ingresso libero.

Napolitiamo per ReadYnnovation, i libri dell’innovazione

NAStartUp, il network no profit di accelerazione fondato da Antonio Prigiobbo, dedica attenzione a Napolitiamo nel format ReadYnnovation, la rubrica dedicata a libri e storie che raccontano il futuro.

“Per innovare davvero, bisogna partire dalla tradizione. Napolitiamo è un libro innovativo che unisce rigore storico e didattica pratica: da un lato ricostruisce l’evoluzione dell’idioma partenopeo nei secoli, dall’altro propone un vero e proprio prontuario per apprendere l’ortografia napoletana.
Un’opera che restituisce prestigio letterario a una lingua troppo spesso ridotta a semplice dialetto, offrendo strumenti concreti per scriverla correttamente e mantenerne viva la tradizione”.

La “Piedigrotta” silenziosa

Angelo Forgione – Era la festa di Napoli. Non ne resta che il ricordo e la sola celebrazione religiosa, osservata esclusivamente dai devoti della Madonna di Piedigrotta, venerata dai pescatori e dal popolo di Mergellina dal momento dell’apparizione a tre religiosi napoletani avvenuta nel 1353.
Una storia dalle origini antichissime e precristiane, che qualcuno riconduce ai riti orgiastici in onore di Priapo, ma che in realtà celebrava i riti mithraici che magnificavano i misteri del Sole. Erano lascito dei Greci nella Napoli dei Romani che conservava usi e costumi delle origini, e si tenevano nella Crypta Neapolitana, la galleria nella collina di Posillipo scavata nel I secolo a.C. per facilitare la comunicazione diretta fra Neapolis e Puteolis.

Dal medioevo, si narra fantasiosamente che il tunnel sia stata realizzato da Virgilio in una sola notte, facendo ricorso a quella magia che gli si attribuiva e che lo rese patrono di Napoli prima di San Gennaro. Proprio nei pressi dell’ingresso della Crypta si trova quella che ancora oggi è identificata dalla tradizione come la tomba di Virgilio, ma che in realtà è un simbolico cenotafio.

Che la cavità posillipina facesse funzione di mitreo è fortemente indicato dal ritrovamento, avvenuto nel XVI secolo, di un bassorilievo del culto di Mithra, datato tra la fine del III e l’inizio del IV sec. d.C., e oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale, sul quale sono riportate le simbologie poi riprese dal Cristianesimo, responsabile probabilmente di avere raccontato dei riti orgiastici in onore di Priapo per sovrapporre alla festa la simbologia del Santuario di Piedigrotta, edificato nel 1353 davanti la Crypta, e dell’apparizione della Madonna ai tre religiosi, in onore della quale la festa religiosa fu fissata l’8 settembre, giorno della Natività della Beata Vergine Maria (concepita senza peccato originale l’8 dicembre). Forse per opporsi a quel luogo di baccanali orgiastici pagani, l’orientamento della chiesa fu invertito nel Cinquecento, in piena Controriforma, con la facciata rivolta in direzione opposta all’ingresso della Crypta.
In realtà, dopo le processioni in onore di Mithra, non era stato Priapo ad attirare i napoletani nella cavità posillipina ma Dioniso, al quale, nel mondo antico greco che aveva dato origini a Napoli, erano dedicate le feste di vendemmia d’autunno. Pare che le danze in onore della divinità del vino mostrassero gli stessi movimenti della tarantella, più tardi inventata e adottata nella Festa.

Le trasformazioni della Piedigrotta si sono ripetute nei secoli, tra sovrapposizioni religiose ma anche dinastiche operate dai vari regnanti che hanno cavalcato la Festa. Oltre ai canti, le processioni si arricchirono di carri e di elementi caratteristici che con il passare del tempo sono stati sottratti al popolo, il vero protagonista, divenuto man mano spettatore.
La fama internazionale fu raggiunta nel Settecento, dopo la vittoria di Carlo di Borbone a Velletri contro gli austriaci nell’agosto del 1744 con cui fu blindata l’indipendenza di Napoli. La data dell’8 Settembre fu resa Festa nazionale del Regno di Napoli e del suo esercito e la Madonna di Piedigrotta, il simbolo religioso della festa, fu innalzata alla venerazione borbonica della Capitale. La “Piedigrotta” divenne l’appuntamento di Napoli per stringersi attorno alla Nazione Napolitana con una celebrazione ricca di sfarzose parate militari e cannonate dai cinque castelli cittadini. Carlo di Borbone volle che diventasse un Carnevale celebrato con sfilata di carri più ricchi di quelli allestiti sobriamente coi prodotti della terra dagli abitanti delle zone limitrofe che confluivano a Napoli anticamente. Dovevano essere preceduti da bande musicali e ritraenti personaggi della storia e della tradizione napoletana quali san Gennaro, la Sirena Parthenope, Pulcinella, Masaniello ed altri, che dovevano procedere in direzione del Palazzo Reale, nei cui pressi era allestito il palco reale, meta di un rituale “inchino”. Gran protagonista, come detto, era il popolo, invitato a cantare, a fare baccano e a unirsi alla nobiltà e alla corte nei festeggiamenti per le strade, insieme ai viaggiatori che giungevano per toccare con mano ciò di cui si sentiva parlare in tutt’Europa. La “Piedigrotta” divenne la festa più famosa del Continente e Napoli, anche durante la Festa, fu meta dei ricchi turisti del Grand Tour a cavallo tra Sette e Ottocento che intendevano toccare con mano quell’atmosfera unica di cui si sentiva parlare in tutte le capitali.

La gara canora di Piedigrotta fu ufficialmente inaugurata l’8 settembre del 1839, con il trionfo di Te voglio bene assaje. E però, qualche anno più tardi, dopo l’unità d’Italia, la festa pagò il doppio significato religioso e dinastico borbonico. Garibaldi entrò a Napoli il 7 settembre del 1860, e il giorno seguente, in piena Festa, si recò a far visita alla Madonna di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia, accolto sinistramente da un tremendo temporale che inzuppò il corteo, nel quale marciavano anche il ministro voltagabbana Liborio Romano e tutti i “compagnoni” (camorristi ante litteram) a protezione del Generale.

La Festa fu sospesa nel 1862 dal nuovo potere massonico, a seguito del decreto nazionale di soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della Chiesa, compreso il santuario di Piedigrotta.
Ripartì diversi anni più tardi, ma andò incontro al suo declino con l’avvento del fiorente business delle industrie discografiche di fine Ottocento, convogliata in una preziosa rassegna di canzoni che però sostituirono i canti del popolo. Mentre guadagnava il suo grande patrimonio musicale, Napoli perdeva definitivamente la vera essenza della Piedigrotta. I canti popolari, anticamente eseguiti nei pressi della Crypta, divennero canzoni, eseguite in piazze e spazi più ampi. Il popolo neanche sfilava più, avendo perso il suolo ruolo di attore per assumere quello di spettatore.

Con la nascita del Festival della Canzone Napoletana, nel 1952, anche la rassegna canora di Piedigrotta declinò, insieme alla Festa che l’industria discografica aveva conquistato.
La sospensione del 1982 seguì ai disagi del terremoto d’Irpinia, anche se la sfilata dei carri fu comunque sovvenzionata da un’associazione privata per qualche anno ancora.
Dal 2007, sotto l’amministrazione Iervolino, gli ultimi discutibili tentativi di riaccendere l’appuntamento settembrino. Tentativi definitivamente abortiti nel 2012 dall’amministrazione De Magistris, con l’evento ormai sradicato dall’identità e dalla memoria dei napoletani.

“Napolitiamo” a Pimonte

La conoscenza è libertà – Libri e idee in cammino continua con un appuntamento speciale.

Un’occasione per riflettere sull’identità, la storia e l’anima profonda di Napoli, raccontata con passione da Angelo Forgione, scrittore, saggista e attivista culturale, noto per il suo impegno nella valorizzazione del Mezzogiorno e della cultura partenopea.

In Napolitiamo, Forgione ci accompagna in un viaggio emozionante tra parole, luoghi e significati nascosti, invitandoci a guardare Napoli con occhi nuovi, lontano da stereotipi e luoghi comuni. Vi aspettiamo per un incontro ricco di spunti, emozioni e cultura.

📅 Martedì 3 settembre – ore 18.30
📍 Biblioteca Comunale di Pimonte
Ingresso libero

Come De Laurentiis ha fatto la rivoluzione copernicana del calcio

Angelo Forgione – Due scudetti in tre anni. Investimenti importanti, a partire da quello per Antonio Conte, e una presenza dominante sul mercato di rafforzamento dei club di Serie A. È la rivoluzione copernicana del calcio di Aurelio De Laurentiis, di fatto la rivoluzione aureliana, che ha cambiato le certezze e invertito le polarità economiche, portando un club del Sud Italia a trainare il calcio italiano per la prima volta da quando, nel 1926, cioè un secolo fa, ai club meridionali è stata data la possibilità di misurarsi direttamente con quelli settentrionali.
Ma come ci è riuscito un uomo che veniva dal mondo in declino del cinema e che ha pensato bene di riciclarsi nel mondo dorato del calcio, di cui non conosceva nulla? Irrotto sul palcoscenico del pallone nel 2004, ha imparato velocemente e lo ha piegato alle sue regole, fino a rivoluzionarlo. Ha issato un club finito in tribunale e nei campi di Serie C fino al trono d’Italia, e lo ha fatto attuando un modello di calcio imprenditoriale, una visione prospettica che gli ha consentito di far fruttare quanto messo insieme in 20 anni, arco di tempo in cui la tendenza del margine operativo lordo del club, cioè della differenza tra ricavi e costi, risulta decisamente positiva.
4 miliardi di ricavi e un utile aggregato superiore ai 100 milioni (fonte: Calcio e Finanza) nell’arco del ventennio aureliano. Non sono certamente tali cifre ad aver fatto la differenza, poiché il fatturato strutturale (introiti dai diritti tv, sponsor, bigliettazione stadio, merchandising e ricavi commerciali) della SSC Napoli, quantunque in progressiva crescita, è ancora inferiore a quello di Inter, Milan e Juventus.

La differenza, il Napoli, la fa per un motivo assai banale, se pensiamo che si tratta pur sempre di un’azienda: l’assenza di debiti. Elemento figlio della sostenibilità economica, cioè di un attento controllo dei costi. Grazie a un oculato player trading, cioè alla strategia di acquisto, valorizzazione e vendita dei calciatori, il Napoli ha generato forti plusvalenze negli anni, reinvestite per sostenere la sua crescita e rigenerare i suoi cicli. Oltre il 95% delle risorse finanziarie prodotte è stata investita in calciatori.
De Laurentiis non si è accontentato di una mediocrità di risultati, ma ha badato prima alla sostenibilità del club e poi ai trofei; non ha sacrificato i conti per inseguire le vittorie, come hanno fatto le altre tre big, quelle del Nord, incastrate in un’esasperata competizione storica non solo calcistica tra Milano e Torino. De Laurentiis, fuori da questa dinamica perversa per questioni geografiche e storiche, ha evitato bellamente ogni rincorsa ossessiva al trionfo ma ha lavorato con lungimiranza per arrivarci senza affanno e con fiato lungo. Ha atteso con pazienza il momento per far valere una solidità economica costruita anno dopo anno. Il momento è arrivato quando ci si è messi alle spalle la forte crisi del calcio generata dalla pandemia da Covid-19, che ha colpito naturalmente anche il Napoli, ma, grazie alla sua solidità, non alla stessa maniera delle concorrenti.
Tra le stagioni 2019/20 e 2021/22, anche per il club partenopeo tre bilanci in rosso, ma zavorrati più da due mancate qualificazioni in Champions League consecutive (2020 e nel 2021) che dall’emergenza sanitaria. Eppure De Laurentiis ne è venuto fuori bene e ha colto l’occasione per svettare.

Basta osservare il grafico dei risultati netti dei quattro top club della Serie A negli ultimi 10 anni, ovvero ciò che è rimasto in cassa o che si è accumulato a debito nei bilanci annuali di Napoli, Milan, Inter e Juventus, per dedurre che il club azzurro è uscito dalla crisi pandemica molto meglio delle altre big, capaci di fatturare di più ma enormemente indebitate e gravate da costi superiori, tra cui quelli di riduzione dei rispettivi deficit.

Tra l’esercizio del 2020 e quello del 2022, i risultati netti del Napoli hanno prodotto un passivo di -129,7 milioni. Passivo comunque decisamente inferiore ai quelli di -357,5 milioni del Milan, -488 dell’Inter e -553,9 della Juventus. Peraltro, il club azzurro, prima della pandemia, aveva fatto segnare alcuni attivi di bilancio, diversamente da Milan e Inter, che avevano accumulato debiti enormi, e dalla Juventus, che a partire dall’acquisto di Cristiano Ronaldo aveva infilato due passivi importanti (-59,2 miliardi in totale). L’azzardo di Andrea Agnelli, nel tentativo di vincere una Champions per incrementare i ricavi e il blasone, non poteva permettersi imprevisti, come quello che poi sopraggiunse al secondo anno di CR7.

La Juventus si è ritrovata a perdere 553,9 milioni tra il 2020 e il 2022, dovendo provvedere a diversi aumenti di capitale per un totale di 700 milioni e a ricche sponsorizzazioni della casa madre Exor, e provando inutilmente e illecitamente a limitare i danni con plusvalenze fittizie e scorrette manovre stipendi, colpite dalla scure della magistratura ordinaria e di quella sportiva, con anche una penalizzazione di dieci punti in classifica nel campionato 2022/23 e la dannosissima esclusione dalle competizioni europee.

L’Inter ha dovuto far fronte a un rosso complessivo di circa 488 milioni accumulato nel triennio 2020-2022. Nella fase di contrazione dovuta al Covid, anche la presenza di Antonio Conte nell’area tecnica ha fatto sentire il suo impatto sui costi. La proprietà di allora, Suning, ha dovuto limitare al minimo il proprio apporto, aggravando il livello di indebitamento e i connessi oneri finanziari. Da qui l’impossibilità di rimborsare un debito di 395 milioni di euro contratto con il fondo statunitense Oaktree Capital Management e di mantenere la proprietà.

Un po’ meno scura la situazione del Milan, che dall’ingresso di Elliot ha iniziato a ridurre il passivo. Il club rossonero, nel triennio 2020-2022, ha fatto registrare un calo del deficit, comunque pari a 357,5 milioni.

Nell’estate del 2022, i quattro top club hanno adottato politiche di contenimento dei costi, in linea con le esigenze di sostenibilità finanziaria post-Covid, e hanno ridotto i rispettivi monte ingaggi. Il club di De Laurentiis è quello che ha effettuato il taglio più significativo, con una diminuzione del 27%. Ceduti uomini di vecchia militanza come Mertens, Koulibaly, Insigne, ma anche Ospina, Ghoulam e Manolas, svecchiando la rosa e mettendo dentro elementi come Kvaratskhelia, Kim e Raspadori. Nonostante la forte contestazione del tifo napoletano per la perdita di elementi a cui era affezionato, la manovra ha prodotto ottimi frutti: il Napoli ha coniugato il contenimento dei costi con la competitività, arrivando persino alla vittoria dello scudetto 2022/23 e al conseguimento dell’utile più alto della storia della Serie A: +79,7 milioni. Scudetto in campo e fuori. Così, in quel momento, il Napoli ha iniziato a fare la differenza con le altre big.

E però, dopo la vittoria del campionato 2022/23, De Laurentiis ha sbagliato la gestione del trionfo e ha inanellato tutta una serie di scelte sbagliate ed enormi errori gestionali che hanno condannato il Napoli a una stagione disastrosa, culminata con un decimo posto e la dannosa esclusione dalle coppe europee dopo quindici anni di presenza continua.
Ma il patron azzurro non è rimasto vittima di se stesso e non ha affatto tirato i remi in barca; anzi, ha dato fondo alle riserve auree – al 30 giugno 2024, il patrimonio netto del club era di 211,5 milioni – e ha rilanciato, ingaggiando nientemeno che l’impegnativo Antonio Conte (con il suo folto staff) e investendo anche 150 milioni sul mercato per ingaggiare Lukaku, McTominay, Neres e Buongiorno. Il nuovo allenatore ha dettato al Presidente un cambio di paradigma rispetto al passato: gli investimenti hanno raggiunto il picco massimo e sono stati impegnati per calciatori con un’età media in rialzo di quasi due anni rispetto alla squadra che aveva vinto lo scudetto un anno prima. Il monte ingaggi è cresciuto a 82 milioni, ma è rimasto comunque di 59 milioni più basso di quello dell’Inter (141), 26 di quello della Juventus (108) e 22 di quello del Milan (104), e anche inferiore a quello della Roma (89). Risultato? Il Napoli, con il quinto monte ingaggi della Serie A, al culmine della stagione di ricostruzione, è tornato immediatamente ad acciuffare il trofeo dello scudetto, il secondo in tre anni.

Il fatto è che De Laurentiis, con la sua politica gestionale, ha messo il Napoli in condizione di poter ben ammortizzare le cadute e rialzarsi in piedi. È accaduto dopo il Covid e le due assenze consecutive dalla Champions League, ed è accaduto dopo il decimo posto. È accaduto nel periodo più nero per il calcio, quello in cui i tonfi sono costati caro alla Juventus, e non solo alla Juventus, ma non al Napoli.

È prevedibile che, per lo sforzo economico profuso per riportare immediatamente il Napoli al vertice e per i mancati introiti UEFA, il bilancio 2024/25 della SSC Napoli si chiuda in negativo, ma il ritorno in una Champions League più remunerativa, la cessione di Kvaratskhelia al Paris Saint Germain, nonché quella di Osimhen al Galatasaray (alle condizioni perentorie dettate da De Laurentiis) e il premio scudetto consentiranno di ammortizzare gli esborsi fatti per ripartire dopo il decimo posto, ma anche di sostenere l’aumento del monte ingaggi per il rafforzamento imposto da Antonio Conte.
Ed ecco che il Napoli di oggi, dopo aver trattenuto il gravoso allenatore con la promessa di esaudirne le esigenti richieste, fa la voce grossa sul mercato con un budget tra i 150 e i 200 milioni.

La bontà della gestione De Laurentiis e la forza della società azzurra è evincibile da un dato eloquente: considerando gli utili degli ultimi dieci anni, alcuni dei quali fortemente condizionati dalla pandemia, il Napoli è l’unico club che fa segnare il segno positivo: +118,8 milioni. Stratosfera, soprattutto se si confronta il dato con quelli in passivo di -816,1 del Milan, di -832,8 dell’Inter e di -888,1 della Juventus.

Ed è il club in testa alla classifica europea dei club più sostenibili sotto il profilo finanziario secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Off The Pitch, aggiornato a giugno 2025, che ha analizzato indicatori fondamentali quali ricavi operativi, contenimento dei costi salariali, equilibrio patrimoniale e capacità di generare utili re-investibili nel medio-lungo periodo. Un club che ha saputo coniugare forza delle finanze e forza della squadra, introiti e vittorie.

In conclusione, si può serenamente affermare che il Napoli, per meriti propri, ha paradossalmente beneficiato della crisi pandemica del calcio. Pur essendo ancora un club dimensionalmente inferiore a Juventus, Milan e Inter, è diventato leader in tutti i parametri economico-finanziari, finendo per insegnare ai competitor la strada della sostenibilità quale condizione necessaria per il conseguimento del risultato sportivo, e non viceversa.

Conti in ordine, esborsi mediamente inferiore agli incassi, produttivo reinvestimento delle plusvalenze da player trading, capacità di affrontare gli insuccessi e resilienza. Così si è compiuta la rivoluzione aureliana.

Arancino o arancina? La storia lo indica maschile e… dolce (ma non a Napoli)

Angelo Forgione – Metto un po’ di riso sul fuoco con l’eterno dilemma che divide la Sicilia: è più corretto dire arancino, con uscita in o dei catanesi, o arancina, con uscita in a dei palermitani? Non è questione di preparazione e di sola forma, conica a Catania, magari ovale a Messina, e perfettamente sferica a Palermo. L’ardua risposta, come spesso accade, ce la fornisce la storia.

Il termine nasce in forma dialettale, ed è esattamente arancinu. Così appare in principio in Sicilia, e lo si evince dal Dizionario siciliano-italiano del palermitano Giuseppe Biundi, pubblicato nel 1851, in cui spunta la prima documentazione scritta della glossa in quanto pietanza, dacché fino ad allora, con arancinu, si era inteso esclusivamente il colore del frutto d’arancio. Il genere indicato dal Biundi è quello maschile, e la definizione dice “diminutivo di arancio”, dando retroattivamente ragione ai catanesi, anche in virtù della u finale del dialetto siciliano, che equivale a o.

Voce che nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano del palermitano Antonino Traina, anno 1868, indica “spezie di vivanda” e rimanda a “crucchè”, là dove si legge di “polpettine fatte o di riso o di patate o altro”, evidentemente fritte.

Nel Nuovo dizionario siciliano-italiano del palermitano Vincenzo Mortillaro, anno 1876, la voce riferisce di “sorta di vivanda fatta di riso a forma di arancio ripieno di manicaretto”.

Forma di arancio, non di arancia, perché proprio al maschile era indicato anche il frutto dell’omonima pianta. Fu evidentemente la spinta verso l’italiano standard di fine Ottocento e primo Novecento a indurre i palermitani ad adottare la forma femminile arancia in via di affermazione nella lingua nazionale, usata anche per indicare la crocchetta di riso in sembianze di piccola arancia (arancina). Tale supposizione trova sostegno dall’Accademia della Crusca, che precisa come alla distinzione di genere nell’italiano standard, femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si sia giunti solo nella seconda metà del Novecento, e come molti parlanti di varie regioni italiane – Toscana inclusa – continuino tuttora nell’uso di arancio per dire arancia. L’unica attestazione di arancina nella letteratura di fine Ottocento si legge nel romanzo I Viceré del catanese Federico De Roberto: “le arancine di riso grosse ciascuna come un melone”.

È sempre la Crusca a dirci che la glossa femminile fu registrata dalla lessicografia italiana a partire da Nicola Zingarelli nel 1917 e poi da Alfredo Panzini nel 1927. Dopo, però, non se ne ebbe più traccia, e lo stesso Panzini, nell’edizione del 1942 del suo dizionario, passò per primo alla glossa maschile. Così è riportata principalmente la pietanza nei dizionari italiani dei nostri giorni, e così è stata denominata dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT).

Fatta luce sul nome della pietanza, non si può non accorgersi, ed evidenziare, che Giuseppe Biundi, nel 1851, oltre a indicare per arancinu il “diminutivo di arancio”, aggiunge qualcosa di ben più interessante: “e dicesi fra noi una vivanda dolce di riso fatta alla forma dello arancio”. Da tale definizione, ripetuta anche nelle diverse edizioni successive del suo dizionario, si deduce inequivocabilmente che l’arancinu fosse in principio dolce e non salato, viepiù considerando che i primi acquisti di pomodoro da parte della nobiltà siciliana si registrarono dopo il 1850, e solo dopo il frutto-ortaggio entrò a pieno titolo nella cucina di Sicilia, tanto da poter parlare di un “processo di pomodorizzazione” in epoca successiva all’unità d’Italia. Non era certamente tra gli ingredienti del ripieno dell’arancinu, e non aveva nulla a che fare con la preparazione originale. Peraltro, solo sullo Zingarelli del 1917 si apprende dell’uso della carne tritata, evidenza che lascia supporre che a inizio Novecento si sia fatta strada la trasformazione della pietanza e di conseguenza del suo gusto, per condimento con sale invece che con zucchero, e appunto pomodoro e carne.

Ma se andiamo indietro di dodici anni rispetto alla pubblicazione del dizionario di Giuseppe Biundi, ci accorgiamo che nel 1839 il grande gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, nella seconda edizione del suo trattato Cucina teorico-pratica, aveva mostrato al pubblico la ricetta dei crocchè di riso nel capitolo “delle fritture”. Riso, parmigiano grattugiato, uova, sale, pepe e pangrattato. A forma di pignoccate, cioè di palle. Crocchè di riso già citati alla pagina 220 della prima edizione del trattato, nel 1837, ma senza indicarne la ricetta.

Andando ancora più indietro, nel 1790, è il cuciniere di origine romana Francesco Leonardi a pubblicare la ricetta delle Surprise di riso nel suo manuale di cucina L’Apicio Moderno. Egli indica di condire il riso come per il sartù di riso (alla sultana), cioè con sale, uova, parmigiano e ragù (a quel tempo salsa stufata non ancora a base sugo di pomodoro bensì di carni, cipolline, ostriche, tartufi, funghi, erbe e diversi altri ingredienti in spezzatino messi insieme e cotti), e di modellarlo “o a guisa di pere, o tonde, o bislunghe“, mettendo un “picciolo salpiccone nel centro”, ovvero un cuore di tritato, per poi impanare e friggere.
Francesco Leonardi, romano di nascita, aveva fatto il suo noviziato nelle cucine francesi del Maresciallo di Richelieu a Parigi e poi a Napoli per il Principe di Francavilla, dove aveva avuto modo di intercettare e apprezzare la cucina napoletana con i suoi innovativi usi, ai quali riservò attenzione particolare nel suo manuale di cucina. Sarebbe ritornato a lavorare a Napoli per qualche anno nel 1804.

Tra i capocuochi napoletani e quelli siciliani esisteva a quel tempo una forte commistione dettata dalla comune appartenenza al regno dei Borbone di Napoli, tant’è che le due schiere erano accomunate dallo stesso appellativo: monzù per i napoletani e monsù per i siciliani, dal francese monsieur (signore). Crocchè, del resto, era la deformazione della parola transalpina croquette (crocchetta), come pure Sartù lo era di sur tout (tutto sopra) e Supplì della parola surprise (sorpresa), riferita al ripieno nascosto nel cuore di un manicaretto. Nei territori borbonici di Palermo, Re Ferdinando trascorse una decina d’anni a partire dal 1799, durante il breve periodo della Repubblica Napolitana e la ben più lunga occupazione napoleonica del Sud peninsulare di inizio Ottocento, e lì i cuochi di corte napoletani al seguito erano venuti a contatto con quelli siciliani reclutati sul posto.

I ricettari di Ippolito Cavalcanti e Francesco Leonardi ci dicono chiaramente che la versione salata delle palle di riso, detta crocchè o supplì, fu accolta verosimilmente dai cuochi siciliani di fine Ottocento, fin lì rimasti ancorati a quel gusto dolce di cui ci parla chiaramente Giuseppe Biundi. Cinquantasei anni dopo, nel 1917, Nicola Zingarelli ci spiega che trattasi di “pasticcio di riso e carne tritata, in Sicilia”.
Da tutto ciò si evince che le palle di riso napoletane, in versione salata, sono cosa conosciuta a Napoli prima che nella grande isola.

Napolitiamo: articolo di Elena Barbato per il “Roma”

Alla Feltrinelli di Santa Caterina a Chiaia è stato presentato alla presenza di Maurizio de Giovanni, Fabrizio Mandara e Errico Liguori il nuovo libro di Angelo Forgione, giornalista, scrittore, divulgatore della buona cultura.

Il libro è un elogio alla lingua napoletana: la lingua dell’arte, della musica, della poesia, del cinema, del teatro. Troppo spesso declassata a “dialetto”, anche se tra i più conosciuti al mondo, e maggiormente diffusa per la sua espressione vocale, la sonorità e la bellezza del suo popolo che la lega fortemente ad una comunicazione gestuale di forte impatto. Mezzo espressivo e veicolo di alcune forme artistiche di Napoli che nessun’altra città vanta tutte insieme, dalla musica al teatro, dalla poesia al cinema, “Napolitiamo” di Angelo Forgione ne espone l’importanza dividendo la lettura in due parti: una storica e una didattica.

La parte storica analizza con rigore l’evoluzione del napoletano nei secoli, confrontando il percorso linguistico di Napoli e di Firenze. La parte didattica offre un pratico prontuario per apprendere una corretta ortografia napoletana, chiaro e accessibile, pensato per chi desidera imparare a scrivere questa lingua d’arte.

La presenza di Maurizio de Giovanni, autore della prefazione, il suo raccontare di Napoli e della sua lingua, ha rafforzato la necessità di porre un argine al pericolo, evidenziato dall’autore, che il napoletano sta correndo nel nostro presente, rischiando di perdersi nel dimenticatoio di una trasmissione orale che non le fa giustizia. Maurizio De Giovanni ha chiesto a gran voce di istituire una cattedra di lingua Napoletana presso le Università campane che tanta storia serbano nei loro meandri e tanti primati ne annoverano la grandezza.

Gli intermezzi musicali eseguiti con grande maestria dal musicista Fabrizio Mandara, accompagnati dalla bravura interpretativa di Errico Liguori in arte Masaniello hanno allietato il pubblico giunto in libreria, divenuta in una manciata di minuti un’arena in cui fare cultura.

In un’epoca in cui, con l’esplosione della scrittura digitale, ha proliferato una barbara ortografia “faida-te” e un eccesso di libertà nel trascriverla a proprio piacimento. Una discrezionalità licenziosa che sposta una lingua d’arte nel recinto dei semplici dialetti e le fa correre il rischio di perdere il suo prestigio letterario.

Ma il napoletano è undialetto o una lingua? Abbiamo chiesto ad Angelo Forgione. «Chiamiamolo come preferiamo, ché comunque non sbagliamo. Piuttosto, commettiamo errore se lo rendiamo rozzo e se ci vergogniamo di parlarlo, finendo per favorire la cancellazione delle differenze per le quali l’Italia è peculiare. Mi sono impegnato a scrivere questo duplice saggio perché ho profondamente studiato da una parte la storia della lingua napoletana, che racconta quella assai complessa di Napoli, e dall’altra la grammatica napoletana, con particolare attenzione all’ortografia, che vanno comprese se davvero si vuole proteggere il napoletano da un certo declassamento minacciato dall’anarco-scrittura imperversante. Tutto andava fissato in un saggio. Il Napoletano si è fortemente italianizzato dal Novecento in poi, e si è persa la memoria di parole antiche bellissime. Ma il vero problema, oggi, è l’assenza di cura per la scrittura napoletana. Questo mio nuovo saggio deve finire nelle mani di tutti quelli che amano la lingua napoletana e magari hanno anche voglia di scriverla correttamente. Napolitiamo è lo strumento adatto per farlo».

Spaghetti alle vongole, da Napoli all’Italia

Angelo Forgione – È un fatto che la vongola sia un chiaro esempio dell’influenza del napoletano nell’italiano corrente. Lo è in quanto termine dialettale partenopeo, derivante dal latino conchŭla, cioè conchiglia, per definire sinteticamente il lupino di mare o anche il mollusco bivalve. Geosinonimo scelto da tutti i linguisti e vocabolaristi premoderni per la lingua Italiana.

Leggendo il Vocabolario napoletano-italiano del 1897 di Raffaele Andreoli si apprende che vongola, figurativamente, era usato anche “per cosa non vera, fandonia”, e pure “per parola oscena, parolaccia”, questo significato affine a quello figurativo di oggi, tempo in cui per “caccià ‘na vongola” si intente dire parola volgare o mal pronunciata.

Dei vermicelli alle vongole ne dà la primissima testimonianza scritta Ippolito Cavalcanti nell’appendice Cucina casereccia in dialetto napoletano del trattato Cucina teorico-pratica del 1837. La ricetta è quella dei Tagliarielli con vongole, accompagnata nella parte italiana dello stesso trattato dalla semplice citazione dei Tagliariell’ e Vongole. Due anni più tardi, nella seconda edizione dell’opera, risulta ben più dettagliata la ricetta dei Tagliarelli e Bongole (in napoletano, per betacismo, la V può diventare B – es. viecchio > biecchio), poi illustrata in italiano nelle edizioni successive (Vermicelli all’aglio con vongole).

Esattamente un piatto napoletano con un dialettismo napoletano, vongola, esteso a tutta la Penisola, dunque. Come la pizza, del resto, termine napoletano già presente nei trattati linguistici partenopei del Cinquecento ed esordiente nei vocabolari di lingua italiana solo nel 1905.